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«Da Erdogan solo propaganda: commercia con Israele e bombarda i curdi»

Intervista a Mehmet Rüstü Tiryaki, co-vicepresidente del partito Dem a pochi mesi dal voto amministrativo in Turchia: «La protesta di massa dei cittadini di Van ha costretto il governo a reintegrare il nostro sindaco, ma il 3 giugno è stato commissariato il comune di Hakkari»

di Chiara Cruciati da il manifesto

Partiti messi al bando, maxi processi, comuni commissariati. Nell’ultima tornata elettorale, il voto amministrativo di fine marzo, l’offensiva politica e giudiziaria del governo turco contro la sinistra curda è ricorsa a strumenti ormai noti. Ne abbiamo parlato con Mehmet Rüstü Tiryaki, co-vicepresidente del partito Dem, durante una visita in Italia insieme alla co-vicepresidente Ebru Günay e al rappresentante per l’Europa Eyyup Doru.

Il Dem nasce dall’esperienza dell’Hdp, dopo il processo in corso per la messa al bando. Qual è la situazione del partito oggi, a pochi mesi dal voto amministrativo?

A causa del tentativo di chiudere il partito, non avremmo potuto partecipare alle elezioni presidenziali e parlamenti di maggio 2023 come Hdp: c’era il pericolo che gli eventuali eletti non potessero sedere in parlamento. Abbiamo dunque deciso di creare Sinistra Verde, come parte della coalizione dell’Hdp. Al successivo Congresso abbiamo cambiato il nome in Hedep, il Partito Uguaglianza democratica. Ma secondo le autorità la sigla assomigliava a quella di un partito precedente, messo al bando. Abbiamo allora scelto Dem. Ci siamo trovati a fare campagna elettorale con quattro nomi diversi in pochi mesi. L’accusa contro l’Hdp in ogni caso continua alla Corte costituzionale: se respingerà la richiesta di chiudere l’Hdp non vinceremo solo noi, sarà una vittoria per la democrazia. I partiti non sono etichette, non sono una sigla. Sono un’idea, un progetto, un’ideologia: se quell’idea vive, non importa che nome ti dai.

Che i partiti siano animati da chi ne fa parte lo abbiamo visto nei mesi scorsi: la gente di Van, con la protesta di massa in strada, ha salvato il sindaco appena eletto e già rimosso dal ministero dell’interno.

Il merito è stato dei cittadini di Van se il governo ha fatto un passo indietro, una grande resistenza che ha mostrato che la vera forza è quella popolare. Il governo non ha però abbandonato la politica del commissariamento: il 3 giugno ha commissariato il comune di Hakkari. Da allora sono due settimane che la gente è in strada contro il regime fiduciario. Tutti i nostri municipi, dopo il lavoro quotidiano, organizzano la sorveglianza in giardino, di notte.

Un mese fa si è concluso il Processo Kobane, definito una punizione collettiva dell’Hdp e dei suoi sostenitori. Cosa si voleva punire?

Quei fatti (le proteste nel sud-est turco nell’autunno 2014, ndr) dimostrarono il collegamento tra la resistenza di Kobane e quella nel Kurdistan in Turchia. Erdogan e il suo partito non hanno digerito la vittoria curda a Kobane e con il processo volevano una rivincita. Tutta l’accusa si basa su un tweet: il partito pubblicò un post contro l’invasione dell’Isis chiamando il popolo a esercitare il proprio diritto democratico e a protestare. Chiunque legga quel tweet capisce che un partito che chiede di protestare contro un’invasione non è condannabile. È un diritto democratico: chi è stato arrestato per questo va liberato.

La Turchia prosegue negli attacchi a ogni parte di Kurdistan, mentre si erge a difensore dei palestinesi.

Erdogan difende il diritto dei palestinesi ad autodeterminarsi solo in teoria, e intanto bombarda i curdi. È l’ennesima dimostrazione che un regime non può essere democratico e che un paese non può difendere i diritti all’estero se non li rispetta al suo interno. La Turchia continua ad avere rapporti commerciali con Israele, vendendo gas e armi. La politica di Erdogan è solo propaganda e doppio standard.

Si può dire lo stesso dell’Europa: mantiene rapporti stabili con Ankara, anche in chiave anti-migranti, mentre critica gli abusi dei diritti umani.

L’Europa ritiene quello della migrazione un problema serio ma non può risolverlo chiudendo i confini o con accordi come quelli stipulati con Erdogan. È una politica che ha fatto diventare il Mediterraneo un cimitero. Se l’Europa non pensa a una soluzione dei conflitti, non potrà mai fermare le migrazioni. Come sinistra, siamo consapevoli della necessità di un progetto nuovo contro i crescenti nazionalismi che giocano sulla paura dei migranti.

Siete preoccupati per l’avanzata delle destre nazionaliste in Europa?

Lo siamo, non solo per il Kurdistan ma per i popoli europei.

La vostra delegazione ha portato in Europa anche la richiesta di impegnarsi per la liberazione di Abdullah Ocalan.

Rompere l’isolamento di Ocalan è una priorità. Per una soluzione politica pacifica nella regione il primo attore da coinvolgere è Ocalan. Anche il governo turco ha accettato questa realtà in passato, ha negoziato a lungo. Se lo tiene in isolamento, significa che non ha un progetto per risolvere la questione curda in modo democratico. I nostri 15 deputati hanno manifestato per giorni per rompere l’isolamento di Ocalan, mentre le associazioni delle famiglie dei detenuti manifestano ogni lunedì. Altri partiti di opposizione in Turchia, però, non condividono questa priorità.

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