Lettera di Cesare Battisti dal carcere di Rossano Calabro
Premetto che i punti che seguono, riguardanti alcuni passaggi rilevanti della mia storia personale, non possono essere esaustivi, né lo pretendono. Si tratta appena di rispondere, seppure in modo frammentato, alle domande più frequenti che finora mi sono state poste da coloro che, nonostante l’intossicazione mediatica, non hanno rinunciato a voler capire. Anche questi dati non possono che essere parziali, ma l’intenzione è quella di fornire informazioni basilari che possano servire agli interessati per trarre le proprie conclusioni. Mi si perdoni, quindi, la discontinuità oltre a una redazione senza pretese di apparire pubblicamente tale e quale. E comunque, date le circostanze, non mi sarebbe stato possibile un discorso lineare ed approfondito. Per questo rinvio gli interessati a percorrere i miei scritti su Carmilla o a consultare il mio ultimo libro manoscritto attualmente in lettura da “Le Seuil” Francia.
Mi viene naturale, ma anche ovvio, cominciare proprio dalla mia prigione in Italia. Durante i 20 mesi di isolamento ad Oristano, solo 6 dei quali in una mezza legalità, coltivavo la speranza che l’Istituzione prima o poi capisse che non si può castigare o vendicarsi, infliggendo a un reduce degli anni 70 lo statuto di fatto di prigioniero di guerra. E’ quanto lascia supporre la privazione dei diritti stabiliti dalle leggi nazionali e dalle norme di diritto internazionale. Alle richieste formali dei motivi che giustificherebbero il trattamento disumano, allegando inaudite misure di sicurezza, applicate tra l’altro con 41 anni di retroattività, lo Stato risponde letteralmente: “la documentazione richiesta è stata sottratta al diritto di accesso.” Ma allora, ci si chiede, quale è la difesa possibile? E’ la ragione per cui feci lo sciopero della fame ad Oristano.
In tutta risposta, lo Stato indispettito mi ha trasferito nel peggior carcere di Italia, facendomi rilegare a forza nel reparto ISIS-AS2. Ciò, nonostante le minacce ricevute in passato e quelle presenti profferite dai diversi fronti jihadisti nei miei confronti. Ma se Cesare Battisti è stato destinato dall’Autorità Giudiziaria alla media sicurezza, non avendo l’ostativo, cosa ci fa in AS2? La mia presenza nel reparto ISIS comporta grandi difficoltà ed esigui margini di sopravvivenza: senza mai uscire dalla cella per l’ora d’aria; limitato anche nel vitto poiché sono dell’ISIS i lavoranti dello distribuiscono; oggetto di minacce attraverso il cancello; privato di computer per svolgere la mia professione; sorvegliato a vista e oggetto di CED (provvedimento disciplinare) ad ogni accenno di reclamo; soggetto a censura, allegando supposta “attività eversiva” (sic) e via di questo passo, fino ad essere ostacolato anche nel diritto alla difesa, stabilito dall’articolo 24 della Costituzione. Potrei incontrare i miei familiari in Italia, un’ora la settimana per quattro volte al mese ma, data la distanza dal luogo di residenza e l’avanzata età dei miei fratelli che va dai 70 agli 80 anni, questo succede raramente. La mia famiglia residente in Francia ed in Brasile posso solo contattarla con videochiamate al cellulare una volta per settimana, ma devo allora rinunciare a colloqui in presenza. In questo modo, passo mesi senza contatto con i miei figli, per i quali devo chiedere notizie per lettera, quasi sempre trattenute dal censore, perché scritte in lingua straniera. Mi è stato addirittura detto che i miei figli dovrebbero imparare a scrivere in italiano per avere notizie del padre. Questo perché il censore ha difficoltà con il francese o il portoghese che sono le lingue materne dei miei figli. Un trattamento disumano non solo per qualsiasi detenuto, ma soprattutto per qualcuno il cui ultimo reato risale a 41 anni fa. E come se non bastasse, l’esecutivo si impegna a mantenere alto un assurdo livello di pericolosità alimentando un processo di criminalizzazione costante fino a giustificare il sequestro del computer, grazie al quale stavo completando un romanzo sul conflitto nel Rojava e il dramma degli emigranti. Tanto per rimanere in linea col dettato del reinserimento alla vita civile.
Facciamo un passo indietro e veniamo alla mia fuga dal Brasile. Le autorità italiane non hanno mai accettato il mio rifugio in Brasile. Lo Stato si è adoperato con tutta la sua forza, ma anche con mezzi illeciti come la corruzione e offerta di privilegi politici ed economici, per ottenere a tutti i costi la mia consegna fraudolenta! Il Brasile ospita una gigantesca comunità d’origine italiana, equivalente a 35 milioni di cittadini. Un paese nel paese! Questa importante porzione della società brasiliana, oltre a controllare alcuni settori dell’economia, ha una forte influenza nell’apparato militare del Brasile. Numerose sono le figure della dittatura di origine italiana, come lo stesso Bolsonaro. Ma poco importa se l’ex capitano Bolsonaro, perfino espulso dall’esercito, lui e i suoi accoliti siano soggetti senza scrupoli, se non chiaramente criminali a capo di milizie sanguinarie. L’Italia, attraverso l’Ambasciata, ha sempre mantenuto rapporti privilegiati con le lobby militari vicine a Bolsonaro. Tanto da spingere le aziende italo-brasiliane ad entrare attivamente nella campagna presidenziale di Bolsonaro. In cambio di tanta amicizia, Bolsonaro promette la mia estradizione. Anche se la Costituzione glielo impedirebbe – non si può revocare un decreto dopo 5 anni dalla sua emissione – Bolsonaro mantiene la promessa. Con compravendita di influenza nel Supremo Tribunale Federale, è spudoratamente ignorata la Costituzione e l’intervenuta prescrizione dei reati attribuiti al sottoscritto, nel dicembre 2018 ordine di estradizione è decretato.
La sinistra uscente dal governo mi garantisce contatto diretto con il presidente della Bolivia Evo Morales, il quale permette personalmente al fondatore del MST Juan Pedro Stedile di accogliermi in Bolivia con la concessione del rifugio politico. In un’operazione combinata tra il PT brasiliano (Partito dei Lavoratori) e il Mas boliviano (Movimento al Socialismo) fui trasferito a Santa Cruz de la Sierra. Qui venni preso in consegna da un emissario del Governo alle dirette dipendenze del Cancelliere. In attesa della pratica per il rifugio, fui alloggiato in un Centro di Monitoraggio: locali appartenenti al Ministero dell’Interno, che servivano da base per lo spionaggio della corrente di opposizione a Evo Morales! Ci lavoravano una dozzina operatori informatici, con i quali ho intrattenuto rapporti cordiali. Ogni tanto arrivava qualche alto funzionario dello Stato, allora dovevo restare chiuso nella mia stanza in fondo al cortile. Da subito ebbi l’impressione di essere sorvegliato ad ogni passo, non solo da forze suppostamente amiche. Quando gli appostamenti si fecero più severi, lo feci presente al Responsabile del Governo che dirigeva il centro, ma questi rispose evasivamente. Quando ormai avevo maturato la certezza che qualcosa non girava nel senso giusto, fui prelevato a due passi dal centro, mentre mi recavo a fare la spesa. Improvvisamente, tutti coloro ai quali ero stato presentato per la regolarizzazione del rifugio erano scomparsi.
Anche così non mi perdevo d’animo. Pensai ovviamente al tradimento di Evo Morales, ma contavo ancora sulle leggi boliviane che escludono l’estradizione per reati politici e, soprattutto nel mio caso, per essere intervenuta la prescrizione secondo le leggi boliviane. Perciò, mi dissi, male che vada c’è da farsi un po’ di prigione nel corso del processo di estradizione. Avrei invece dovuto sospettare che era proprio un regolare processo che l’Italia voleva evitare. Gli stessi poliziotti dell’Interpol boliviana, alcuni dei quali avevo avuto modo di conoscere al Centro di Monitoraggio, apparivano piuttosto imbarazzati per quello che stava per succedere. Non ebbero difficoltà a mettermi al corrente che lì intorno brulicavano italiani, brasiliani e agenti di un altro paese che non vollero specificare. Mi dissero chiaramente che si stava negoziando la mia pelle e trattavano i loro governanti da mascalzoni. Capii a cosa alludevano tutti loro al mattino seguente, quando irruppe una squadra nera incappucciata e mi portarono di peso all’aeroporto internazionale di Santa Cruz de la Sierra.
Collocato e sorvegliato in una sala i cui vetri davano sulla pista, assistevo alle questioni burocratiche tra un nucleo della Polizia Federale brasiliana e alcuni ufficiali dell’Aeronautica Militare boliviana. Mentre a meno di 100 metri sulla pista, scaldavano i motori del turboelica della PF Brasil. Poco dopo seguivo il Delegado (Commissario) e la sua squadra a bordo dell’aereo brasiliano. A un certo punto ci fu un trambusto. Mi fecero scendere e tornammo nella stessa sala. Qui fui preso in consegna dalla polizia boliviana, mentre gli agenti brasiliani decollavano senza di me. Per un momento sperai che Evo Morales avesse dato un contrordine. Speranza effimera, fino all’arrivo di un nutrito gruppo di persone, con i colori italiani appesi al collo, che mi portarono fino al jet di stato che ci aspettava lontano sulla pista. Tentai anche di resistere: “è un sequestro” gridavo. La risposta fu disarmante: “e allora? Questa volta però ha funzionato.” In Bolivia come in Brasile si gridò allo scandalo e al sequestro vergognoso permesso da Evo Morales. Ci furono proteste e anche manifestazioni. Ovviamente, in Italia non se ne è parlato. Che Evo Morales, già screditato dalla base del suo partito, potesse arrivare a tanto nessuno se lo aspettava. Ma chi ha più sorpreso per vigliaccheria è stato il vicepresidente Linera, con il suo passato, che si è dileguato all’ultima ora per evitare di dare spiegazioni agli amici comuni.
Qualcuno si è opportunamente chiesto se queste procedure a dir poco fraudolente non possono essere oggetto di denuncia alle autorità internazionali. Al proposito informo che ci sono attualmente in progetto tre procedure contro gli illeciti esposti sopra, commessi dal Brasile, la Bolivia e l’Italia. Rispettivamente, il primo ricorso all’OEA e ONU per atto incostituzionale nell’annullamento di un decreto presidenziale di più di 5 anni e separazione forzata del nucleo familiare – figlio minore e moglie rimasti in Brasile – , il secondo all’ONU contro la Bolivia per sequestro di persona e espulsione illegale; il terzo ricorso all’ONU contro l’Italia per ricettazione di illecito; ricorso alla Corte Europea per trattamento disumano in carcere. Ma una procedura di istanze internazionali ha tempi lunghi e a me urge uscire dall’ Inferno di Guantanamo Calabro: io non ho l’ostativo, che ci faccio in AS2?
Mi dicono che dalla lettura di “Indio”, il mio ultimo romanzo pubblicato in Francia, sì coglie tra le righe l’intenzione di affrontare la questione con la giustizia italiana. Ho terminato l’ultima stesura di “Indio” quando ancora nessuno credeva seriamente che un soggetto come Bolsonaro potesse diventare presidente. Ciò per dire che certe mie riflessioni sul futuro incerto dell’eterno rifugiato e perseguitato sono insospettabili. La disinformazione che negli ultimi 15 anni ha fatto di me il mostro da abbattere, ha reso impossibile ogni tentativo di fare chiarezza sul mio percorso politico-militante prima, rifugiato dopo. Ci si è guardati bene dal divulgare alcuni miei tentativi di riavvicinamento e di pacificazione con una supposta nuova realtà sociale in Italia. Credevo che la democrazia italiana fosse maturata, capace di affrontare la propria storia con dignità e cognizione di causa. Mi riferisco ovviamente agli “anni di piombo”, un capitolo drammatico della nostra Storia rilegato in una zona d’ombra e di tabù, dove la revisione storica ci sguazza.
Tanto per citare qualche tentativo di riavvicinamento, il più serio e formale fu mentre mi trovavo nel carcere di Brasilia, durante il lunghissimo processo di estradizione. Dopo alcuni incontri con gli addetti dell’Ambasciata d’Italia, feci loro una proposta di dialogo con il Governo italiano. Fu in un momento in cui avevo già la certezza di non essere estradato. Proposi loro che avrei accettato volontariamente l’estradizione se il Governo fosse stato disposto ad aprire un dibattito, con personale qualificato, per fare infine i conti storici sul periodo della lotta armata, “la degenerazione di un 68 represso nel sangue che si è protratto per 15 anni”. Gli addetti dell’Ambasciata, cioè spioni, promisero di riferire ma non si fecero più vedere. Nel frattempo io avevo anche dato il via a una corrispondenza con Alberto Torreggiani -sappiamo che fu ferito dal proprio padre durante l’attentato dei Pac al quale io non partecipai. La corrispondenza con Alberto Torreggiani, che oggi egli rinnega per ordine dello Stato, o semplicemente influenzato dai soliti forcaioli, faceva parte di una più articolata intenzione di riavvicinamento con i familiari delle vittime dei Pac. Ciò nel quadro di creare clima favorevole per tornare senza odio sulle responsabilità di tutte le componenti del conflitto e, chissà, voltare infine quella maledetta pagina degli “anni di piombo”. Purtroppo anche questo tentativo si è scontrato con l’accanita intolleranza di certi settori politici e mediatici sempre pronti ad alimentare l’odio per oscuri interessi di parte. Non si può che assistere con sospetto alle puntuali sortite pubbliche di parenti delle vittime (si parla ovviamente sempre e solo di una parte della barricata) alcuni dei quali non erano probabilmente nati all’epoca: 41 anni fa! E perché prendersela sempre con Battisti, come se fosse stato lui ad inventare la lotta armata? Mentre i fascisti agli ordini di qualche istituzione se la spassano, e nessuno grida in piazza? O sarà proprio per proteggere gli stragisti che bisogna mettere al rogo un testimone, affinché la disinformazione su quegli anni abbia piena efficacia.
Battisti, ci ricorda la peste dello Stato, deve tacere. La domanda che dovrebbero porsi coloro, gli ignari che con la bava alla bocca reclamano la gogna per Cesare Battisti, dovrebbe essere più o meno questa: “Perché fino al 2003 nessuno si interessava a lui?” Quando ancora Cesare Battisti era appena un altro tra le decine di rifugiati italiani in giro per il mondo? Nel tempo in cui pubblicava libri e articoli anche in Italia e riceveva visite di personalità italiane legate al mondo politico. culturale e anche istituzionale? Cosa è successo ad un certo punto, affinché diventasse improvvisamente il “mostro”, al punto da alimentare l’odio dei parenti delle vittime – fino allora assopito?- e dei media cialtroni? È pazzesco, come a nessuno questi giustizialisti venga in mente di porsi la questione. Eppure la risposta è semplice: Battisti scrive, parla alla televisione, fa interviste e dibattiti in ambito internazionale, scava nel passato, fa autocritica ma allo stesso tempo denuncia una guerra civile che lo Stato ha scatenato e combattuto con le bombe nelle piazze e una repressione inaudita. Ed è rimasto reticente con la Storia.
La lotta armata in Italia non è nata in qualche mente perversa e praticata da quattro disperati. E’ scaturita da un grande movimento culturale e politico incontenibile, che non sopportava più le angherie di uno Stato corrotto e stragista. Un milione di persone nelle piazze e tutti complici rivoluzionari. 6000 i condannati; circa 60 mila i denunciati; più di 100 gruppi armati organizzati; centinaia i morti, la maggior parte nelle file rivoluzionarie. Questo è il contesto sociale in cui sono nati i Pac. Non si trattava di un partito armato, ma l’espressione combattente orizzontale del fronte ampio di protesta, nelle fabbriche, sul territorio e nell’educazione nazionale. Che il loro ideale fosse comunista lo dice il nome stesso (Proletari armati per il Comunismo), ma non si proponevano l’assalto al Palazzo d’Inverno, né di prendere il potere dello Stato. Erano nuclei diffusi e indipendenti che rispondevano a modo loro all’ingiustizia dilagante, all’estrema destra che si armava in difesa dei privilegi del capitale. Forti dell’idea che il comunismo vero non poteva essere quello espresso dall’Unione Sovietica, anzi, ma semplicemente quello di una società futura inevitabile, libera e ugualitaria auspicata con estrema chiarezza nel “Manifesto” di Marx e Engels. Appena questo, senza derive ne accorciatore come invece fu il caso. Che il momento storico e l’uso delle armi fosse stato giusto o meno, l’hanno detto i fatti e ripetuto tutti i militanti coscienziosi. Tra i quali mi colloco senza mezzi termini. Si può ammettere l’errore, senza scadere nell’indecenza di chi si illude di poter rimediare a tutto dichiarandosi pentito. Mai parola fu tanto denigrata. Ho troppo rispetto per la storia e per le vittime che essa ha causato per pensare di nascondermi dietro una spanna d’ipocrisia.
Si pensava che l’Italia avesse vinto certe proprie debolezze, fosse pronta ad affrontare la propria Storia. Invece, 40 anni dopo, attraverso le sue massime rappresentanze, offre ancora ai cittadini lo stesso ignobile spettacolo, con la preda trascinata tra la moltitudine inferocita; gli insulti dei cacciatori che inveiscono sulla preda; i selfie dei ministri; il gozzoviglio della televisione; Battisti nell’arena; godi adesso Popolo! Ecco le torture subite, dopo un sequestro trionfalmente rivendicato. Al punto che persino la Corte di Cassazione ha sentenziato pressappoco in questi termini: “se la Bolivia ha commesso un illecito a noi non importa, ci hanno dato Battisti e noi ce lo prendiamo”. Ce lo prendiamo! Ma allora siete quantomeno dei ricettatori! Ma non basta sequestrarlo e riportarlo nelle patrie galere. Bisogna anche riservargli un trattamento da prigioniero di guerra senza la protezione dello statuto. Non si può dargli legalmente il 41 bis e l’ostativo? Poco male, glieli diamo di fatto tenendolo isolato e impedendogli il percorso trattamentale che gli consentirebbe l’accesso ai benefici riservati a tutti i detenuti. E se reclama, lo facciamo linciare dai media; gli aizziamo contro la vendetta popolare; gli applichiamo la censura; gli togliamo il computer per lavorare; lo mettiamo nel reparto Isis dove sarà costretto a rimanere in isolamento volontario. Eccola la tortura!
Veniamo ora alla mia scelta personale processuale. Dicevo che da diversi anni cogitavo una soluzione decente per metter fine a questa persecuzione, dove forze politiche italiane non si sono risparmiato nessun mezzo coercitivo o di pressione. Devo mettere per inciso, che le mie dichiarazioni di innocenza – mai rivolte all’autorità ma solo ai media – sono intervenute solo dopo il 2004 in Francia, e ciò per costringere lo Stato italiano ad ammettere l’uso deviato della Giustizia nei processi alla lotta armata. Prima di allora, né dopo, non avevo mai negato la mia appartenenza ai Pac assumendone le responsabilità politiche. Quelle penali dovrebbero essere state innanzitutto provate in tribunale, prima di emettere condanne a vita ed aspettare tardive confessioni. Sia perciò chiaro che i paesi che hanno accolto la mia richiesta di rifugio non lo hanno mai fatto, e non avrebbero potuto, in base a una supposta dichiarazione di innocenza – come falsamente dichiarato dall’opportunista Lula – ma esclusivamente per la tipologia politica del reato.
Ho pensato si seriamente a una soluzione collettiva dei nostri anni 70. Il clima politico in Italia non era l’ideale, sapevo però dell’esistenza di personalità e tendenze in seno al mondo giudiziario, che avendo combattuto in prima linea la guerra al “terrorismo”, come si suol dire adesso, conoscevano a fondo la materia e non avevano interesse a ricorrere a propagande oscurantiste per capire la realtà dei fatti. Certi indizi mi dicevano che queste persone, o correnti di pensiero, speravano ancora che si potesse arrivare un giorno a voltare queste tristi pagine di storia nella dignità e per il rispetto della memoria nazionale. Posso citare in merito il pensiero dell’emerito magistrato Giuliano Turone, giudice istruttore del processo ai Pac, che nel suo libro “Il caso Battisti” afferma pressappoco in questi termini: “Paradossalmente, accettando le sue responsabilità politiche e penali, potrebbe essere proprio Cesare Battisti a far sì che si possa infine rivedere e chiudere questo capitolo di storia”. Le parole possono non essere le stesse ma il senso è questo. Mosso da questo sentimento, alimentato dalla speranza che 40 anni erano comunque tanti e la democrazia italiana doveva per forza essere maturata e che anche lo Stato fosse un amministratore forte e responsabile, decisi di affidarmi alla giustizia e chiamai il procuratore di Milano. Quella mia deposizione del 23 Marzo 2019 fu una scelta sofferta. Mancavo dall’Italia dal 1981, e i miei contatti col bel paese erano ridotti a qualche familiare e all’editore. Non potevo certo immaginare che, aldilà dell’ isterismo mediatico, potessi ancora suscitare la vendetta dello Stato. Con l’enorme difficoltà di dover tornare su un processo archiviato da decenni, senza nessun fatto nuovo da apportare, se non gli ormai impossibili distinguo sulle mie proprie responsabilità. Non mi restava che prendere tutto in blocco, comunque, penalmente non avrebbe avuto peso. Di fronte alla scelta di affrontare un processo storico, e a crederlo non ero il solo, che senso avrebbe mettersi a spulciare il codice penale 40 anni dopo?
Sono stato condannato a due ergastoli e sei mesi di isolamento diurno per essere stato ritenuto colpevole di praticamente tutti i reati commessi dai Pac, tra i quali 4 attentati mortali. Dove non è stato possibile allegare la mia presenza fisica sul luogo del delitto, sono stato ritenuto il mandante. Dovrei forse precisare che in un conflitto simile i mandanti non esistono e semmai esistessero bisognerebbe allora cercarli in mezzo al popolo? Comunque, non avrei potuto certo essere io.
Ho ammesso tutto. Ho ribadito la mia autocritica per la scelta di aver partecipato alla lotta armata, poiché politicamante e umanamente disastrosa. Ma non l’avevo già detto mille volte in tutti questi anni? Non avevo nulla di cui pentirmi perché, sbagliato o no, non si può cambiare con il senno del poi il senso di avvenimenti storicamente definiti da un preciso contesto sociale. Assurdo sarebbe dire che non si sarebbe potuto evitare, ma mi risulta che il movimento rivoluzionario non si sia tirato indietro al momento di assumersi le sue responsabilità. Non possiamo dire altrettanto da parte dello Stato. E non avevo neanche niente da chiedere in cambio della mia confessione. Non sarebbe stato legalmente previsto e poi mi bastava che si applicasse la legge, come per qualsiasi altro condannato senza il bruttissimo ostativo, per accedere a qualche futuro beneficio riservato a tutti.
Insomma, è come dire, va bene, avete vinto e sono qui ad assistere ai canti di vittoria immeritati. Ma, finita la festa, tu Stato democratico, ci vogliamo impegnare tutti a riabilitare la storia stuprata, mentre io sconto la mia pena, secondo i termini di leggi nazionali e regole internazionali di umanità, come qualsiasi altro condannato? Pura illusione. Dopo aver sbandierato al mondo intero il frutto di una sporca caccia, cantato una vittoria ottenuta con l’inganno sul sangue delle vittime e l’onore barattato della Storia, lo Stato dei rattoppi non si smentisce e mostra la sua vera faccia. Si dà ai gozzovigli forcaioli, cavalca l’onda populista, sacrifica perfino la parola di quelle autorità che l’hanno servito anche quando non lo meritava.
Questo è il sentimento che mi ha accompagnato da Oristano a Guantanamo Calabro, alla mercè dell’ISIS e sottoposto a un trattamento degno di una dittatura militare. Ma non ho perso la speranza e sono certo che il tempo è galantuomo.
Cesare Battisti
da Carmilla