Lo Stato sta al carcere come l’allevatore alla fattoria degli animali
- dicembre 05, 2014
- in carcere, Lettere dal carcere
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Domenica 30 novembre ho visto Report, che proponeva (riassumo con parole mie) che tutti i detenuti in salute dovrebbero essere obbligati a lavorare, che tanto “lo fanno in tutta Europa”, e siccome i soldi mancano puoi anche non pagarli, così imparano, e ringrazino lo Stato che gli insegna un lavoro. Il punto essenziale lo ha posto la Gabanelli quando ha domandato: “Possiamo ripensare l’intero sistema carcere?”.
Una domanda che mi sembra più che giusta e che credo volesse essere il fulcro della puntata. Però vorrei metterti in fila i miei pensierini sul tema e chiederti i tuoi. Primo pensiero. Dopo una serie di riprese di passeggiate in cortile e di detenuti che giocano a carte e rispondono alla telecamera “io guadagno quattrocento euro al mese”, la reazione della maggior parte delle persone che seguono sarà stata, inevitabilmente: “Ecco, ci tocca pure mantenerli”.
E non doglianza per il fatto che in Italia appena un detenuto su quattro ha la possibilità di lavorare in carcere (fonte: Ristretti Orizzonti). O che il lavoro si deve pagare. Vale anche per i detenuti, che sono cittadini come gli altri. Altrimenti se sei milioni di disoccupati si fanno arrestare abbiamo risolto il problema della disoccupazione, no? Non c’è molto da girarci attorno: obbligare il detenuto al lavoro volontario è una forma di lavoro forzato. Seguendo la logica di Nicola Gratteri (abbracciata con entusiasmo da Report), in America i condannati a morte dovrebbero pagarsi la sedia elettrica prima di salirci.
Secondo pensiero. Lo Stato spende circa 250 euro al giorno per ogni detenuto, è vero, ma la cifra copre il pagamento di tutti gli stipendi degli operatori, dell’elettricità e il mantenimento delle strutture (che però rimangono fatiscenti). Con 250 euro al giorno di costo (detraiamo pure l’euro e mezzo, per la precisione 1,58, che viene speso per i “lauti pasti” del detenuto) il ministero della Giustizia spesso non è neppure in grado di fornire medicinali ai reclusi, che li devono comprare di tasca propria, se hanno soldi.
Terzo pensiero. In questa Italia vogliosa di capri espiatori il detenuto che ozia (tralasciando il fatto che spesso è imbottito di farmaci) è un buon bersaglio, e nell’immaginario collettivo le carceri italiane saranno sempre alberghi a 5 stelle con la tv a colori e la moquette per terra. Anche se i problemi sono altri: il sovraffollamento, gli abusi di potere.
Quarto pensiero. Il modello Usa che Report ha indicato come positivo consente di far passare due milioni di detenuti come “occupati” alzando le quotazioni delle agenzie di rating sull’occupazione. C’è un nesso preciso tra politiche antisociali e repressive: con il lavoro coatto in America sono state convertite intere filiere produttive nelle carceri, trasformando disoccupati strutturali in detenuti senza diritti. Non è che il famoso “milione di posti di lavoro” renziano ha bisogno di pescare anche qui? Pace e bene.
Risponde il direttore, Luigi Amicone
Perfetto. Coincidenza vuole che lunedì 1 dicembre fossi al carcere di Padova ospite del mio amico Bruno Turci e della sua redazione di Ristretti Orizzonti a convegno su questi temi. E lì ho sentito da Mario Palma, consigliere del ministro della Giustizia, riferire di questa trasmissione e ricordare che “la pena consiste nella restrizione della libertà, non in altro, come suppone Report”.
Aggiungerei che proprio a Padova ci sono circa 150 detenuti che hanno imparato un mestiere e che guadagnano mediamente un buono stipendio, chi assemblando trolley e biciclette, chi sfornando panettoni di qualità per un marchio che sta facendo il giro del mondo, chi al cali center, chi nella componentistica elettronica. Da quella parte di carcere esce gente con tassi di recidiva molto prossimi allo zero, mentre mediamente la recidiva nazionale è al 70 per cento. Il giustizialismo non è soltanto un cancro, rende ebeti.
Il giustizialismo e tutto quello che abbiamo sotto i nostri occhi dello sfascio italiano e che non fa riprendere l’Italia perché tutti, dal giornalista al cretino, ci campano o hanno paura di mettersi contro il giustizialismo che mantiene alto il livello di depressione e il commercio di antidepressivi. Le carceri italiane non si discostano da questo panorama.
Perciò sono il paradiso dell’incuria, della sciatteria, del falò di tasse dei contribuenti bruciate per mantenere un sistema statale che sui 250 euro a detenuto lucra senza produrre altro che vecchi e nuovi delinquenti. E perché tanti funzionari statali sono così gelosi di gestire in proprio questa massa di esseri umani dipendenti in tutto da regole, codicilli, procedure penitenziarie spesso assurde, che producono solo recidive e ostacoli (non è il caso di Padova) a iniziative come quelle dei succitati lavoratori della cooperativa Giotto?
Perché allo statalismo non conviene usare quei 250 euro per favorire l’apertura delle carceri al fare del privato sociale, al lavoro e alle scuole di formazione dei detenuti? Perché così come se togli i poveri ai funzionari del poveraccismo togli loro i finanziamenti statali e il mestiere della “scelta per i poveri”, se ai carcerati offri la possibilità di avere interlocutori non burocratici, scuole, un lavoro dignitoso e perciò retribuito, tu rischi davvero di far rinascere alla vita anche il delinquente più incallito. Ma lo capisco, così fai anche perdere i clienti a coloro i quali campano sul carcere come l’allevatore campa sulla fattoria degli animali.
Chiara Sirianni da Tempi