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Repressione nelle università e ai confini

Conflittualità inibita dal sistema liberal-capitalistico. La repressione esercitata nei confronti di studenti/studentesse, immigrate/i e paria di vario genere mette in luce un aspetto particolare dell’attuale assetto del capitalismo e la dice lunga sullo status del conflitto politico in corso ai giorni nostri.

di Michele Lucivero da pressenza

Precisiamo innanzitutto che quando si parla di conflitto politico si fa riferimento ad una dialettica necessaria in molte società, soprattutto occidentali, in cui all’origine vi è stata una forma di accumulazione originaria, ovviamente arbitraria, che ha permesso ad alcune/i di sfruttare e altre/i, complice il potere politico, che di volta in volta ha legittimato gli status giuridici, e l’apparato di repressione, cha ha tracciato nettamente la linea di demarcazione tra oppressore e oppresso.

Detto ciò, il conflitto politico rimane necessario, perché non è possibile, una volta compresi universalmente i significati di “dignità umana” e di “diritto”, che sopravviva un simile stato di oppressione, di separazione tra esseri umani, distinti per ceto, rango, stato, razza. Il conflitto politico è necessario perché tale assetto discriminatorio si può rovesciare solo con una opposizione politica, si auspica nonviolenta e dialettica, come spesso è anche accaduto, al sistema politico giuridico che legittima gli status precedenti, che usa i sistemi di repressione per impedire che tali rapporti di subordinazione possano saltare, che usa le forze dell’ordine (costituito) per impedire di procrastinare i benefici per pochi, lasciando le briciole e il grasso che cola, come sosteneva Adam Smith con la teoria del Trickle down, al resto dell’umanità espropriata e razzializzata.

Ora, se proviamo a guardare chi subisce maggiormente al giorno d’oggi l’apparato di repressione, dovremmo comprendere dove risiede il potenziale eversivo da intercettare per attivare il conflitto politico necessario per allargare le basi dei diritti e della democrazia, oggi evidentemente in pericolo, per attivare processi giusgenerativi.

Che la militarizzazione della società civile sia imperante e che i sistemi di repressione stiano funzionando alacremente ai nostri giorni è fuori discussione, come documentato costantemente da enti no profit e associazioni, da Amnesty International all’Osservatorio contro la militarizzazione delle scuole e dell’università, nonché da numerose campagne, tra cui Stop Border Violence, e notizie di cronaca.

Tuttavia, vale la pena volgere lo sguardo a quelli che sono gli obiettivi specifici di un sistema capitalistico che se sul versante economico si colloca entro l’alveo del neoliberismo, su quello politico si muove all’interno di un’architettura che fa riferimento al liberalismo, cioè a quel sistema che garantisce libertà ad alcune/i mentre espropria altre/i con la complicità degli apparati repressivi sempre al servizio di quello che è lo Stato-nazione nato qualche secolo fa.

Non cogliere il legame stretto tra capitalismo-neoliberismo-liberalismo-nazione-repressione significa non comprendere l’unica alternativa possibile a questo apparato ideologico di Stato, vale a dire il fronte che si articola intorno all’orizzonte anticapitalismo-democrazia-equità-dirittiumani. E, soprattutto, non aver compreso che queste due alternative sono piuttosto nette, ha condotto alcune forze politiche, come sottolinea Nancy Fraser in Capitalismo cannibale1, ad abbracciare il livello politico del liberalismo per incanalare e smorzare la conflittualità sociale su prospettive economiche vantaggiose solo per il capitalismo con l’illusione di poter, prima o poi, godere dei frutti di un benessere a tratti anche lussureggiante, meglio se inteso come privilegio, riservato ai/alle più audaci, ai/alle più meritevoli, ai/alle più docili e resilienti, ai/alle più disponibili, mentre per tutte/i le/gli altre/i si dischiude, malgrado loro, l’orizzonte della repressione.

Ora, provando a leggere lo schema abbozzato a ritroso, chiediamoci per un attimo: chi subisce potentemente e pre-potentemente (laddove il pre- annuncia la forma della guerra preventiva) una repressione volta ad impedire che alcune soggettività possano raggiungere i luoghi del potere? Chiediamoci ancora: chi ha tutto l’interesse a trasformare il conflitto politico necessario alla dialettica societaria in una guerra armata mediante l’apparato militare e di repressione? Chiediamoci, infine: quali sono i luoghi più massicciamente presidiati dalle forze armate, di polizia e dell’ordine (costituito)?

Ebbene, quei luoghi sono le scuole, le università e i confini.

Nella scuola, forse, la partita è già perduta. Nella scuola il conflitto è definitivamente tramontato, dal momento che nel generale depauperamento ideologico e politico degli/delle insegnanti, ridotte/i a mere/i certificatori/trici di competenze e valutatori/trici in preda all’ansia di produrre carte di far produrre inutili “prodotti” (ma che ne è stato poi del capolavoro? Boh!), la scuola è stata presa d’assalto dalle forze dell’ordine, che hanno prontamente riempito i buchi lasciati aperti dai/dalle docenti e preparato percorsi di “politici” di legalità, bullismo, cyberbullismo, perfino di lingue straniere insegnate da militari americani, e, perché no, paradossali percorsi di pace (sic!).

E quando pure hanno provato, gli studenti e le studentesse, a manifestare il proprio dissenso sugli investimenti di guerra del nostro Paese, essi/esse le hanno prese di “santa ragione”, c.v.d.!

Sono le università, dunque, e i confini i luoghi che mostrano, ad oggi, il maggior potenziale conflittuale, quello sotto stretto controllo dei sistemi di repressione.

Sono gli studenti e le studentesse universitarie nel mirino della repressione e delle deterrenza, quelle/i che esprimono la propria conflittualità nelle acampade per chiedere al capitalismo dell’indotto della guerra di rescindere i contratti con le aziende produttrici di armi e, quindi, anche con Israele. Sono quelle studentesse e quegli studenti fuori sede che mostrano, non a caso nel voto per Ilaria Salis e Mimmo Lucano, un orientamento che penalizza non solo la destra al governo, che svolge il suo programma capitalistico-nazionalista-razziale-liberista, ma punisce anche la socialdemocrazia liberale di casa nostra, rea di non aver compreso la trasformazione culturale, politica ed economiche in atto e aver abbracciato anch’essa il medesimo orizzonte.

E poi sono i confini i luoghi della repressione, quelli presidiati da Frontex, l’Agenzia europea della Guardia di frontiera e costiera, che presiede alla militarizzazione dei nostri mari, ad esempio, per impedire che altre soggettività possono accedere a benefici di un’accumulazione originaria che ha privilegiato alcune/i , espropriato altre/i e convinto, poi, la maggior parte della popolazione che tale sistema, tutto sommato, sia il migliore dei mondi possibili, nella speranza di raggiungere un giorno l’agognato traguardo del benessere, sperando sempre di non crepare durante questo faticoso percorso. Stigmatizzare la conflittualità sociale come destabilizzante politicamente e, al tempo stesso, lasciare fuori dall’Agorà politica gli studenti, le studentesse e i/le migranti, proprio perché esse/i stesse/i portatori/trici di conflittualità perché rappresentativi di nuove soggettività da immettere nel sistema economico, la dice lunga sulle scelte che le forze politiche attualmente in campo, liberiste e socialdemocratiche, hanno intrapreso, agevolando l’assetto socio-economico capitalistico in voga.

E anche i sindacati, quelli concertativi, appunto, hanno largamente fallito nel loro specifico compito, complici dell’esclusione di studenti, studentesse e migranti, essi stessi lavoratori in atto o in potenza, non prese/i in carico e lasciate/i sole/i.

E, così, mentre un’altra studentessa a Bari rimane vittima di questo sistema repressivo e si becca una denuncia per aver manifestato, del resto solo per chiedere di porre termine al massacro in Palestina, piangiamo la morte di un lavoratore rimasto senza braccio e scaricato per strada. Il bracciante era un migrante, un indiano, privo di contratto, privo di protezione dallo Stato, ucciso da questo sistema capitalistico, sostenuto dallo stesso Stato, che sfrutta mentre reprime, combatte e guerreggia mentre inibisce la conflittualità politica.

Lo slogan è piuttosto chiaro: taccia la politica, parlino le armi.

Signore e signori, voilà il capitalismo!

1N. Fraser, Capitalismo cannibale. Come il sistema sta divorando la democrazia, il nostro senso di comunità e il pianeta, Laterza, Roma-Bari 2022.

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