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Ventimiglia: se questo è un uomo

Testimonianza da Ventimiglia di G. un’attivista che ci chiede di rimanere anonima.
G. è stata identificata dalla polizia italiana mentre distribuiva cibo e beni di prima necessità ai migranti in attesa sul confine italo-francese, successivamente le è stato notificato il foglio di via.

Primi di Agosto – qualche giorno dopo lo sgombero del campo informale nato accanto a quello della Croce Rossa verso metà luglio, a Ventimiglia non esiste più un luogo fisico dove incontrare le persone in viaggio che attraversavano la città.
La stazione è presidiata da Alpini, militari e polizia che controllano chi aspetta di prendere un treno per la Francia o cerca di comprare un biglietto o salgono sui treni ad effettuare i rastrellamenti per identificare chi cerca di oltrepassare il confine.

Un tuffo nel passato di 70 anni circa: se tu, bianco, vuoi fermarti a parlare con qualche ragazzo in viaggio devi nasconderti dalle forze dell’ordine che altrimenti provvederanno immediatamente a fornirti un foglio di via dalla città. Ci si deve muovere così, come 007 in missione speciale, un clima surreale, in cui bisogna stare attenti anche usciti dalla stazione perché ad ogni angolo c’è qualche camionetta dell’esercito o volante della polizia che pattuglia la strada.
La città è attraversata da moltissimi “shebab”, ragazzi sudanesi, per la maggior parte che, se ti fermi a parlare, ti raccontano che stanno cercando di andare in Francia, che hanno fame, sete, che stanno cercando di richiedere Asilo in Italia ma vengono continuamente mandati prima al commissariato e poi al centro della croce rossa senza capirne il motivo. Uno di questi ragazzi ci chiede di essere accompagnato al commissariato dove ci viene detto che l’appuntamento che gli era stato dato non può essere rispettato perché manca un interprete. Il ragazzo parla benissimo inglese e noi ci offriamo per tradurre inglese-italiano ma ci viene detto che non è possibile farlo, che mancano delle fototessere noncuranti ovviamente del fatto che difficilmente la persona in questione avrà i soldi per poterle fare o anche solo banalmente sappia dove si possano fare.
I viaggiatori afghani a quanto pare sono organizzati con altri connazionali, li si vede dormire sotto i ponti ma nessuno si interfaccia con noi.
Mentre la cosa più evidente è che ad ogni angolo c’è un “passeur”, colui che dà passaggi, che sta contrattando con gruppuscoli di persone il prezzo e la tratta per portar loro in Francia. A quanto pare esistono dei legami tali tra passeur e la ’ndrangheta per cui queste fantomatiche macchine passano senza controlli a determinati orari la frontiera. Questi non vengono minimamente osservati dalle camionette militari che girano né dalla polizia che gli passa accanto. Allucinazioni negative selettive riescono a risparmiare i passeur dalla loro vista.

Il sole è sorto da diverse ore per cui chi dorme lungo il Roja si è già spostato, accanto al fiume corre il famoso ponte delle Gianchette dove qualche shebab si ripara dal sole nell’attesa di trovare qualche passeur a basso costo o di rimediare del cibo alla Caritas sul lato opposto della strada che ospita alcune famiglie, donne e bambini.
I migranti che si incontrano per strada sono infatti quasi tutti uomini giovani, S., l’unico uomo di 37 anni passa per l’anziano del gruppo e per primo si definisce tale: “I miei compagni possono provare a passare in Francia a piedi, due giorni di cammino. Io no, sono vecchio, non posso fare questi sforzi”. È’ una delle prime persone con cui mi fermo a parlare; racconta di essere partito dal Sudan due mesi prima, fuggito dalla guerra lasciando la moglie e due figli piccoli lì per cercare di fare il ricongiungimento una volta arrivato in Francia. 12 giorni in barca, seduto, senza potersi muovere, senza potersi mai sdraiare, senza cibo, con un sorso d’acqua al giorno, il minimo indispensabile per non morire. Arrivato in Sicilia è stato portato in un Hotspot. “Si, era una prigione, ma comunque meglio della croce rossa, almeno si mangiava bene e avevo un letto”. Dopo qualche ora S. si riavvicina a me per chiedermi come possa tornare in Sudan. Gli chiedo se non pagherebbe delle conseguenze pesantissime, mi risponde di si, ma dopo due mesi ha perso le speranze, l’unica è cercare di tornare in Sudan. Le storie che si raccolgono in qualche ora sono tantissime, oltrepassano il limite della lingua, due shebab mostrano le loro unghie ancora tinte dall’hennè, si sono sposati giusto qualche mese fa, poco prima di partire, altri raccontano di essere dovuti scappare perchè si sono rifiutati di eseguire ordini militari che prevedevano lo sterminio di intere città che si erano ribellate al governo e di essere quindi perseguitati non solo loro ma le loro famiglie, i loro amici.
S. una volta rilasciato dall’Hotspot in Sicilia ha risalito l’Italia “in treno e a piedi, un po’ in treno, un po’ a piedi” ed è stato poi identificato e trattenuto nel centro della croce rossa “lì non si sta bene, è peggio che essere in un carcere. Tante persone vengono picchiate, chi non vuole rilasciare le impronte viene picchiato e non ci danno da mangiare” due ragazzi accanto a lui intervengono “un pugno di riso, mezzo panino e una mela”, “perché veniamo picchiati se non vogliamo dare le impronte? Non vogliamo rimanere in Italia, alcuni hanno parenti che li aspettano in Francia, perché non possiamo decidere dove fermarci?”.

Solo qualche giorno dopo sento dei funzionari raccontare che i no borders cercano di convincere i migranti a ribellarsi e a reclamare i loro diritti. Fa parte anche questo di un semplice pensiero razzista: i migranti sono persone non pensanti, incapaci di reclamare i loro diritti. Qualche bianco intelligente deve spiegare loro che non ricevono un trattamento degno.

Siamo ancora al binomio bianco-nero, anzi bianconoborders-nero. Il manovratore bianco intelligente ed il nero stupido pecorone. A Ventimiglia il colore della pelle è ancora ciò che più determina il tuo destino, proprio come 70 anni fa il cognome ebraico.
Uso il parallelismo con gli ebrei perché è la storia più recente che commemoriamo tutti gli anni. Intorno al 25 Aprile vengono commemorate le famiglie che hanno fatto nascondere gli ebrei in casa e chi rappresenta lo stato onora il coraggio di queste persone. Lo stesso stato che utilizza misure anticrimine come i fogli di via nei confronti di chi si limita a trattare come esseri umani queste persone in viaggio che scappano dalla guerra, che cercano di raggiungere un paese, che cercano un futuro dignitoso. A Ventimiglia viene trattato come un terrorista o un appartenente alla criminalità organizzata chi dà cibo e acqua a chi ha fame e sete.

Sono le persone che abbiamo incontrato in questi giorni che abbiamo poi visto scappare da sotto il ponte della ferrovia lungo i binari con la speranza di arrivare in Francia. Hanno percorso chilometri lungo binari bui, lungo le gallerie, cercando di evitare fili dell’elettricità, paletti di ferro arrugginiti (se ti ferisci non riesci più a camminare velocemente e rimani indietro) nel buio più totale senza luce per paura che qualcuno ti veda e ti denunci alla polizia, camminando sulle pietre tra un binario e l’altro magari senza scarpe o con solo un paio di infradito. Se non conosci i rumori di un posto, la forma delle gallerie, la lunghezza del percorso, penso sia una delle cose più terrorizzanti che si possano vivere. E alla fine di questo ennesimo incubo sono stati rinchiusi in un parcheggio, senza poter bere e mangiare tutto il giorno per poi essere picchiati violentemente, brutalmente, insultati, trattati come animali cui ci si rivolge con i versi delle scimmie.. com’era? Se questo è un uomo?
Non lo so: questo è un uomo per lo stato italiano?
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Ventimiglia – Un’intervista a due attivisti sul Progetto 20K, sull’accerchiamento poliziesco dei migranti avvenuto il 5 Agosto al confine con la Francia, sul razzismo esplicito delle Forze dell’Ordine italiane e sulle violente cariche con relativi fermi e fogli di via alla fine di quella lunga giornata (tratto da Milano in Movimento).

da MeltingPotEuropa