Il 10 aprile 1991 il disastro del traghetto Moby Prince uccideva 140 persone: dai soccorsi mai arrivati agli strani traffici nel porto di Livorno, restano ancora molte zone oscure su cui fare definitivamente luce
Alle 22.25 del 10 aprile 1991, nella rada del porto di Livorno, il traghetto passeggeri “Moby Prince” e la petroliera Agip Abruzzo entrano in collisione. Lo scontro provoca lo squarciamento di una cisterna del greggio e scoppia subito un incendio. Mentre non ci sono conseguenze mortali per l’equipaggio della petroliera, a bordo della Moby Prince delle 141 persone a bordo solo una sopravvive alle fiamme: è il più grave incidente della marineria civile italiana.
A guidare il Moby Prince quella sera è il comandante Chessa. Alle 22.14 l’avvisatore marittimo Romeo Ricci segna sul registro l’orario di uscita dal porto del natante. In quel momento all’ancora nella rada del porto ci sono almeno cinque navi della NATO di rientro dal Golfo Persico zeppe di armi e munizioni (mai segnalati dalle autorità competenti), alcuni pescherecci, un mercantile e due grosse petroliere. L’Agip Abruzzo a un certo punto inizia a essere coperta da una specie di fumo bianco, tanto che, come riportano alcune testimonianze, non risulta più visibile. Pochi minuti dopo anche la Moby Prince, che era perfettamente visibile a causa della sua illuminazione esterna, scompare lasciando il posto a dei bagliori giallo-rosso-arancio. Alle 22.25, subito dopo, il comandante Chessa ordina al marconista di lanciare l’SOS. Alle 22.25.27 viene registrato sul canale 16: “May-day May-day May-day! Moby Prince Moby Prince May-day May-day May-day Moby Prince siamo in collisione…” e ancora dopo una parte disturbata: “siamo in collisione prendiamo fuoco…siamo entrati in collisione prendiamo fuoco!”. Nessuna nave in rada, né i ricevitori a terra sembrano udire l’appello. Intanto poco dopo l’impatto le due navi iniziano a staccarsi e le scintille provocate dallo sfregare delle loro lamiere innescano l’incendio del petrolio fuoriuscito dalla fiancata dell’Agip Abruzzo e riversatosi sulla Moby Prince.
Il fuoco rapidamente avvolge il traghetto. Anche dalla petroliera parte una confusa richiesta di aiuto ma la risposta della centrale operativa della Capitaneria di Porto di Livorno è totalmente inadeguata, tanto che interviene l’altra petroliera, l’Agip Napoli, che alle 21.31 chiede esplicitamente l’invio di mezzi antincendio. Poi nuovamente dalla Agip Abruzzo viene comunicato che c’è stato uno scontro e che forse è una bettolina (nave di piccole dimensioni usata per trasporto merci o liquidi all’interno del porto) ad averli tamponati.
Il “Moby prince” ormai è completamente in fiamme ma i soccorsi, privi di coordinazione e rallentati dal fumo sempre più avvolgente, di fatto non intervengono. I mezzi dei vigili del fuoco non riescono a trovare né l’Agip Abruzzo e neppure il traghetto che va alla deriva. Alle 22.49, in mezzo a questo delirio, una nave di nome Theresa, mai identificata, rivolgendosi ad una misteriosa Nave Uno dichiara in lingua inglese di lasciare il porto. Mezz’ora dopo l’incidente alcuni testimoni parlano di un elicottero mai identificato che sorvola la zona di mare da cui si levano le fiamme e il fumo.
Finalmente alle 23.05, dopo l’uso di razzi segnalatori, i primi mezzi di soccorso arrivano alla petroliera, ma ancora nessuno si preoccupa di identificare la nave che l’ha urtata e nemmeno di soccorrerla. Solo alle 23.45, quando un’imbarcazione dell’ormeggiatore Mauro Valli salva il mozzo Alessio Bertrand, unico sopravvissuto del traghetto, si scopre che a bruciare in mezzo al mare è il Moby Prince. Nonostante ciò il grosso dei soccorsi è dirottato alla petroliera che viene abbandonata dal proprio equipaggio. Intorno alle 02.00 della notte il marinaio Gianni Veneruso sale sul Moby Prince per fissare un cavo che ne blocchi la deriva: vorrebbe dirigersi nei saloni della nave ma gli viene ordinato di tornare su una motovedetta. All’alba dai primi elicotteri del soccorso viene visto e filmato sul ponte il corpo di una persona esanime – ma integro – a braccia aperte. Alle 10.02 viene ripescata la prima vittima, un uomo annegato in un mare pieno di petrolio. Il suo orologio si è fermato sulle ore 06.20 del mattino del giorno 11. Otto ore dopo la collisione presumibilmente era ancora vivo. Come dimostreranno gli esami effettuati sui cadaveri alcune persone hanno inalato fumo per ore ed ore (vedi perizia dell’anatomopatologo Fiori), ma in sede giudiziaria verrà stabilito l’esatto contrario, ovvero che tutti sono morti in pochi minuti. Ma allora quel corpo che alle 7 del mattino era integro sul ponte, senza il minimo segno di bruciature, come sarebbe potuto arrivare lì sopra in quelle condizioni? Tanto più che diverse ore dopo, quando i vigili saliranno sulla nave, risulterà ormai completamente carbonizzato dalle lamiere roventi. Evidentemente il passeggero, sopravvissuto alle fiamme e al fumo, era salito sul ponte al mattino cercando un soccorso mai arrivato.
In sede giudiziaria si stabilirà a seguito di vari processi che la responsabilità del disastro è da ricercare nella condotta del Moby Prince e del suo capitano Chessa, che anche a causa di un improvviso banco di nebbia avrebbe colpito l’Agip Abruzzo.
Viceversa una commissione d’indagine parlamentare nella sua relazione finale ha stabilito che il disastro non è riconducibile alla presenza di nebbia e alle decisioni di Chessa, che i soccorsi sono stati totalmente tardivi e inadeguati, che la Capitaneria di Porto non ha provveduto a raccogliere i dati necessari ad individuare le navi al momento della collisione, che l’indagine della Procura di Livorno nel processo di primo grado si è rivelata controversa e segnata da fattori esterni, che gli accordi tra ENI e NAVARMA (armatore del traghetto) hanno condizionato pesantemente l’opera dell’Autorità giudiziaria, che ENI ha volutamente dato informazioni non chiare sulla provenienza della petroliera e conseguentemente sul suo carico, che l’Agip Abruzzo era ferma in zona di divieto ancoraggio e che i decessi sul traghetto non sono avvenuti in pochi minuti. Infine che la Moby Prince ha subìto, per cause da indagare, un’alterazione nella rotta di navigazione che potrebbe aver determinato l’impatto e soprattutto che restano da chiarire le motivazioni per cui il nostromo Ciro di Lauro (assolto per difetto di punibilità nonostante in sede giudiziaria sia stata appurata la sua volontà di inquinare le prove), ha manomesso il timone del Moby Prince dopo l’incidente.
Come sempre in determinate vicende non è facile fare ipotesi suffragate da fatti precisi. Sicuramente la condanna nel 2013 di Germano Lamberti, già presidente del collegio del processo sul disastro del Moby Prince, a 4 anni e 9 mesi di reclusione per corruzione in atti giudiziari (relativa ad altro caso) è uno dei segnali più lampanti di come la vicenda processuale sia stata a dir poco controversa. Come controversa è la presenza nella rada di Livorno di navi militari, magari collegate ad un possibile traffico di armi. Inquieta in particolare la presenza del peschereccio 21 Oktobar II, formalmente adibito al trasporto di prodotti ittici ma usato per ben altre attività: una nave donata dall’Italia alla Somalia, nell’ambito di progetti di cooperazione allo sviluppo, su cui indagavano Ilaria Alpi e Miran Hrovatin prima di essere uccisi a Mogadiscio.
Per esperienza sappiamo che le pubbliche autorità, in questo come in altri casi, lavoreranno per impedire che la verità venga a galla. Pertanto spetterà agli approfondimenti storiografici e alle inchieste giornalistiche il compito di continuare a lavorare per cercare di stabilire i fatti fin nei minimi dettagli. (da Cronache Ribelli)