Parlano i compagni di Simon, uno degli arrestati del 12 aprile. Ha 18 anni e ora è agli arresti domiciliari. Una storia di repressione e solidarietà
Le telecamere accerchiano il portone ventinove di Via della Lungara e noi ci accalchiamo contro la ringhiera del Lungotevere. Gli avvocati escono con una faccia terrea e l’ansia schizza alle stelle. Flavio rimane a metà delle scale ed è Tatiana ad attraversare il cordone di Celere che da un po’ di tempo ci accompagna ovunque, comunicandoci con un filo di voce che a Simon, come a Nico, Ugo e Matteo sono stati assegnati gli arresti domiciliari con tutte le restrizioni. Niente telefono, internet o posta, ma soprattutto niente visite. Neanche oggi potremo riabbracciarlo. Per gli occhi lucidi e per le voci rotte c’è la scusa dei piumacci che cadono dai platani.
Sono otto ore che lo aspettiamo qua fuori.
Sono quattro giorni che lo aspettiamo qua fuori.
Sabato era iniziato tutto come sempre, Simon lo avevamo incontrato dopo scuola per raggiungere Porta Pia ed andare in corteo insieme. Poi sono cominciate le cariche su via Veneto e le strade si sono riempite di manganelli, ci siamo ritrovati con le spalle schiacciate contro le transenne, come maiali in attesa del macello.
E’ solo quando nel traforo Umberto I torna la calma che iniziamo a radunarci tutti e a disinfettare le ferite. Una sequenza agitata di “state tutti bene?” e “siamo tutti qui?” s’interrompe bruscamente quando contandoci tra di noi ci rendiamo conto di una cosa.
Simon manca all’appello.
Il suo telefono squilla a vuoto.
Iniziamo a chiedere ai compagni in piazza. Un’infinita serie di “Avete visto Simon?! E’ un ragazzo biondo, magro, alto più o meno così, ha 18 anni” e di sconsolati “No, mi dispiace” in risposta. Il corteo fa ritorno a Porta Pia, ma Simon ancora non si trova. Preoccupati ormai oltre il dicibile contattiamo il team legale ed è così che ci arriva la conferma di qualcosa che in cuor nostro già sospettavamo, perché Simon non è tipo da andarsene da una manifestazione senza far sapere niente a nessuno: è stato arrestato.
Non sappiamo cosa fare. Chiamiamo la famiglia, gli amici, i compagni di scuola. Un tam-tam disperato alla ricerca di consigli, specie da parte di quei compagni più che ci sono già passati. Le ore a seguire sono scandite da un mix perverso di angoscia, lacrime e squilli. Ci viene detto che non è al Policlinico (“Quindi non è ferito!”), ma che si trova al commissariato di via Toscana, dove il fermo viene confermato. Da lì, Simon viene trasferito a Regina Coeli.
Federico e Giovanni sono stati rilasciati, l’hanno visto, ci informano che sta bene. Almeno fisicamente parlando. Restano dentro in quattro: Simon, Ugo, Nico e Matteo.
Seguono ore e giorni di tam tam telefonici, famiglia amici, compagni di scuola e di lotta.
“Hai sentito l’avvocato?”
“La famiglia è riuscita a parlarci?”
“Avete parlato con la sorella in Argentina?”
“Novità?”
Lunedì sera ci incontriamo di nuovo al faro del Gianicolo. Tutti insieme con i compagni e amici di Ugo, Matteo e Nico al saluto al Gianicolo, tradizione de sta città, si parlano di nuovo tante lingue, tutti i dialetti del Mediterraneo; come sabato in piazza. Tante voci che urlano e si levano sopra una città che troppo spesso, come dopo ogni lunga giornata, se ne va a dormire e fa presto a mettersi alle spalle gli slogan strozzati, il fumo dei lacrimogeni, i corpi calpestati. Ma noi siamo sempre qui, e per ognuno di noi che viene fermato ne avrete a decine che torneranno a urlare contro le vostre porte; non ci potete vietare di gridare a Simon e agli altri fratelli e sorelle in rivolta la nostra solidarietà, il nostro affetto: quattro mura non possono dividere tanti cuori in tumulto.
Nei giorni successivi ancora telefonate, messaggi, squilli; è una doccia fredda ogni volta che scopriamo un nuovo, l’ennesimo, articolo infamante di qualche giornalista troppo impegnato a leccare il culo ai poteri forti per prendersi la briga di controllare persino cose elementari come l’ortografia dei nomi o la precisione delle date.
Mercoledì finalmente Simon esce dai cancelli, ma non ci è permesso ancora parlargli. Alcuni di noi potranno vederlo a scuola, ma non potrà essere dei nostri in collettivo, a prendere una birra e a parlare di politica, del perché si ostina a venire alle nostre grigliate anche se è vegetariano, dei Consigli di Istituto, dei sabato sera nella piazzetta di San Lorenzo.
La repressione bruta, l’unica risposta dello Stato alle discrepanze di fondo di questo sistema additate dai movimenti, cerca ancora di delegittimare le lotte andando a colpire le persone che le vivono e le fanno vivere. L’assenza della voce di Simon toglierà sicuramente qualcosa alla discussione politica del collettivo e del movimento. Dover dedicare tempo all’autofinanziamento delle spese legali ci vedrà forse impegnati su fronti meno conflittuali, ma aiuta a rinsaldare quei legami di solidarietà profonda che tengono uniti i popoli e che elevano una massa di persone urlanti a un movimento politico. La stessa solidarietà che ci unisce tutti, compagni di Simon, Matteo, Nico, Ugo, degli arrestati della Val Susa e di tutte le lotte sociali.
Tutto quello che hai può esserti tolto. Ma se quello che hai tu lo dai agli altri, nessun ladro, poliziotto, giudice o politico te lo può rubare. E allora diventa tuo per sempre.
Ci sono armi che nessun arresto potrà mai toglierci: SOLIDARIETA’ E COMPLICITA’. Ed è per questo che oggi tutti insieme urliamo: Simon libero!
I compagni di Simon
da dinamopress