Dal 15 marzo 2015 Fadi Mansour è agli arresti allo scalo turco di Istanbul. Fuori, 2,7 milioni di connazionali che ora guardano a Ginevra. Ma il negoziato è in stallo
Frase scontata, ma a volte è vero che la vita assomiglia a un film. Almeno quella di Fadi Mansour. Detenuto da un anno all’aeroporto Ataturk di Istanbul, come il più famoso Tom Hanks in The Terminal, pare il modello perfetto dalla guerra civile siriana.
Scappato nel 2012 da un paese in fiamme per sfuggire all’arruolamento nell’esercito, si è trasformato in un rifugiato. Un rifugiato che non vuole nessuno, come altri milioni di suoi connazionali. Non lo ha voluto il Libano che lo ha respinto, non lo ha voluto la Malesia che l’ha cacciato. E non vuole la Turchia che preferisce relegarlo nella cosiddetta “stanza dei passeggeri problematici”.
La sua storia è stata resa nota da Amnesty International ad un anno esatto dalla sua detenzione. Fadi, 28 anni, studente di legge nato ad Homs, è detenuto nell’aeroporto turco dal 15 marzo 2015. Stanco, sfibrato, umiliato, chiede di tornare in Siria: «Meglio morire una volta e farla finita, che morire un po’ ogni giorno». Non vede il sole da 365 giorni, costretto in una stanza con una luce artificiale accessa 24 ore su 24. Di letti non ce ne sono, dorme su una sedia.
Fuori da quell’aeroporto, in condizioni altrettanto pessime, ci sono 2,7 milioni di rifugiati siriani divisi tra campi profughi e grandi città. Chi può affitta una stanza in appartamenti affollati, pagando prezzi molto più alti della media. Molte famiglie vivono di elemosina per le strade di Istanbul e Ankara, altri si cercano lavori sottopagati in nero perché le autorità non riconoscono permessi di lavoro. Sono considerati “ospiti”, a cui attribuire solo lo status di soggetto protetto in via temporanea.
Sulla loro pelle si gioca il braccio di ferro tra Unione Europea e Turchia: la prima non vuole vederli arrivare sulle proprie coste, la seconda è disposta a tenerli in cambio di 6 miliardi di euro. Ieri il premier turco Davutoglu tornava a elogiare l’accordo, strumento «per ridurre l’immigrazione illegale», ribadendo di avere a cuore la vita dei siriani in fuga e non il premio in denaro per evitare rogne all’Europa.
Anche su di loro, sui rifugiati siriani all’estero, pesa la disillusione per il negoziato in corso a Ginevra. Secondo un sondaggio pubblicato ieri dal centro turco di ricerca per l’Asilo e la Migrazione, le opinioni sono discordanti: il 57,6% è convinto che l’attuale cessazione delle ostilità porterà finalmente la pace, il restante 43,4% non condivide tale speranza.
Il round negoziale è giunto al suo terzo giorno, senza risultati di sorta: il dialogo – dicono fonti interne – è fermo sulle precondizioni, ovvero la scarcerazione dei prigionieri politici, la composizione delle delegazioni e la consegna degli aiuti umanitari. La questione centrale, la creazione di un governo di unità, appare lontanissima.
Da parte sua la comunità internazionale ha messo sul tavolo l’agognata soluzione federale, ovvero la divisione in entità amministrative della Siria. L’opzione è stata però ripetutamente scartata da entrambe le parti, che tra martedì e ieri hanno ribadito la contrarietà ad una separazione, anche solo amministrativa, del paese.
Il governo di Damasco ha detto lunedì di aver presentato all’inviato Onu de Mistura un piano di transizione pacifica di cui non si hanno ancora i dettagli. Nessun faccia a faccia tra i negoziatori governativi e quelli di opposizione: ieri a seguito del secondo meeting con de Mistura il capo delegazione di Damasco, l’ambasciatore al Palazzo di Vetro al-Jaafari, ha dichiarato di non voler discutere direttamente con l’Alto Comitato per i Negoziati (Hnc), la federazione delle opposizioni. Non vuole – dice al-Jaafari – perché tra loro ci sono assassini terroristi, chiaro riferimento a Jaysh al-Islam.
Poi torna sul parziale ritiro delle truppe e dei jet da guerra russi, che stanno gradualmente rientrando a Mosca: «La decisione russa è stata presa congiuntamente al governo, dai presidenti Putin e Assad. Non è stata una sorpresa per noi».
La sorpresa giunge invece da chi al tavolo svizzero non è stato neppure invitato: il Pyd, il Partito dell’Unione Democratica, rappresentante politico dei kurdi di Rojava, ha fatto sapere di voler dichiarare a breve la nascita di un’entità federale autonoma nei tre cantoni di Kobane, Afrin e Jazira. Ad annunciarlo è Nawaf Khalil, membro del Pyd, che spiega l’idea dietro il “Sistema Federale Democratico per Rojava”: una democrazia dal basso che rappresenti tutti, kurdi, turkmeni, arabi, una regione autonoma che resti comunque parte del governo centrale siriano.