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Cosa è successo a Dino sul Gra?

budroni

Al via il processo d’appello per l’uccisione di Dino Budroni, colpito dalla pistola di un agente

«La verità è più difficile da ottenere, se la controparte indossa una divisa»: Claudia Budroni ha perso suo fratello Dino una notte d’estate di cinque anni fa. Con grande dignità e un groppo in gola è comparsa ieri alla Camera, per una conferenza stampa assieme agli attivisti di Acad, l’Associazione contro gli abusi in divisa e al deputato di Sinistra Italiana Daniele Farina.

Il fatto risale al 30 luglio del 2011. Dino aveva quarant’anni. Correva sul Grande raccordo anulare, alle sue spalle una pattuglia. Venti chilometri prima, all’inizio della corsa in auto, l’uomo era davanti l’abitazione della sua ragazza, nel quartiere di Cinecittà. Lì si era reso colpevole di quello che il dossier di Acad definisce «un brutto caso di danneggiamento di porte e cancelli, di sms minacciosi e di disturbo della quiete pubblica. Crimini che non prevedono la fucilazione immediata». Invece, alla fine di un rocambolesco inseguimento, nei pressi dello svincolo di via Nomentana, Budroni venne colpito da un proiettile che gli trapassò il polmone e il cuore. Era inerme, disarmato, non poteva fuggire. Secondo la ricostruzione dei legali della sua famiglia ha guardato negli occhi l’agente che lo ha colpito, allora ventottenne.

Lunedì prossimo comincia il processo d’appello al poliziotto che ha sparato, dopo che il primo grado è finito con un’assoluzione. La sentenza venne duramente contestata dal pubblico ministero che aveva chiesto la condanna per omicidio colposo. Per la pubblica accusa, la «ricostruzione del fatto» che ha portato all’assoluzione è «contraddittoria e in alcuni punti superficiale». Nel corso della conferenza stampa, l’avvocato Fabio Anselmo ha fatto ascoltare le registrazioni delle discussioni tra gli agenti e i militari dei carabinieri. Voci che aprono squarci di verità e gettano forti dubbi sulla sentenza di primo grado. Attorno ai Budroni c’è aria di accanimento. L’uomo era stato denunciato nel 2010, con l’accusa di aver «rubato» la borsa alla sua ex compagna. L’oggetto venne ritrovato in casa sua assieme ad un fucile e una balestra. Con determinazione quantomeno sospetta, oltre che di dubbio valore legale, Budroni è stato condannato (da morto) a due anni e un mese di reclusione per rapina e detenzione illegale di armi. Mentre chi ha sparato il colpo che lo ha ucciso è stato assolto. Come se non bastasse, i suoi familiari denunciano che la tomba di Dino Bubroni è stata danneggiata per sette volte nel corso di questi anni.

L’indignazione dell’opinione pubblica, assieme alle competenze necessarie a ribaltare le perizie e discutere sentenze già scritte, è elemento imprescindibile di questo tipo di campagne. Serve a bucare il muro di gomma dell’impunità e ad accendere i fari della comunicazione. Anche per questo, nei giorni scorsi 10 mila manifesti sono comparsi sui muri della capitale. Hanno ricordato ai romani quest’ennesima storia di abuso in divisa. È l’ennesimo pezzo dell’«anomalia italiana» che solo un paio di settimane fa ha interessato un’audizione al Parlamento europeo, durante la quale Acad ha presentato un dossier assieme ad alcuni dei parenti delle vittime degli abusi polizieschi. «Questa vicenda me ne ricorda una milanese – riflette Daniele Farina – Era il 1986 quando Luca Rossi venne ucciso da un agente della Digos. Da quella tragedia nacque un Libro Bianco intitolato “625”, tante erano fino al 1989 le morti causate dalla Legge Reale e dalle legislazioni d’emergenza in vigore in Italia. Tante altre ce ne sono state successivamente, come quella di Dino Budroni. Non sono vicende isolate, c’è una relazione tra di esse. Ci sono metodologie e pratiche da correggere».

Giuliano Santoro da il manifesto