Vivere al 41-bis: due ore di “libertà” e una cella che è un bagno
L’indagine della Commissione per la tutela dei diritti umani del Senato e le 15 raccomandazioni dell’Europa denunciano le condizioni riservate a boss mafiosi e terroristi: un regime detentivo che coinvolge 729 persone
Ventidue ore in una cella. Con la possibilità soltanto di stare distesi a letto. Oppure seduti su una panchina inchiodata a terra. E per le restanti due ore l’unico svago è una passeggiata lungo un corridoio stretto, buio, chiuso da grate arrugginite. Il pensiero andrebbe a chissà quale Paese dove vigono pesanti violazioni dei diritti umani. E invece no. Siamo in Italia. E le condizioni appena descritte sono tanto reali quanto inquietanti. Anche se le persone che si ritrovano a subirle sono criminali, boss mafiosi, terroristi in carcere. Antonio Iovine, per anni a capo dei Casalesi, è uno di questi. Prima che cominciasse a collaborare con la giustizia,‘O Ninno ha vissuto a Nuoro, in una stanza stretta e buia, in cui c’era solo un letto singolo, con accanto un bagno alla turca chiuso da una bottiglia di plastica e un lavandino, un mobiletto, un televisore e un fornelletto a gas per il caffè. «Provate voi a vivere ventidue ore al giorno dentro un bagno», ha detto Iovine ai membri della Commissione per la tutela e dei diritti umani del Senato, quando sono andati in ispezione. Oggi, Nuoro non ospita più detenuti a regime speciale. Ma in diversi penitenziari le condizioni di vita restano inumane, come emerge dal rapporto sul 41-bis realizzato dalla Commissione e di cui Linkiesta è venuta in possesso.
«Tutta colpa di regole restrittive – dicono alcuni parlamentari – che non hanno alcun legame con l’esigenza di evitare eventuali rapporti esterni con le criminalità». E, in effetti, alcune restrizioni sembrano a dir poco surreali. Esattamente come per Iovine, i 729 detenuti oggi in regime speciale restano in cella per 22 ore al giorno. Senza poter far nulla. C’è chi cammina tutto il tempo, tanto da contare quante volte si faccia su e giù: 780 in un’ora. Non si possono attaccare al muro nemmeno fotografie. E pure per la biancheria ci sono precise restrizioni al numero di capi che possono essere tenuti in cella. Il motivo? Sconosciuto. Peccato però che in molti casi sia considerato insufficiente alle esigenze delle persone recluse. Potenzialmente pericolosi sono anche i sandali, dato che in alcuni penitenziari possono essere utilizzati solo a partire dal 21 giugno, anche se dovesse cominciare a far caldo molto prima. E ancora: niente detersivo in cella per lavare piatti, bicchieri e tazzine del caffè; niente abiti firmati; niente fermagli. E chi studia può sì utilizzare il computer, ma a patto che quell’ora venga sottratta a quella d’aria.
Poi c’è la privacy, completamente annientata. «Loro esistono anche nei miei sogni erotici», dice un detenuto al 41-bis ormai da 12 anni. E ne ha ben donde. Spesso le telecamere non sono solo in cella, ma anche nei bagni. E se non ci sono telecamere, c’è sempre uno spioncino che permette agli agenti di sorvegliare in qualsiasi momento i detenuti, pure nella loro intimità. Senza parlare della perquisizione fisica, prima e dopo ogni colloquio: nonostante non ci sia alcun contatto con i familiari (c’è il vetro divisorio) e vi siano telecamere di sorveglianza, il detenuto viene fatto sempre denudare. Un usus riservato ai maschi ma anche alle nove donne recluse al 41-bis, a L’Aquila. Una di queste ha provato a denunciare la cosa, rifiutandosi di farsi visitare e presentando la richiesta al magistrato di sorveglianza di poter essere visitata senza il piantonamento. La sua richiesta è stata accolta, ma – dice la relazione – «le visite delle altre detenute continuano a svolgersi davanti ad agenti».
E parliamo, fin qui, del trattamento “ordinario”. Perché poi ci sono le cosiddette «aree riservate», dove l’isolamento è pressoché totale. Qui ritroviamo i capi storici delle mafie. E per consentire loro un minimo di socialità, vengono affiancati in celle vicine dalle cosiddette «dame di compagnia», ovvero mafiosi di rango inferiore con cui sono a contatto non più di due ore al giorno. Uno di questi ha scontato fino ad oggi nove anni di pena, di cui quattro in area riservata: è uscito da lì con la pelle verde perché era sottoterra. E completamente al buio.
Una realtà, dunque, poco conosciuta e al limite (spesso infranto) del tollerabile. Tanto che anche la Corte europea dei diritti dell’uomo si è interessata alla questione, dopo una serie di denunce contro il trattamento riservato dal nostro Paese. E non è un caso che la relazione della Commissione parlamentare si concluda con ben 15 raccomandazioni. Dalla dismissione delle «aree riservate», fino a maggiori condizioni di riservatezza per i detenuti. Ma non basta. Perché quello che si raccomanda è innanzitutto una «revisione della legislazione consolidata». Non fosse altro che per un motivo: la detenzione al 41-bis dovrebbe essere in molti casi temporanea e rinnovata solo dopo legittime motivazioni. Peccato, però, che molto spesso questo non accada. Ciò che desta preoccupazione, in altre parole, è l’uso automatico della proroga: «Per un considerevole numero di detenuti, l’applicazione del regime di cui all’articolo 41-bis è stato rinnovata in maniera pressoché automatica». Con la conseguenza che i detenuti sono stati per anni soggetti a un regime detentivo alienante. Anche quando si è in età avanzata. Anche quando mancano solo pochi mesi alla scarcerazione. Come capitato a un detenuto a Milano Opera. Che si chiede: «Che senso ha?». Nessuno. Forse nessuno.
Carmine Gazzanni da linkiesta