Con ancora negli occhi il fuoco dei simboli del capitale e nella gola il sapore acre dei lacrimogeni, provo a buttar giù sotto forma di elenco alcune piccole considerazioni sulla giornata di ieri, 15 ottobre 2011.
Una giornata globale di mobilitazione contro il capitale ha avuto a Roma il suo apice con scontri di una violenza inaudita e per certi versi sorprendente. Un gruppo nutrito (diverse migliaia) di manifestanti è scesa in piazza con l’obiettivo dello scontro fisico.
Ho visto uno spezzone gigantesco determinato a trasformare la consueta sfilata della “gauche plurielle”, a posteriori sempre elogiata come si esalta un orso bianco in uno zoo, in una presa di parola inedita, scioccante, dissacrante. E se questa parola non era un discorso articolato in cui elencare, come in una stanca litania, le nostre richieste, se questa parola emergeva solamente come un incomprensibile suono gutturale, per questa volta è sufficiente così. Uno “sgrunt” urlato ai quattro venti, incomprensibile ai più, ma ben chiaro a chi come noi è costantemente vittima di ogni politica.
Ho visto uno spezzone gigantesco determinato a trasformare la consueta sfilata della “gauche plurielle”, a posteriori sempre elogiata come si esalta un orso bianco in uno zoo, in una presa di parola inedita, scioccante, dissacrante. E se questa parola non era un discorso articolato in cui elencare, come in una stanca litania, le nostre richieste, se questa parola emergeva solamente come un incomprensibile suono gutturale, per questa volta è sufficiente così. Uno “sgrunt” urlato ai quattro venti, incomprensibile ai più, ma ben chiaro a chi come noi è costantemente vittima di ogni politica.
Non sto ad ammorbare su chi oggi esercita la reale violenza, su chi la subisce giornalmente, su chi è marginale, in una società in cui stare oltre i margini è diventata consuetudine. Non sto neppure a sottolineare come siano false e stancamente giustificatorie le considerazioni secondo cui quella di Roma era una sparuta minoranza che ha agito contro la maggioranza, cancellando di fatto i temi proposti dal Movimento nel suo complesso.
Quello che voglio affermare è che anche in Italia ieri si è rotto un tabù: il tabù della violenza come male supremo, la necessità del “dover dire” anche quando non c’è nulla da dire. Questo mondo è irriformabile e chi ne subisce le storture sempre più terribilmente, ha solo la possibilità di abbatterlo per disegnare un’alternativa possibile. E se ieri questa alternativa non si è per nulla intravista, se quello che è emerso è solo un riot discriminatorio e nichilista è perchè non si prova a leggere la realtà dietro le nebbie di una cultura del potere che ci ha pervaso.
Molte persone, molte di voi, vanno dicendo da tempo (in maniera a mio parere errata) che in Italia dormiamo e che accettiamo tutto senza ribellarci. Ebbene, ora che il 15 ottobre la ribellione è stata finalmente praticata, cosa avete da dire? Molte altre, inoltre, vanno elogiando le rivolte di altri stati ( dalla Grecia alla Francia, dai Paesi Arabi agli Stati Uniti), salvo poi prendere fortemente le distanze da ogni istanza minimamente ribelle in Italia. E’ probabilmente ora di uscire dall’ambiguità di dire che siamo impotenti di fronte ai giochi di potere del palazzo e poi di fronte al palazzo in fiamme scateniamo la caccia al colpevole, al violento, al riottoso.
Molte altre cose ho visto e vorrei dire e raccontare.
Ma voglio chiudere con questa immagine: in pullman verso Roma, all’andata, di fronte al consueto clima da allegra scampagnata di gitanti fuori porta della domenica, mi son sorpreso a pensare all’inutilità delle manifestazioni/sfilate in cui crediamo di aver “comunicato” le nostre istanze di nuovo mondo, salvo poi venir schiacciati dal monopolio mediatico-semantico del giorno dopo. Ebbene al ritorno finalmente non la pensavo così.
Abbiamo fatto un passo avanti o uno indietro per cambiare questo mondo? Non lo so. Ma credo che è stata messa in atto una progressiva trasformazione dell’immaginario collettivo. E mi sembra abbastanza.
GianMaria da: femminismo a sud
La giornata di ieri è stata una giornata complessa, il cui giudizio non può esaurirsi nelle poche righe di un comunicato ma in analisi profonde che tutto il movimento dovrà condurre in questi giorni.
Lo diciamo subito per non generare equivoci, noi non condividiamo le macchine bruciate e azioni simili, ch……e non fanno altro che alienare simpatie alla protesta. Queste modalità di azione non rappresentano le nostre pratiche politiche, ma i problemi reali sono altri. Questo è solo l’effetto della mancanza di prospettiva politica presente in quella piazza. A vedere le immagini dei “draghi ribelli” e delle migliaia di flash mob che in questi mesi hanno animato le proteste in Italia viene da chiedersi, ma può essere questa l’immagine che viene data del conflitto sociale in atto in questo Paese? Possono essere draghetti di carta, nani e ballerine a rappresentare la rabbia ed il disagio di migliaia di lavoratori che ogni giorno non sanno come far arrivare a fine mese una famiglia? Può ridursi tutto ad un teatrino? E con tutta la complicità e la solidarietà per la lotta degli artisti del Teatro Valle, non si può pensare che operai, studenti, immigrati, chi perde la casa perché non può pagare un mutuo, possa essere disposta ad indossare una maschera e recitare per un giorno una parte che gli viene assegnata. Già ne ha abbastanza della parte che gli viene assegnata da questo sistema. Se questo è ciò che pensa, chi dirige questo movimento verso un pacato confluire all’interno del sistema, chiedendo gli eurobond o meno finanza, senza scavare alle fondamenta del problema, si sbaglia di grosso. Noi di Senza Tregua abbiamo sempre creduto nella necessità di un serio confronto politico sulle ragioni della protesta, noi vogliamo discutere di politica, cosa che non è stata possibile nei tavoli di organizzazione del 15 ottobre. Non condurre a fondo una discussione politica vuol dire non condividere obiettivi di fondo, modalità organizzativa e lasciare che ognuno decida autonomamente il da farsi. Ed in un corteo dove si doveva decidere tra draghetti e tende, con un palco e il sapore di campagna elettorale da una parte, e espressioni conflittuali di vario genere – su molte delle quali abbiamo espresso chiaramente le nostre riserve – non ci stupiamo che molti abbiamo optato per le seconde, di fronte al peso della propria condizione e della crisi.
La retorica del black block ha fatto il suo tempo; chi cerca il corpo estraneo contro cui scagliarsi non capisce la gravità dell’attuale condizione sociale di centinaia di migliaia di persone. A parte episodi isolati ieri, di azioni di piccoli gruppi, in occasione delle cariche della polizia in via Labicana e all’entrata stessa di Piazza San Giovanni, abbiamo visto centinaia di manifestanti reagire all’ingresso dei mezzi della polizia. Chiamarli black block è troppo comodo. E’ non voler capire cosa succede. E’ non voler capire il livello di esasperazione sociale che c’è nel Paese.
Il nostro compito è dare oggi a quella reazione una dimensione politica, che vada ben al di là della logica estetica dello scontro. E’ incanalare la forza in un grande progetto di cambiamento, che metta in discussione dalle radici questo sistema, che punti a costruire una società nuova fondata sull’uguaglianza sociale e non sul profitto. Questa è la grande sfida che noi vogliamo cogliere, ed è il vero superamento di tutto quanto accaduto non solo ieri, ma in questi ultimi vent’anni.
Collettivo SENZA TREGUA Roma Sud
“come mai, quando a fracassare tutto sono i giovani ribelli delle periferie francesi o inglesi non si risparmiano gli attestati di simpatia politica e sociologica – organizzando workshops accademici e nei centri sociali (con tanto di citazioni dai ‘subaltern studies’) – e se poi qui da noi qualcuno li prende sul serio e pensa di emularli o sono teste di cazzo o fascisti infiltrati?”
Salvo Leonardi (citato da qualche parte su Facebook)
Ieri Roma è stato un pasticciaccio. Partiamo dall’inizio. Da Pisa. Casa nostra, il luogo da cui partiamo in tanti, una decina di pullman dalla composizione varia: studenti, lavoratori, sindacalisti, ricercatori, precari e tanto altro.
Si parte presto e in tanti. In pullman proviamo a fare un pò di domande agli studenti che scendono con noi. Proviamo a chiedere perchè scendono a Roma, cosa li spinge. Ci rispondono che il corteo gli sembra in perfetta continuità con le lotte dell’anno scorso. Sono studenti giovanissimi quelli che scendono con noi, ragazzi e ragazze nati all’alba degli anni novanta, cresciuti e formati nelle lotte universitarie e/o studentesche. Arriviamo a Roma con gli universitari che pian piano provano a infilarsi nello spezzone studentesco, uno spezzone enorme che fa parte di un corteo enorme, variegato e variopinto. Lo abbiamo scritto all’inizio: Roma è stato un pasticciaccio, un pasticciaccio di voci e posizioni, spezzoni, idee, modi di vita.
Ben presto, dopo un pò di tentennamenti, abbiamo lasciato gli universitari e ci siamo incamminati verso la testa del corteo. La volontà di provare a trovare una forma di starci dentro era il bisogno principale, trovare una continuità tra le varie parti, o almeno documentare il tutto è il bisogno che ci ha spinto a muoverci: in fondo se pasticciaccio deve essere meglio provare a starci dentro e capirne le varie sfaccettature.
Risaliamo con difficoltà da quanta è la gente che incontriamo: sembra di respirare aria buona. Indignata, incazzata, inferocita non sta a noi dirlo. Migliaia – non centinaia, non decine – migliaia e migliaia di persone scese in piazza per dire basta perchè come ci è stato detto in piazza: “io guadagno 1000 euro al mese, cosa vuoi che faccia se non essere qui, adesso?”.
Arriviamo in Via Cavour da dove si alza del fumo nero. Macchine incendiate. Lacrime dei proprietari. Giornalisti golosi che leccano il miele dello scoop. C’è un suv e anche qualche utilitaria. Forse una macchina è una macchina in fondo, e non fa poi tanta differenza. Forse invece la differenza c’è, perchè le ragioni che stanno dietro l’incendio di un Suv forse si capiscono meglio di quelle che stanno dietro l’incendio di un’utilitaria.
Proseguiamo fino al Colosseo. A destra, verso i Fori Imperiali, i blindati a muraglia a togliere anche solo l’idea di una deviazione. Accarezziamo il Colosseo e continuiamo ad avanzare. Fino a via Merulana. Forse è normale che il pasticciaccio si sia compiuto proprio lì. Forse da qualche parte un vecchio ingegnere dal linguaggio complesso starà anche ridendo. In via Merulana non solo bruciano le macchine, bruciano anche vecchi uffici della difesa, vuoti e chiusi da tempo, bruciano banche, pare bruci anche una casa. Brucia parecchia roba in via Merulana. Brucia, e il fuoco si accompagna all’arrivo delle cariche della Polizia.
Oltre via Merulana c’è Piazza San Giovanni, proprio la piazza dove il corteo si doveva chiudere. Dove dovevano esserci i comizi ma anche gli interventi dei Cobas e dei comitati dell’acqua. Qualunque cosa doveva esserci comunque non c’è stata perchè ci sono le cariche, i caroselli delle camionette. Non c’è tanto da discutere della violenza della Polizia: la Polizia in Italia è sempre violenta, è costituzionalmente violenta, punto. Da questo momento in poi gran parte di quello che era il corteo si dissolve. Una parte viene fatta deviare oltre il Circo Massimo, un’altra parte rimane letteralmente ferma. In piazza San Giovanni intanto gli scontri si fanno più duri, più o meno partecipati. Molti ondeggiano tra il rimanere lì e resistere e la confusione per quello che sta succedendo.
Chiudiamo qui la cronaca. L’era del video fa in modo che si possano trovare decine e decine di immagini sugli scontri. Non ci preme questo, così come non ci preme individuare colpevoli, ricette o qualcosa di simile.
Aut Aut è un grumo di pensiero. Ieri siamo stati in piazza per provare a capire e raccontare. Ciò che ci preme è per l’appunto continua ad essere questo: comprendere cosa sta succedendo oltre la confusione, principale stato d’animo della giornata romana di ieri. Anche oltre l’indignazione. Pensiamo, nella nostra parzialità, che la giornata di ieri ci consegni un dato di profonda rabbia e disagio, ci consegni una componente nuova molto giovane e molto arrabbiata. Una componente che rifiuta totalmente le idee di “alternativa democratica”.
Questo è un dato da cui non si può sfuggire. Perchè le ricette di alternativa o sono partecipate e stanno nei cambiamenti, stando anche nella rabbia, o sono solo la riproposizione del vecchio, cose che un tempo non hanno funzionato e vengono riproposte e, bene che vada, al massimo possono provocare orrore come solo i vecchi fantasmi sanno fare. Dall’altro lato c’è che gli scontri di ieri, anzi, la scintilla che ha provocato gli scontri di ieri ci è piaciuta poco, perchè le macchine bruciate ripropongono dibattiti come quello su violenza e non violenza che speravamo superati. C’è che la rabbia se è solo rabbia non è altro che annichilimento. C’è che se ieri hanno resistito in molti, in molti sono andati via, in molti hanno provato a cacciare via chi bruciava le macchine. In molti hanno fatto a botte per allontanare chi dava fuoco a Via Merulana. C’è che per agire il cambiamento, che è quello che conta perchè questo mondo, questa società in crisi va cambiata, non basta la rabbia. C’è che molto probabilmente i giorni a venire saranno durissimi e che le risposte politiche che adesso abbiamo non sono all’altezza.
Redazione aut-aut Pisa
Ero in via Cavour, ero in via Labicana, ero in piazza San Giovanni, ero in via Merulana. Ho fatto tutto il corteo davanti, tra lo spezzone dello sciopero precario e i cobas. In mezzo a questi due spezzoni il gruppo di black, 150 o poco più, dietro allo striscione “non chiediamo il futuro, ci prendiamo il presente”. In via Cavour cadono le prime vetrine, banche perlopiù, qualche negozio di lusso, auto di grossa cilindrata. Si beccano gli insulti di buona parte dei manifestanti che hanno attorno. I cobas fanno cordone dietro di loro e mantengono le distanze, anche lo spezzone precario dal Colosseo in poi si cordona. Il degenero vero inizia in via Labicana quando i black assaltano una sede distaccata del ministero della difesa e della guardia di finanza. Il tetto prende fuoco, fumo dalle finestre, bombe carta. Pochi metri dopo i black assaltano una banca, cartelli stradali usati come ariete per infrangere le vetrine antiproiettile. Sul muro una scritta: no future? riots! Decine di manifestanti si buttano fisicamente contro i black e urlano “fascisti” e “levatevi il cappuccio e andatevene”. Loro si ricompattano in mezzo alla strada, poi da via Tasso spunta la polizia, i black fanno le prime barricate con i cassonetti, danno fuoco a due auto. Il corteo è spezzato in due. La polizia è in strada ma la risposta è più forte di quella che si aspettavano. Gli agenti si fermano, cercano di contenere il lancio di oggetti. I black salgono fino a via Emanuele Filiberto, arrivano camionette anche da via Manzoni. L’unica via di fuga è andare verso San Giovanni. Partono i primi lacrimogeni, i cassonetti bruciano. Davanti i ragazzi fanno le barricate, dietro centinaia di persone a passo veloce raggiungono San Giovanni. La manifestazione è finita, inizia la guerriglia. E lo scenario cambia.
Non più la devastazione di banche da parte di pochi incappucciati ma la guerriglia diffusa contro polizia e carabinieri da parte di molti. Tanti, un migliaio tra i più attivi, e poi dietro altre migliaia di persone che non vogliono lasciare piazza San Giovanni alla polizia. E questo è un primo dato su cui riflettere: se a spaccare banche erano in pochi, a scontrarsi con la polizia (e a simpatizzare coi rivoltosi) erano in tanti. Anche in momenti drammatici, come quando una camionetta dei carabinieri si fa assaltare e per fortuna non è una nuova piazza Alimonda dieci anni dopo. Anche in quel momento “drammatico e liberatorio” una massa di persone dietro ai rivoltosi incitava e applaudiva.
Una guerriglia durata quasi tre ore. Tre ore sono tante. Sulle gestione della piazza: le camionette con gli idranti, i caroselli tra la folla, i lacrimogeni hanno avuto il sole effetto di ricompattare piazza San Giovanni. Se volevano isolare i “violenti” dagli altri manifestanti hanno avuto proprio l’effetto opposto.
Si sapeva che sarebbe stata una manifestazione incazzata e con gliscontri. Il precedente: il 14 dicembre un anno fa, la differenza: la consapevolezza della rivolta. Il 14 dicembre era rabbia pura, spontanea, uscita fuori violenta dopo il voto di fiducia al governo. Ieri la rabbia era consapevole e alimentata da questi mesi in cui la crisi economica e politica sono degenerate lasciando sul terreno ancora più macerie. Creando indignati e incazzati neri, che ieri si sono ritrovati a sfilare assieme. La cosa evidentemente non ha funzionato, difficile tenere insieme la rabbia di chi vuole azioni dirette e non mediate e la rabbia di chi vuole azioni costruttive e comunicative.
Chi ha organizzato il 15 ottobre voleva una sfilata pacifica fino a una piazza lontana dai palazzi del potere con i soliti comizi finali. Un compromesso di comodo per alcuni. Non serviva essere particolarmente intelligenti per capire che non sarebbe andata così.
The Battle of Rome by X (Alex Foti) da:www.milanox.eu
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