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18 settembre 1982: Il massacro dei palestinesi a Sabra e Chatila

Tra il 16 e il 18 settembre 1982, nel quartiere di Sabra e nel campo profughi di Chatila (istituito ufficialmente nel 1949 per accogliere i profughi palestinesi che, tra il 1947 e il 1948, avevano lasciato le proprie terre occupate dall’esercito israeliano), entrambi posti alla periferia di Beirut in Libano, i miliziani cristiano-falangisti di Elie Hobeika e l’Esercito del Libano del Sud, con la complicità di Israele, compirono un vero e proprio massacro. Tra i 1.700 e i 3.500 palestinesi furono barbaramente uccisi. Di fatto, tutte le vittime furono civili: donne, anziani e bambini.

Il numero delle vittime non fu mai appurato con certezza: l’esercito libanese, chiamato ad indagare sulle proprie responsabilità nel massacro, dichiarò 460 morti, mentre le autorità israeliane ne dichiararono 700-800. Ben diverse furono le stime del cronista Robert Fisk, il quale ritenne le milizie responsabili della morte di circa 1.700 persone e che il massacro degli arrestati continuò anche nei giorni successivi. Un imam del campo profughi stimò tra 2.000 e 3.500 le persone uccise, affermando anche che non avremmo mai potuto sapere il numero completo delle vittime poiché i falangisti ne portarono via molte, caricando i loro corpi su dei camion.

Durante il massacro, l’esercito israeliano presidiò gli ingressi di Sabra e Chatila e impedì a chiunque – incluso stampa internazionale, Croce Rossa internazionale e Mezza Luna Rossa libanese – di entrare: per quaranta ore la popolazione civile palestinese e libanese (in quei campi, infatti, vivevano anche migliaia di libanesi poveri) rimase alla mercé di orde scatenate e mentre il massacro si compiva le uniche cose che poterono entrare nei campi furono i pasti per rifocillare i massacratori. Nessuno, dunque, poté entrare durante quelle quaranta ore, ma molti poterono assistere dai bordi di quei campi e poterono sentire le urla disperate e corali delle persone inermi che cercavano inutilmente di sfuggire alla morte.

Quello che videro i primi volontari della Croce Rossa e della stampa, entrando nel campo dopo i massacri, era indescrivibile. Di seguito due testimonianze (scelte tra le meno cruente) di cronisti accorsi nei giorni successivi nei campi profughi di Sabra e Chatila:

David Lamb scrisse sul quotidiano Los Angeles Times del 23 settembre 1982:

«Alle 16 di venerdì il massacro durava ormai da 19 ore. Gli Israeliani, che stazionavano a meno di 100 metri di distanza, non avevano risposto al crepitio costante degli spari né alla vista dei camion carichi di corpi che venivano portati via dai campi»

Elaine Carey scrisse sul quotidiano Daily Mail del 20 settembre 1982:

«Nella mattinata di sabato 18 settembre, tra i giornalisti esteri si sparse rapidamente una voce: massacro. Io guidai il gruppo verso il campo di Sabra. Nessun segno di vita, di movimento. Molto strano, dal momento che il campo, quattro giorni prima, era brulicante di persone. Quindi scoprimmo il motivo. L’odore traumatizzante della morte era dappertutto. Donne, bambini, vecchi e giovani giacevano sotto il sole cocente. La guerra israelo-palestinese aveva già portato come conseguenza migliaia di morti a Beirut. Ma, in qualche modo, l’uccisione a sangue freddo di questa gente sembrava di gran lunga peggiore»

Guerra civile in Libano e Operazione “Pace in Galilea”

Per comprendere pienamente ciò che avvenne a Sabra e Chatila in quei giorni è necessario inserire questo tragico avvenimento nel quadro della guerra civile libanese e dell’assedio dell’esercito israeliano a Beirut nei mesi precedenti.

La guerra civile libanese fu combattuta tra il 1975 e il 1990. Una delle cause che portarono al conflitto fu l’espulsione dalla Giordania, avvenuta nel 1970, del movimento di resistenza palestinese (l’OLP guidata da Arafat), che dovette rifugiarsi nei campi profughi palestinesi di Beirut. Ciò innescò forti contrasti nel paese, poiché le componenti cristiane maronite della società libanese (cattolici di rito siriano) assunsero un atteggiamento ostile nei confronti della resistenza palestinese, sostenuta invece dalla maggior parte delle componenti musulmane del paese.

La guerra scoppiò nel 1975 con la contrapposizione in armi di due schieramenti politici: da una parte la destra cristiano-maronita, dall’altra le forze della sinistra guidate dal leader dei drusi (componente musulmana distinta da quella sunnita e sciita) Kamal Jumblatt, che venne ucciso nel 1977 in un attentato. Le sorti della guerra civile, inizialmente a favore della sinistra libanese e dell’OLP, furono capovolte dall’intervento della Siria (preoccupata di perdere il controllo geopolitico sulla zona) e di Israele che, alleato con la destra maronita libanese in funzione antipalestinese, adottò un’esplicita politica di intervento militare in territorio libanese contro l’OLP. La sinistra libanese e l’OLP furono così sconfitti e il Libano venne di fatto spartito ed eterodiretto da Siria e Israele.

Israele, non accontentandosi di interventi sporadici in territorio libanese intenti a distruggere le basi della resistenza palestinese, decise in più occasioni l’invasione e l’occupazione militare diretta del Libano meridionale. Ciò avvenne prima nel marzo del 1978 e poi nel giugno 1982 con l’operazione “Pace in Galilea”. L’obiettivo politico-militare principale era la distruzione dell’OLP e la sua cacciata dal Libano. Al tempo stesso, il governo israeliano desiderava una nuova dispersione del popolo palestinese poiché l’OLP era un’organizzazione profondamente radicata all’interno del suo popolo. Per le autorità israeliane non sarebbe stata sufficiente una semplice sconfitta dell’OLP senza la distruzione del tessuto sociale da cui l’OLP traeva sostegno.

L’operazione “Pace in Galilea” fece circa 17.000 vittime civili palestinesi e libanesi, ne ferì altre decine di migliaia e distrusse l’intero paese. I bombardamenti israeliani ridussero il Libano e la sua capitale Beirut ad un cumulo di macerie fumanti. All’inizio di giugno del 1982 gli israeliani iniziarono l’assedio di Beirut e accerchiarono i 15.000 combattenti dell’OLP e i suoi alleati libanesi e siriani all’interno della città.

Da questo assedio scaturì una lunga trattativa internazionale con la mediazione di Stati Uniti, Francia e Italia che si concluse con la firma, il 19 agosto 1982, del “Piano Habib” (dal nome del mediatore americano). Il piano, accettato dai libanesi, dai palestinesi e dagli israeliani, prevedeva l’intervento di una forza multinazionale di pace formata da 800 soldati statunitensi, 800 francesi e 400 italiani per garantire l’ordine durante il ritiro delle forze dell’OLP da Beirut. Tutti i combattenti palestinesi sarebbero dovuti partire entro il 4 settembre successivo e, in seguito, la forza multinazionale avrebbe collaborato con l’esercito libanese per garantire una sicurezza durevole in tutta la zona delle operazioni. Habib ottenne faticosamente dal Primo Ministro israeliano Begin l’assicurazione che i suoi soldati non sarebbero entrati a Beirut Ovest e non avrebbero attaccato i palestinesi nei campi profughi; ottenne inoltre l’assicurazione del presidente libanese Bashir Gemayel che i falangisti non si sarebbero mossi; ottenne infine da Arafat l’impegno che i combattenti dell’OLP avrebbero lasciato Beirut, ma in cambio di garanzie sulla sicurezza dei profughi palestinesi che sarebbero rimasti nei campi in Libano.

Il primo settembre l’OLP terminò l’abbandono di Beirut, ma due giorni dopo le armate israeliane avanzarono e circondarono i campi-profughi palestinesi, violando così il patto internazionale siglato pochi giorni prima. Lo stesso giorno, il 3 settembre, le milizie cristiano-falangiste, alleate degli israeliani, presero posizione nel quartiere di Bir Hassan, ai margini dei campi profughi palestinesi di Sabra e Chatila. I soldati statunitensi, francesi e italiani, inviati per scortare la fuoriuscita dal Libano dei miliziani dell’OLP e per proteggere i civili palestinesi, se ne andarono molto prima di quanto previsto dagli accordi, lasciando campo libero all’esercito israeliano e alle milizie falangiste.

L’11 settembre il Ministro della Difesa israeliano Ariel Sharon contestò la presenza di 2000 guerriglieri dell’OLP rimasti nei campi profughi libanesi.

Il 14 settembre Bashir Gemayel, leader falangista, venne assassinato in un attentato insieme ad altri 26 dirigenti del partito falangista. L’attentato dinamitardo fu molto probabilmente preparato dai servizi segreti siriani, che non volevano Gemayel, vicinissimo a Israele, come presidente del Libano.

Il 15 settembre l’esercito israeliano, ancora in spregio agli accordi sottoscritti, invase Beirut Ovest e bloccò il transito in uscita dai campi profughi. Il Primo Ministro israeliano Begin dichiarò pubblicamente di voler proteggere i palestinesi da eventuali ritorsioni dei falangisti cristiani, mentre Ariel Sharon dichiarò in Parlamento che l’obiettivo era “la distruzione dell’infrastruttura terroristica dell’OLP in Libano”.

Il giorno seguente, il 16 settembre, iniziò la mattanza sotto gli occhi dei soldati israeliani posti di vedetta fuori dai due campi profughi di Sabra e Chatila. Le milizie cristiano-falangiste di Elie Hobeika, in cerca di vendetta per l’assassinio di Bashir Gemayel, entrarono nei campi, dove vivevano migliaia di civili palestinesi e libanesi ormai indifesi.

“Se esistesse il Premio Nobel per la Morte – scrisse Gabriel Garcia Marquez – quest’anno se lo sarebbero assicurati Menahem Begin e il suo assassino di professione Ariel Sharon”.

Reazioni e condanne al massacro

Il massacro di Sabra e Chatila, secondo qualsiasi standard di diritto internazionale, fu un chiaro caso di genocidio (così lo definì anche l’Assemblea delle Nazioni Unite con una risoluzione del 16 dicembre 1982). Nonostante questo, i responsabili del massacro sfuggirono al processo e alla condanna. Infatti, nessuna autorità israeliana e nessun leader della milizia libanese fu mai processato o condannato per tale genocidio.

A livello internazionale lo sgomento fu forte. Un esempio furono le parole dell’allora Presidente della Repubblica Italiana Sandro Pertini nel Discorso di Capodanno del 1982:

«Io sono stato nel Libano. Ho visto i cimiteri di Sabra e Chatila. È una cosa che angoscia vedere questo cimitero dove sono sepolte le vittime di quell’orrendo massacro. Il responsabile dell’orrendo massacro è ancora al governo in Israele. E quasi va baldanzoso di questo massacro compiuto. È un responsabile cui dovrebbe essere dato il bando dalla società».

Dopo il massacro di Sabra e Chatila, anche la società civile israeliana insorse. A Tel Aviv una manifestazione di protesta portò in piazza circa 300.000 persone contro la guerra e contro quei massacri. Il 28 settembre il governo Begin fu costretto a costituire una Commissione d’inchiesta (la Commissione Kahan) per indagare sui fatti di Sabra e Chatila. La Commissione chiuse i suoi lavori l’8 febbraio 1983, individuando come diretti responsabili dei massacri le falangi libanesi guidate da Elie Hobeika e come “responsabili indiretti” il Primo Ministro israeliano Begin e il Ministro della Difesa israeliano Sharon, per aver gravemente sottovalutato le conseguenze di un intervento delle milizie falangiste all’interno dei campi profughi e per non aver adottato misure adeguate di prevenzione.

In realtà, prendendo in prestito le parole dello storico Antonio Moscato, «la verità che la Commissione Kahan ha cercato di nascondere è che il governo israeliano, l’esercito, i servizi segreti non solo “potevano prevedere” il massacro, ma lo avevano previsto da tempo: da quando avevano assoldato una formazione di origine e ideologia fascista come le Falangi. […] si tratta di una delle più gravi lacune del suo rapporto. Probabilmente avrebbe potuto evitare questa lacuna, se avesse tenuto conto del mai rinnegato passato di Begin e di Sharon, organizzatori e apologeti rispettivamente del massacro di Deir Yassin, nel 1948, e di Kibia, nel 1953».

Deir Yassin era un villaggio ad ovest di Gerusalemme che fu scelto a caso da Menachem Begin per una “azione esemplare” che servisse a convincere i palestinesi di tutta la zona ad andarsene in massa. Le truppe dell’Irgun (un gruppo paramilitare sionista) circondarono il villaggio all’alba del 9 aprile 1948 ed uccisero 254 abitanti, uomini, donne, bambini e vecchi. La notizia del massacro fu amplificata ad arte e provocò l’effetto sperato, cioè la fuga disperata di molti arabi spaventati e terrorizzati.

Kibia era invece un villaggio palestinese in Cisgiordania che subì per primo l’applicazione di “rappresaglie” israeliane dopo ogni azione di guerriglia nella Palestina, occupata dall’esercito israeliano. Il 14 ottobre 1953, in seguito a un attentato che aveva provocato tre morti in un villaggio israeliano, un’unità scelta dello Tsahal (forze armate di difesa israeliane), comandata da Ariel Sharon, entrò in Cisgiordania, distrusse 40 abitazioni e uccise 53 abitanti di Kibia.

Il massacro di Sabra e Chatila, dunque, non fu certo il primo orrendo crimine contro il popolo palestinese di cui Begin e Sharon si macchiarono.

(di Michele Azzerri da LivioMaitan.org )