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«Ma davvero anch’io sono straniero?». Storie di italiani senza cittadinanza

Nella scuola più multietnica di Roma, dove i ragazzi di seconda generazione non conoscono la parola «differenza»

«Ma davvero siamo stranieri?». Yusra aveva solo 5 anni quando raccontò alla mamma che a scuola la maestra aveva detto che in classe c’erano dei bambini stranieri. «Ma anche noi lo siamo», fu la risposta della donna. «Noi? E da quando?» replicò Yusra costernata per la scoperta appena fatta . Per Basim, che avrà 18 anni nel 2026, il problema è invece decisamente più pratico. Qualche giorno fa ha raccontato in famiglia che i suoi compagni mangiano panini al prosciutto e forse è per questo che sono più grandi di lui. «Noi siamo musulmani e non mangiamo maiale» gli hanno spiegato i genitori. «Ma io parlo italiano», ha ribattuto lui con decisione.

Per Yusra e Basim quello di «straniero» è un concetto difficile da capire. E come per loro, nati a Roma da genitori marocchini, anche per gli altri studenti della scuola Daniele Manin all’Esquilino, il quartiere più multietnico della capitale. Il 50% degli 800 bambini e ragazzi iscritti ha genitori immigrati e il 90% è nato a Roma. Insieme ai coetanei italiani nelle classi siedono bambini e bambine che hanno le loro radici in Marocco, Costa d’Avorio, Senegal, Colombia, Filippine, Perù, Cina, Egitto, Siria, Palestina, Madagascar, Afghanistan ma che se gli chiedi cosa si sentono ti rispondono tutti nel modo più semplice: italiani. Perché questo sono.

Abituati a condividere intere giornate – la scuola è un tempo pieno dalle 8 alle 16 e comprende materna, elementari e medie – a mangiare, studiare e giocare insieme, non percepiscono neanche lontanamente le presunte differenze che invece fanno paura agli adulti. Sono abituati a scegliersi per affinità e interessi e non per paese di origine delle famiglie. Per questo «straniero» è una parola che per loro significa poco o niente. «Non chiamatemi straniero perché vuol dire estraneo e io non sono un estraneo», si è sfogato un giorno uno di loro.

Sono circa un milione i bambini nati in Italia da genitori stranieri o arrivati da piccoli nel nostro Paese. Perfettamente integrati (ammesso che sia corretto parlare di integrazione per un italiano in Italia) vanno a scuola, tifano per le squadre delle città in cui vivono e delle quali parlano il dialetto. Italiani per tutti ma fantasmi per la legge che, ancorata al vecchio e ormai superato principio dello ius sanguinis (sei italiano se i tuoi genitori sono italiani) impedisce di riconoscerli per quello che sono, cittadini come tutti gli altri.

«Fino a più di dieci anni fa le famiglie italiane portavano via i figli dalla scuola perché non volevano che stessero nella stessa classe con bambini di origine straniera. Eravamo diventati la classica scuola con solo bambini di origine straniera» spiega la preside del Manin, Valeria Ciai.

Le cose cominciarono a cambiare nel 2003 quando il preside dell’epoca, Bruno Cacco, decise di dare alcuni locali della scuola in gestione ai genitori perché costituissero un’associazione. «L’idea fu: imparate a convivere tra genitori perché i vostri figli possano imparare da voi», spiega Ciai. Fu un successo e le iscrizioni cominciarono a crescere anche tra gli italiani. Oggi all’associazione sono iscritte 341 famiglie ma praticamente tutte partecipano alle attività pomeridiane che prevedono momenti di studio anche per gli adulti. «Ci sono mamme che insegnano la propria lingua di origine ad altri genitori, così ad esempio abbiamo corsi di arabo o spagnolo» racconta Francesca Valenza, una delle mamme che fa parte dell’associazione.

«Dopo gli attentati di Parigi con gli studenti più grandi delle medie abbiamo fatto una riunione in palestra» ricorda Rita Arseni, una delle insegnanti. «I ragazzi si sono passati il microfono e hanno raccontato le loro esperienze, anche violenze subite dalle famiglie nei paesi di origine. Alcuni arrivano da zone in cui c’è la guerra e nessuno di loro ha giustificato i terroristi». «Io vengo dal Marocco, e quindi sono straniera», dice Fatiha Mansouri, un’altra mamma. «I miei figli però sono nati qui in Italia eppure sono costretti a sentirsi stranieri nel loro paese. Ecco, la cittadinanza ti toglie di dosso una parola che oggi suona come un insulto: straniero».

«Le cose stanno cambiando in peggio e le campagne contro gli immigrati finiscono col riflettersi anche nella scuola» commenta preoccupata la preside Ciai. «Per la prima volta quest’anno abbiamo avuto una flessione nelle iscrizioni». «Il problema – conclude l’insegnante Rita Arseni – sorge quando i ragazzi escono da qui e vanno alle superiori dove l’idea di diversità si ripresenta proprio nel momento in cui affrontano l’adolescenza, il momento del riconoscimento del proprio sé. Noi gli diamo gli anticorpi per riuscire a superare anche queste difficoltà sperando che siano sufficienti».

Carlo Lania da il manifesto