22 anni in carcere da innocente finalmente risarcito
- aprile 15, 2016
- in carcere, malapolizia, tortura
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Sei milioni e mezzo di euro per ripagare 22 anni in carcere da innocente. Quaranta anni dopo essere finito in manette con un’accusa pesantissima – aver fatto parte del commando che ha ucciso due carabinieri ad “Alkamar”, piccola caserma in provincia di Trapani -, Giuseppe Gulotta si è visto riconoscere dalla Corte d’Appello di Reggio Calabria un risarcimento per l’errore giudiziario che si è consumato sulle sue spalle, condannando il ministero dell’Economia e delle Finanze al pagamento di un maxi risarcimento. Un errore accertato con la sentenza del 2012, quando il tribunale reggino, dopo un calvario iniziato nel 1976, ha certificato la sua innocenza. «Nessuna cifra al mondo potrebbe risarcire quanto ho subito. Sei milioni e mezzo sono tanti e di certo adesso, dopo una vita di stenti, potrò far fronte alle necessità familiari. Ma dopo 40 anni di vita rubata, possono bastare? », si chiede Gulotta.
Lo Stato, infatti, ha riconosciuto a ogni anno della sua vita un valore di 163mila euro. Poco, pochissimo a fronte di come Gulotta ha trascorso quegli anni: dietro le sbarre. «È stato un tecnico a stabilire la cifra di 56 milioni chiesta dai miei avvocati, Saro Lauria e Pardo Cellini, non è una somma a caso. Questa, forse, è l’ennesima beffa subita in questi quaranta anni – ha spiegato -. Speravo in qualcosa di più ma se per lo Stato tutte le mie difficoltà corrispondono a questa cifra rispetterò la sentenza. Però l’amarezza rimane. Alle volte non si trovano le parole per esprimere i sentimenti».
La vita di Gulotta è stata presa e gettata via quando aveva solo 18 anni. Era un giovane muratore quando, di notte, si è ritrovato ammanettato, legato con le caviglie a una sedia, picchiato e umiliato fino a confessare un reato che non aveva commesso e del quale non sapeva nulla.
Per 22 lunghissimi anni quel 27 gennaio del 1976 è stato lui a trucidare il 19enne Carmine Apuzzo e l’appuntato Salvatore Falcetta. Dopo settimane di rastrellamenti, il colonnello Giuseppe Russo e i suoi uomini ammanettarono quattro ragazzi. Furono ore di pestaggi, minacce, finte esecuzioni, scariche elettriche ai testicoli, acqua e sale in gola, fino ad una confessione urlata per ottenere la salvezza.
Iniziarono così i 36 anni di calvario di Gulotta, che ha ottenuto la revisione del processo dopo la rivelazione di un ex carabiniere sui metodi usati per estorcere quelle confessioni. Fu un pentito, Vincenzo Calcara, a parlare di un ruolo della mafia nella strage, collegandola all’organizzazione “Gladio”, la struttura militare segreta con base nel trapanese: i militari potrebbero essere stati uccisi per avere fermato un furgone carico di armi destinato a loro.
L’assoluzione di Gulotta è arrivato il 13 febbraio 2012, trentasei anni esatti dopo il suo arresto. Per sfuggire alla pazzia, Gulotta si creò una dimensione tutta sua, in cui vivere come poteva. «Mi sono chiuso in me stesso, ho evitato ogni rapporto. Mi sono isolato per salvaguardarmi. Non potevo capire chi ci fosse dietro questa storia, ho subito tutto senza sapere né come né perché. So che è stato fatto il mio nome, mi hanno fatto confessare e anche se ho ritrattato subito i giudici non mi hanno creduto. Non lo auguro a nessuno – racconta -.Lo Stato, per errore, ha tenuto la mia vita in sospeso per 40 anni. Di mio non ho potuto creare nulla. Spero in un futuro migliore. Ma il mio passato è andato perso, i miei 18 anni non ci saranno più».
A salvarlo dalla follia è stata la sua famiglia, «che mi è rimasta sempre vicina». E che ha creduto alla verità, quella alla quale per decenni nessuno ha voluto dare ascolto. «Ora respiro l’aria a pieni polmoni. Bisogna andare avanti e scrollarsi di dosso quel che è stato. Malgrado tutto, credo nello Stato e nella giustizia», ha detto.
La storia della sua vita ora è raccontata in un libro, dal titolo “Alkamar”, scritto a quattro mani con Nicola Biondo, «un messaggio di speranza per chi ha vissuto la mia stessa esperienza».
da Il Dubbio