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A 25 anni dal naufragio del Natale ’96

Verità e Giustizia per le vittime del naufragio del Natale ’96

Il naufragio del Natale 1996, della nave F174 in cui perirono 289 persone, venne per tanto tempo negato al punto da parlare di “nave fantasma”. Solo l’impegno di pochi antirazzisti fra cui quello che forse rappresenta ancora oggi l’esempio più lucido di tali battaglie, Dino Frisullo e di pochi altri giornalisti, portò a rendere realtà quello che si voleva celare. Si era verificata allora quella che rimase per anni come la più grande strage del mare Mediterraneo dalla Seconda Guerra Mondiale. Oggi che stragi ancora più immense per il numero di vittime e per le modalità con cui si verificano, si verificano quasi periodicamente, alla chiusura di un anno semplicemente orrendo, per la quantità di vite uccise non dal mare ma da leggi e governi ingiusti, ci sembra giusto ricordare questa data per molte ragioni.

I processi che si sono svolti, a carico dei trafficanti di persone, di quel naufragio, non hanno portato a punirne i responsabili né hanno diminuito l’estendersi delle reti criminali. Questo soprattutto a causa dell’assenza di canali di ingresso regolari e di corridoi umanitari per i profughi. Oggi si intentano processi ai “presunti scafisti” che, quando sono poi tali, si rivelano essere unicamente persone arruolate a forza, o a cui è stato garantito il viaggio gratuito in cambio della guida dell’imbarcazione. In più di un caso ad avere tale imputazione, sono stati anche minorenni.

Questo mentre la rete potente degli smugglers si estende sempre di più e ricorre a metodi spietati grazie anche alle coperture garantite dagli stessi governi con cui l’Unione Europea ha negoziato il Processo di Khartoum ed il Migration Compact. Si pensi al Sudan di Al Bashir, snodo dei traffici di esseri umani per tutto il continente africano e sempre  più coinvolto nel processo di esternalizzazione dei controlli di frontiera.

La raccolta di materiale e di articoli che pubblichiamo, rispetto a quel Natale in cui sembra quasi che tutto sia iniziato, la si deve al prezioso e indispensabile lavoro di un altro dei nostri eterni “compagni di strada”. Alfonso di Stefano che, con la Rete Antirazzista Catanese, ancora garantisce che in quel lembo di Sicilia Orientale, le persone non vengano lasciate da sole. L’impegno antirazzista e per un mondo diverso è anche questo, nella quotidianeità dell’affrontare, a partire dal territorio in cui  si vive, gli efffetti di una guerra a pezzi di cui non si vede la fine. Grazie Alfonso, di compagni come te ce ne sarà sempre più bisogno.

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Buon Natale, clandestino

Di Dino Frisullo

Duecentottantanove persone annegate: uno dei naufragi più gravi della storia del Mediterraneo. La testimonianza resa il 16 luglio scorso alla Procura di Reggio Calabria da Shakoor Ahmad, 25 anni, pakistano, uno dei pochi superstiti, conferma le versioni raccolte dalla polizia greca e le inchieste svolte in solitudine da Zabibullah Basha, padre e zio di due vittime pakistane, e dai giornalisti Livio Quagliata (Il Manifesto), Jesmond Bonello (Malta Indipendente), Pucio Corona (Tgsette), Teijnder Singh (Link Canada), John Hooper (The Observer), Panos Sobolos (Ethnos). Proviamo, intrecciando le fonti, a ricostruire questa tragedia negata, a partire dalla storia di Shakor. Il 22 novembre 1996 insieme ad altri 13 pakistani Shakoor Ahmad vola da Karachi a Dubai, da Dubai a Oman, da Oman al Cairo. Non hanno visti di ingresso: i funzionari di 4 dogane sanno e non vedono. S.T., impiegato del porto di Karachi, e gli altri trafficanti pakistani (R., A., Y., S.), hanno preso da ciascuno 4.000 dollari. Già un anno prima un tentativo era fallito,  erano stati consegnati loro (e poi ritirati) fogli individuali di imbarco come marinai: questa volta solo un documento collettivo. “Vi imbarcherete al Cairo come lavoranti, e subito sarete in Italia: là pagherete ancora chi vi attende e vi procurerà soggiorno, casa e lavoro”.

La nave dell’amicizia

Al Cairo, dopo sei ore di attesa e dopo aver contattato telefonicamente uno dei trafficanti, vedono arrivare  “l’avvocato” che deve occuparsi di loro. E’ una donna: subito entra nella dogana egiziana e ne esce con moduli timbrati, conduce i 14 pakistani in un albergo e il giorno dopo su un furgone ad  Alessandria d’Egitto. Qui l’egiziana discute tre ore con i doganieri del porto. Altri moduli timbrati: via libera, si imbarcano sulla prima nave di una lunga serie, la Friendship. Bandiera panamense, capitano greco, equipaggio russo. Qui trovano centinaia di cingalesi, per lo più Tamil e indiani. Tutti sotto coperta, su una moquette. I loro compagni di viaggio pagano di più: 8 – 13.000 dollari i cingalesi. 5-7.000 gli indiani. Come sono arrivati sulla friendship? Dall’indagine svolta in Grecia da Nabihullah Bacha, che nel naufragio ha perso il figlio e un nipote, risulta che sulla Friendship sono saliti gruppi portati da altre quattro navi provenienti da Istanbul, dalla penisola indiana e da Antakia, porto turco ai quali si aggiungerà il “carico” della quarta nave  proveniente da Adana. In sostanza, già ben prima del 25 novembre la Fiendship comincia a riempirsi.

Infatti, alle rimostranze di Shakoor e dei suoi amici sulla promiscuità e sul cibo immangiabile, “una grande zuppa come per gli animali”, il capitano risponde: “Cingalesi e indiani sono qui da settimane, e non si lamentano…”. Si credevano temporanei marinai, contavano di lavorare, mangiare a mensa e dormire in cabine: ottengono solo di inviare uno di loro in cucina, e di spostarsi a dormire sul pavimento di un’altra stanza. E attendono. “Ogni giorno arrivano nuovi gruppi di cingalesi, indiani pakistani, questi ultimo per un totale di di 79 persone. Il capitano aveva detto che avremmo raggiunto il carico pieno di 400 persone entro una settimana: restammo in porto ben 12 giorni”.

Non toccherete neanche l’acqua

La tensione sale fino alle 22 di un giorno da situare fra il 7 e il 9 dicembre (le testimonianze su questo punto non sono concordanti). Il giorno prima, con l’ultimo gruppo salgono un trafficante pakistano e un greco. Si fanno consegnare da tutti la seconda rata del denaro pattuito. Il pakistano parte con loro cercando di tranquillizzare tutti : “La Friendship ha già scaricato 350 persone in Italia: arriverete subito, un battello vi porterà a riva, non toccherete neanche l’acqua”.  Invece la notte successiva il capitano, pistola in pugno e sparando in aria, li obbliga a passare tutti su un peschereccio con equipaggio greco, lo Hira (altri testimoni citano un altro nome, Sealine). Nel pomeriggio nuovo trasbordo sulla Yohan, un cargo di 1.500 tonnellate battente bandiera honduregna, dove trovano ancora altri asiatici. Totale: oltre 464 persone . Sulla Hiro resta una parte del carico umano diretta in Grecia, dove il capitano dice di aver appena sbarcato due gruppi per un totale di oltre 120 persone, Annuncia agli altri, prima del trasbordo sulla Yohan, che non raggiungeranno l’Italia prima di 15 – 20 giorni. Il capitano della Yohan, il libanese residente in Grecia Yussef El Hallal, era stato arrestato nel ’95 dalla Finanza al comando della Irini  per lo sbarco di un gruppo di cingalesi presso Reggio Calabria. I due ufficiali sono greci, i sette marinai arabi, i due macchinisti cretesi, le inservienti polacche. Il cuoco arabo era “l’unica persona umana dell’equipaggio”.

Di nave in nave 

I nuovi compagni di viaggio sono “così magri e disfatti che gli cascavano i pantaloni”. Vengono dalla Turchia. Venti indiani, giunti da Dehli a Istanbul in aereo e poi portati su un camion ad Adana. Da lì sono stati imbarcati il 5 novembre “come prigionieri” su un cargo turco che ha bordeggiato per un mese prima di trasbordarli sulla Yohan qualche giorno prima dell’arrivo dei 400 dall’Egitto. Altri, anch’essi in prevalenza indiani, sono stati imbarcati il 26 settembre sulla nave Alex nel porto turco di Antakia, da qui il 26 ottobre su un’altra nave chiamata Ena, infine, dopo ben due mesi, il 3 dicembre, sulla Yohan.

Riepilogando, dunque: otto natanti di cui due “contenitori”, rispettivamente la Friendship in porto e la Yohan in mare. Un sistema misto aero-navale a vasi comunicanti fino al carico ottimale. Un’economia aziendale anche nell’evitare gli sprechi, come puo’ essere un  cibo decente per la “merce”. Uno schiavismo tecnologico. Un sistema ferreamente centralizzato: quattro navi su otto (ma forse anche altre più piccole) provengono dalla Turchia, e Istanbul è anche lo snodo aereo o navale fra Colombo e Alessandria d’Egitto, mentre i trafficanti di Karachi fanno capo ad Atene, alla Pakistan – Greek Friendship Association. Si puo’ parlare di mafia turco-greca come regista dell’operazione.

Natale, finalmente!

Per quasi venti giorni la Yohan bordeggia fra Malta e la Sicilia, a volte si scorgono le luci di ambedue le coste. Una volta al giorno un quarto di litro d’acqua e un pezzo di pane, poi sostituito da un pugno di riso senza sale, per quasi 500 essere umani rinchiusi in una stiva, con una o due ore d’aria. Una notte entrano in un porto siciliano, ma un guardacoste accende le luci e li insegue per un breve tratto. Tre giorni prima di Natale un battello, quello su cui poi si consumerà la sciagura, porta da  Malta i rifornimenti.

Finalmente il 24 dicembre il capitano, che ogni giorno ripete di attendere da Malta il traghettatore per la costa siciliana, li avverte: è per quella notte, con o senza battello. Sono cosi’ esausti da accettare anche di calarsi con le corde in mare, pur di sbarcare. Ma partiti alle 18 dalle acque maltesi, all’1,30 il legno maltese arriva. In realtà era tutto previsto: il fratello di un tamil, residente a Milano, aveva avuto tre giorni prima per telefono dal trafficante di Colombo il preannuncio dello sbarco per la notte di Natale.

400 persone in 18 metri

La “nave della morte” viene da Malta. E’ un legno di 18 metri a fondo piatto, bianco a strisce azzurre, dalla sigla F – 174, gemello del lunch F – 143 Temptation ancorato nello stesso porto e anch’esso trasformato da vecchia lancia della Marina inglese, in peschereccio. E’ tenuto da corde perchè non si sfasci e la sua stiva, riadattata a vani frigorifero puo’ contenere 600 scatoloni di pesce. L’Interpool confermerà la sua scomparsa. L’ha noleggiata per l’equivalente di 60 milioni di lire uno straniero misterioso che risiede a Malta, insieme e per conto del già citato quarantaduenne Eftichios Zervoudakis (il nome diventa “Ikios Giarbudakis” nel servizio di TG7 del 18 febbraio), già condannato a 5 anni in Grecia nell’88 per traffico di droga, cervello logistico dell’operazione e membro della Pakistan Greek-Friendship Association. Assoldano un greco residente a Zurrieq (Malta), e un maltese, residente con la famiglia a Cospicua. Il battello viene dal porto di Marsaxlokk, carica altre 50 persone a Xghalia, presso Zabbar, poi punta verso la Yohan in permanente contatto radio con Malta.

L’F-174 dovrebbe traghettare gradualmente il “carico” della Yohan, ma gli uomini non ce la fanno più e, sfondati i boccaporti, emergono dalla stiva-prigione e si gettano in massa nello scafo. Alcuni dicono che El Hallal li incitasse a scendere tutti nel battello, altri che cercasse di fermarli. Quando le navi si staccano, sono a bordo (secondo il calcolo dei sopravvissuti) 118 persone. I 50 già presenti da Malta non sono mai stati calcolati nel bilancio del naufragio: in realtà sono dunque quasi 400.

A 30 km dall’Italia

Quando le due navi si riavvicinano per far scendere Zervoudakis, salito sulla Yohan per sintonizzare i radiotelefoni, c’è un primo urto per via del mare mosso: da un foro l’F – 174 inizia a imbarcare acqua a prua. Ma si parte ugualmente: sono, secondo il capitano, a 30 km dalla Sicilia.

Le due navi viaggiano di conserva nella notte, ma l’F – 174 è sempre piu’ rallentato dall’acqua che gli immigrati si danno il turno a gettare fuori a secchiate dalla sala macchine. Passano in mezzo “alle luci bianche e gialle di 4 o 5 navi ferme”: forse petroliere che usano sostare all’imboccatura del golfo di Noto, a est-nordest di Capo Passero, per pulire illegalmente i serbatoi o attendere che il mare, quella notte in tempesta, si calmi. La falla da rumori secchi, si allarga, la gente sopra coperta si raggruppa a poppa per riequilibrare, gli altri, chiusi nella stiva, chiedono aiuto, sempre più immersi nell’acqua. Infine l’acqua è troppa, chi lavorava a gettarla fuori dall sala macchine rinuncia e corre sopra coperta, l’F – 174 si immerge di prua e, secondo alcuni, si ferma, con la sala macchina fumante invasa dall’acqua, secondo altri continua a navigare rollando paurosamente. Intorno, ancora luci di navi all’ancora.

Come topi

Il capitano chiama la Yohan, che torna indietro a tutta forza, gira intorno al legno maltese e fa per accostarlo, ma invece lo sperona di netto spaccandolo in tre pezzi, fra cui relativamente integra la poppa, sotto cui centinaia di uomini stanno chiusi nelle celle frigorifere.

Solo in quattro riescono ad afferrare le corde della Yohan e ad arrampicarsi: i pakistani ShakoorAhmad e Shabab e 2 indiani. Dalla tolda buttano giù tutto quello che trovano: salvagenti, giubbotti, legname. Si salvano cosi’ altre 25 persone (19 secondo Shakoor, ma la cifra più attendibile è riferita dall’indiano B.S., che conferma anche il particolare, non notato dal ragazzo pakistano, di almeno 150 persone rinchiuse come topi nelle celle frigorifere). L’immagine più atroce, che riempie di angoscia gli occhi di Shakoor, è quella di un ragazzo indiano che si trascina a bordo perdendo sangue persino dagli occhi e muore quasi subito, e il capitano fa ributtare in mare il cadavere minacciando con la pistola gli scampati che chiedono di seppellire almeno lui in terraferma. Dalla Yohan stranamente non vedono più le luci delle altre navi intorno, in compenso vedono la costa vicina: forse anche prima vedevano, senza saperlo, le luci della Sicilia. Ancora armato, ubriaco, il capitano giura di aver chiamato i soccorsi, e ordina di ripartire. Verso la Sicilia, dice. Invece fa rotta verso la Grecia,  dove arriverà ben quattro giorni dopo.

Prigionieri!

Il 28 dicembre sera la Yohan si ferma, rischiando un nuovo naufragio nel mare in tempesta, “in un canale fra due montagne”, ripara il motore in avaria e sbarca in un’isola tutti i 172 passeggeri., in cui 29 scampati al naufragio. Dopo averli chiusi sotto chiave in una casa, trafficanti di diverse nazionalità cercano di convincerli a non denunciare l’accaduto. Qualcuno riesce a fuggire e si rivolge alla polizia greca. Infine il 30 dicembre un Tir ne carica 107 (37 pakistani, 51 srilankesi e 19 indiani) e li scarica a Hermioni, presso Nauplios, dove la polizia li arresta. I loro racconti combaciano con quelli dei primi fermati e poi con quelli riferiti alla polizia di Argo da 57 tamil, rilasciati dopo essere stati reclusi per 2 giorni da sorveglianti armati di fucile.

Il commissario di Nauplios, Panayotis Kalofalias, li trattiene per 22 giorni e concorda con il procuratore locale Jannis Pravataris: il naufragio c’è stato, non è possibile un’invenzione collettiva, 11 persone, fra cui 6 greci vengono incriminate e condannate. Solo il governo italiano continuerà a a lungo a negare l’evidenza. Tutti i fermati sono rimpatriati il 26 gennaio, salvo 22 cingalesi che affermano di rischiare persecuzioni in quanto tamil : 7 di loro hanno anche chiesto asilo politico. Chi è sfuggito alla cattura vaga per mesi in Grecia lavorando e custodendo il suo segreto, come Shakoor, che un giorno si trova davanti proprio uno dei trafficanti, fuggito in Grecia per non dover rispondere della strage alle famiglie delle vittime. E’ lui che gli paga il biglietto del traghetto per l’Italia.

Dove? In mare, in mare…

Dove è avvenuto il naufragio? I marinai maltesi indicano un punto esatto: 30 miglia a nord-est di Malta, 40 a sud di Capo Passero. A  lungo è circolata questa  indicazione: ma probabilmente non è il luogo dove giace il relitto (impossibile da conoscere in partenza da Malta), ma il luogo di appuntamento fra le due navi. Da quel punto hanno navigato per un’ora e un quarto, secondo Shakoor, forse qualcosa di più, se il trasbordo è avvenuto all’1,30 di notte e la Yohan è ripartita quasi subito verso la Grecia, dopo il rapidissimo naufragio, alle 3,30. Almeno 90 minuti di navigazione, dunque: sufficienti per doppiare Capo Passero ed entrare nella parte meridionale del golfo di Noto, dove sostano le petroliere e si vedono le luci di Pachino, Marina di Noto, Avola. Dunque in acque territoriali italiane. Il 30 gennaio due corpi restano imbrigliati nelle reti dei pescherecci Ambra e Gulia, al largo di Lampedusa: l’autopsia situa la morte a un mese prima, un corpo umano in mare percorre, con le correnti, 24 nodi al giorno e in 20 giorni puo’ attraversare il canale di Sicilia. Molto più tardi, in giugno, altri 2 corpi affiorano a nord del possibile naufragio: uno di loro, trovato presso la penisola Magnisi nella zona industriale di Siracusa, ha indosso i resti di tre paia di pantaloni, come fanno i clandestini per non portare bagaglio a mano quando sbarcano.

Non proprio solerti

Intanto il 28 febbraio la Yohan viene bloccata dopo aver sbarcato 155 cingalesi e pakistani a sud di Reggio Calabria. Viene trainata in porto. John Hooper dell’Observer nota le lettere cancellate “OHAN” sulla fiancata. In prima pagina, il 3 marzo, il suo giornale titola “Found the ship of the death”: sulle prime pagine dei giornali italiani, a parte “il Manifesto” e “Liberazione”, si conterà solo un editoriale de”La Stampa”. Nella stiva si trovano brandelli della bandiera honduregna, e le povere cose dei naufraghi saranno riconosciute il 7 maggio ’97 da Shakoor, insieme ai segni del duplice speronamento. Ma per l’avvocato italiano di molti trafficanti, Francesco Comi, l’identificazione è “una grossa montatura”.  E le omissioni delle autorità, specie italiane? Vediamo. Il 4 gennaio la Reuter, citando Massimo Grisetti, portavoce del Centro di Coordinamento del  salvataggio navale, afferma che il primo allarme è giunto all’Italia dal corrispondente oraismo maltese già il 26 dicembre: “Verificare possibile collisione nel canale di Sicilia”. Ma Alberto Stefanini, comandante del centro operativo “Guardia Costiera di Roma”, l’11 gennaio smentisce in parte: da Malta avrebbero solo denunciato la scomparsa di un peschereccio, non una collisione. Sta di fatto che Grisetti viene trasferito da Roma. Per Stefanini il primo allarme sarebbe giunto il 31 dicembre dal Pireus Rescue Coordination Centre, l’organismo greco di guardia costiera, sulla base delle testimonianze dei superstiti raccolti in Grecia. Stefanini dice che sono state subito inviate in perlustrazione motovedette dalla Sicilia e da Reggio Calabria, e sono state informate anche le 4 navi militari  che incrociano nel Canale, senza risultato. Scandagliare il mare? Non si sa dove, comunque i batiscafi della Saipem costano, sono già stati usti in un’occasione simile, ma solo perchè c’era di mezzo la Rai (da “Il manifesto” dell’11 gennaio). Ma l’Ansa il 4 gennaio da notizia che sono state inviate, una sola volta due sole motovedette.

Un ago del pagliaio!

In realtà la Yohan era già stata notata, nella sua lunga permanenza in un mare assai controllato: secondo Salvatore Orami, responsabile della Capitaneria di porto di Lampedusa, il 30 dicembre la centrale operativa delle Capitanerie greche avrebbe segnalato “una nave honduregna in navigazione fra Malta e la Sicilia”. Troppo tardi…Dunque pero’ era possibile individuare la nave della morte anche da parte degli italiani, prime del naufragio, ed era forse possibile, dopo 24 ore, salvare ancora qualcuno. Ma il 5 gennaio il  Comandante generale delle Capitanerie di Porto, ammiraglio Ferraro, giudica “molto vaghe” le precise notizie provenienti dalla Grecia e “impossibile una ricerca mirata in mare “, anche se si fossero mobilitate non due motovedette, dice, ma due squadriglie. Ancora il 14 gennaio, quando si delinea anche l’area del naufragio, l’ammiraglio Lolli, comandante della Guardia Costiera, la situa “non a Capo Passero, se mai ad est di Malta” (eppure la nave era diretta in Italia). Intanto il 7 gennaio la Reuter riporta le precise interviste ai superstiti realizzate da Costas Paris in Grecia, l’8 aggiunge la testimonianza di uno del fratello di uno dei naufraghi, residente a Milano, il 9 il Senato pakistano delega con voto unanime il governo a chiedere notizie all’Italia, l’11 finalmente  anche il Tg 1 ne parla, il 12 la notizia rimbalza sul’Observere sulle reti Abc e Bbc, il 14 giunge al governo un’accorata lettera dai Tamil di Palermo e del presidente della Provincia Puccio. Si moltiplicano le interrogazioni parlamentari e le sollecitazioni al governo, da Gloria Buffo del Pds ai senatori Russo Spena, Marchetti e Marino e ai deputati Diliberto, Moroni e Pistone del Prc, al segretario della Filt- Cgil Mario Sommariva, alla senatrice Tana De Zulueta…

Un naufragio? Ma quale naufragio!

Ma il prefetto Scivoletto, Commissario straordinario per l’immigrazione, non è mai stato informato, e il governo italiano continua a ripetere i suoi dubbi sull’esistenza del naufragio. Quanto alla stampa italiana, è così disinteressata(con le eccezioni già richiamate), da attirarsi le ironie della stampa inglese. Fa più notizia il naufragio di due navigatori durante il periplo del mondo. Se poi si va a verificare l’atteggiamento dei mezzi di comunicazIone di massa dei paesi in cui si tiravano i fili: non una riga sulla stampa turca, solo il giornale Ethos e due reti televisive si interessano della vicenda in Grecia. Anche quando, mesi dopo, il governo italiano deve prendere atto della realtà della tragedia, nulla si muove: c’è l’emergenza albanese…

I clandestini non contano…

Quanti morti attendono in mare almeno l’atto umanitario del recupero del relitto e della restituzione delle salme alle famiglie? Ben 289 : 31 pakistani, 166 indiani, 92 cingalesi, tutti di etnia tamil, tranne 4. Solo l’ambasciata pakistana ha trasmesso la lista degli scomparsi, chiedendo insistentemente e inutilmente notizie alla Farnesina. La lista degli scomparsi è stata pubblicata il 12 gennaio dal quotidiano della diaspora tamil in Europa, Vrakesari. Quanto agli indiani, erano venuti attraverso la Turchia in gruppi compatti e contati. Ma se è vero che il battello era giunto all’appuntamento già con un carico di circa 50 persone da Malta, come risulta dall’inchiesta di Bonello su The Malta Indipendent del 9 marzo, il numero degli scomparsi si avvicina ai 400. Forse da questo dipendono alcune discrepanze : i tamil lamentano 140 dispersi, non 92. In ogni caso, una strage. Una strage di clandestini: di invisibili per definizione, di intrusi, di indesiderati. Dunque da rimuovere dalla memoria collettiva: conoscere le circostanze, i responsabili, ancora in piena attività, metterebbe in crisi non solo le politiche dell’immigrazione o dell’antimafia, ma l’idea che abbiamo di noi stessi e della nostra civiltà. Meglio non sapere.

Da Narcomafie – Settembre 1997

 

La holding degli schiavisti

di Dino Frisullo

Quella che segue è una cronaca giudiziaria. O almeno, speriamo lo divenga. E’ la ricostruzione della tratta dei nuovi schiavi nel Mediterraneo Orientale, – di cui presto si occuperà, grazie agli spunti forniti dalla nostra inchiesta, il settimanale Aktuel, il piu’ letto in Turchia – in gran parte esposta e verbalizzata in due procure italiane ( Reggio Calabria e Siracusa) dagli esponenti della Rete Antirazzista, dall’associazione dei lavoratori pakistani e dal fronte di liberazione del Kurdistan. Pakistani e curdi: due fra le grandi miniere a cui attinge il businness dell’immigrazione clandestina. I movimenti kurdi in Europa non sono nuovi alla denuncia e alla controinformazione sui traffici ai loro danni, nuova è invece la rottura dell’omertà nelle comunità asiatiche, seguita allo choc del naufragio che uccise 289 persone nella notte di Natale del ’96 nel canale di Sicilia. Le denunce alla magistratura sono state corredate da oltre 200 nomi e riferimenti a trafficanti turchi, greci, pakistani, irakeni, maltesi, italiani: nomi che ovviamente in questa sede riporteremo solo in parte, e comunque citando soltanto le iniziali, per non depotenziare le indagini in corso. Nomi che dovrebbero essere già noti alle forze di polizia italiane e straniere, comunque facilmente reperibili con una seria indagine internazionale. Si tratta di una rete operante quasi alla luce del sole, con agenti e agenzie legali, con visti e documenti autentici o contraffatti, con regolari transiti attraverso moltplici dogane terrestri, portuali e aeroportuali.

Schiavisti in business class

Non ci riferiamo qui agli scafisti albanesi  o ai traghettatori tunisini, che lucrano sulle briciole del grande traffico rischiando comunque di persona, ma ai trafficanti mafiosi che viaggiano solo in business class e organizzano via telex i carichi umani e le flottiglie  che, di trasbordo in trasbordo, porteranno i loro “passeggeri” all’approdo o alla morte. Godono di protezioni certe ed elevate, se sono stati finora liberi di operare seguendo la loro merce dal villaggio di partenza fino all’ultimo pagamento. Protezioni e complicità di Stato: si pensi solo agli intrecci fra mafia e regime in Turchia o nella Cipro turca. Secondo fonti attendibili, fino a non molto tempo fa ogni giorno 2 aerei facevano la spola fra gli areoporti di Istanbul e Tirana trasportando clandestini destinati alla traversata del canale d’Otranto, sotto gli occhi di dogane e polizie. Erano allora al potere, dalle due parti, Tansu Ciller e Berisha: 2 amici e alleati dell’Italia, che intanto distogliendo lo sguardo dalla sorgente del flusso, militarizzava inutilmente le coste pugliesi.

Ma anche se indagini interanzionali colpissero tutti i grandi trafficanti, altri li sostituirebbero. Per questo la Rete Antirazzista ha associato alla denuncia degli schiavisti, spesso omicidi, la richiesta di apertura dei canali legali di ingresso per la ricerca di lavoro in Italia,alternativi a quelli clandestini. Per questo il movimento curdo insiste sulla necessità di una politica diversa dell’Europa nei confronti dei regimi che riducono sistematicamente un popolo a una massa di profughi. Per questo, infine, va rivendicato un nuovo ordine mondiale nel quale i redditi italiani non siano il decuplo di quelli del Bangladesh. Quando milIoni di persone pongono a rischio tutto quello che rimane loro, inclusa la vita, non c’è muraglia che possa trattenerle: occorre intervenire sulle cause degli esodi.

  1. Dal Bosforo al Canale di Sicilia

Tariffe di viaggio

Da alcuni mesi si moltiplicano gli sbarchi in Italia: non più solo di gommoni o scafi leggeri, ma di navi cariche ciascuna di 3 – 4.000 persone. E’ questo il carico considerato ottimale dai trafficanti: una nave di piccola stazza in pessime condizioni costa, sul mercato dell’usato, circa 50.000 dollari e rende  ( a una media di 4.000 dollari a testa :  5 – 7.000 per gli asiatici, 3 – 4.000 per curdi e mediorientali, 1 – 2.000 per i balcanici) circa un milione di dollari. E’ una redditività che copre ampiamente i rischio di perdita della nave, per sequestro o per naufragio, già dal suo primo viaggio: ma una nave puo’ eFfettuare molti vIaggi. Moltiplicando nomi e date incise sulle pareti della stiva ai lati di misere cuccette alte 30 centimetri, i testimoni pakistani hanno calcolato che la Yohan,la nave – killer ora soto sequestro a Reggio Calabria, ha trasportato non meno di 18.000 persone nel corso degli anni ’90. Il capitano libanese non aveva neanche  ripulito la stiva dalle povere cianfrusaglie dei quasi 300 annegati, prima di effettuare un nuovo carico : il superteste pakistano che il 16 luglio l’ha visitata, Shakoo Ahmad, vi ha ritrovato oggetti suoi e dei suoi amici morti.

Alla luce del sole

Queste navi spesso operano coordinate in flottiglie. Il loro possesso e uso, il concentramento, lo smistamento e la spedizione di “carichi” di centinaia di uomini dai porti mediterranei ai vari trasbordi fino alla destinazione finale, la graduale riscossione e ripartizione del denaro e il suo riciclaggio, presuppongono un’organizzazione relativamente centralizzata, da grande azienda multinazionale. Il vertice di questa organizzazione, che manovra grandi flussi di persone e di denaro, non puo’ restare a lungo totalmente clandestino : le persone sono ben piu’ visibili di droga e armi e, a differenza delle altre merci, parlano. Dunque il centro deve situarsi in un paese che garantisca tolleranza e copertura a trafficanti che operano  quasi alla luce del sole.

La nostra ipotesi è che il centro del grande traffico di clandestini nel Mediterraneo orientale sia Istanbul, e cha la sua protagonista, la grande mafia turca, goda della copertura e della connivenza delle autorità. Libera di operare quasi alla luce del sole, la mafia turca concentra a Istanbul immigrati asiatici e profughi curdi (dei quali ha il monopolio), smistandoli poi nei porti di imbarco: Istanbul, Izmir, Adana, Antakia in Turchia, oppure i porti greci o egiziani. L’organizzazione e direzione del traffico e la raccolta e riciclaggio del denaro spettano dunque alla mafia turca, forte dell’esperienza accumulata in un ventennio di canalizzazione dell’esodo kurdo, turco e armeno. I nomi che emergono dalle testimonianze, tutti ben noti ai clandestini che si affollano in riva al Bosforo, appartengono al Gotha mafioso e sono i cervelli turchi del traffico via mare. Quanto alla destinazione dei proventi, una recente inchiesta dell’Economist indica nella Turchia e in Cipro due delle maggiori “lavanderie” di denaro a livello mondiale: secondo Fikri Saglar, vicepresidente e relatore di minoranza della Commissione parlamentare turca d’inchiesta sulla mafia, una registrazione telefonica accusa i coniugi Ciller (ossia i vertici dello stato turco) dell’assassinio nell’estate del ’96 di Luftu Topal, re dei casino’ turchi e sopratutto turco-ciprioti, sullo sfondo della guerra per bande per i proventi del riciclaggio di denaro nella case da gioco.

Ognuno al suo posto

A Istanbul ai trafficanti turchi si affiancano quelli pakistani, spesso affiliati anch’essi alla mafia turca, monopolisti del reclutamento dall’intero continente indiano (India, Pakistan, Bangladesh, Sri Lanka). Pakistani sono F.U. a Colombo, S.T. M.P. e A.Y. a Karachi, e poi vi è una rete di agenti in Bangladesh e nell’India meridionale. I pakistani a loro volta hanno stabilito forti legami coni trafficanti greci che da Atene, centro della più grande flotta mercantile del mondo, forniscono navi, organizzazione logistica, rifugi nelle isole egee, complicità portuali e armatoriali.

Ai greci ( insieme a elementi libanesi e mediorientali) fa capo parte del traffico di lavoratori asiatici e, sempre più, viene loro appaltato dai turchi l’imbarco dei profughi kurdo-irakeni, mentre quelli kurdo-turchi partono direttamente dalla Turchia. In Grecia operano trafficantI irakeni e vere e proprie agenzie faceNti capo ai principali partiti e clan curdo – irakeni. Infine troviamo, con mansioni esecutive di traffico minuto, i trafficanti albanesi, maltesi, ciprioti.

Solo se c’è droga…

In questo quadro la mafia italiana ha un ruolo marginale. Gli italiani hanno lasciato ai turchi l’egemonia dello scomodo traffico di persone, e in Italia opera una rete prevalentemente straniera adibita semplicemente al ricevimento di clandestini e profughi e al loro spostamento verso Roma ( per gli asiatici) o verso Milano e l’espatrio clandestino verso il centroEuropa o la Francia (per i curdi). A Milano i “passatori” sono coordinati dal turco A.N., già condannato per traffici mafiosi in Germania e da un certo A. Ai terminali italiani va anche il compito dell’ ultima “spremitura” di quei clandestini che non abbiamo interamente saldato il costo del viaggio. La mafia italiana entra pienamente in gioco solo quando i clandestini entrano le droghe: non la povera marijunana albanese, “interessante” solo se in grandi quantitativi, ma droghe pesanti e remunerative.

Verso l’Italia l’intreccio fra traffico di droga e clandestini non è nè diffuso nè sistematico, ma è certo reale. Il 9 agosto del ’96 nell’isola greca di Kalymnosn furono bloccati 11 kurdo-irakeni che attendevano una nave probabilmene diretta in Italia, con zaini forniti dai trafficanti: credevano fosse cibo, era eroina. In Albania si dice che quando Shemsie Kadra, proprietaria della finanziaria Gjiallica, un’ora prima del mandato di cattura Interpol, fuggi’ in Turchia portata all’areoporto da una macchina del Pd di Bersha – di cui suo marito Gani era intimo e finanziatore -, il fallimento della finanziaria non fosse dovuto a insolvibilità (130 milioni di dollari depositati solo nella banche austriache, contro 330 di debiti), ma alla difficoltà di affiancare una gigantesca partita di eroina turca ai clandestini che partivano da Valona: a questa vicenda andrebbe legato da un lato il suicidio di Izmir, dall’altro le strane morti di dirigenti del Banco di Roma, indicato come terminale di fondi albanesi. E’ recente l’incriminazione in Turchia della società di Turban, capofila di un impero di trasporti e agenzie turistiche fra cui l’italiana Turbanitalia, per traffico internazionale di droga e clandestini: coproprietaria della Turban è l’ex premier Tansu Ciller, che già secondo un’indagine parlamentare, ne avrebbe distolto fondi nei primi anni ’90 per finanziare la Gladio turca.

Due trampolini

Tornando ai clandestini: la guerra nell’ex Jugoslavia e la blindatura delle frontiere orientali tedesche hanno contribuito ad accentrare sugli approdi dell’Italia meridionale anche la parte del traffico che una volta si svolgeva via terra, attraverso l’ex Jugoslavia e l’asse Bulgaria-Cecoslovacchia. Inoltre l’aumentato controllo delle coste pugliesi legato anche all’emergenza albanese, ha spostato gli approdi verso Calabria e Sicilia. In particolare la Sicilia è obbiettivo ideale per l’ampiezza delle coste isolane e la vicinanza con malta, trampolini – lo ammette anche il primo ministro maltese – dei traffici nonsolo di clandestini, ma di armi e droghe. L’altro scalo intermedio assai frequente è Cipro. Ormai i trafficanti preferiscono i grandi trasporti navali, immediatamente e ampiamente remunerativi, allo stillicidio di gommoni dall’Albania, che comunque restano un rubinetto aperto: le navi pero’ sono un investimento e non sempre rischiano l’approdo diretto in Italia, preferendo il trasbordo sotto costa su piccoli natanti, forniti volentieri dalla flotta peschereccia maltese. Anche per questo motivo gli sbarchi si vanno orientando verso il canale di Sicilia, nel tratto prospiciente le coste maltesi.

Il magazzino di merce umana

Nel box a fondo pagina abbiamo citato solo gli episodi principali di un preciso settore del contrabbando di persone: il business degli asiatici e dei curdi. Si tratta di un traffico fortemente struttrato, gestito dalla mafia turco – greca – pakistana con apposite navi o flottiglie dirette verso l’Italia meridionale e in particolare in Sicilia e Calabria, dotato di forti complicità grazie al budget plurimiliardario. Non è l’arrembaggio disperato  degli albanesi, non è la pressione stagionale dei maghrebini: è un flusso controllato alla fonte, attraverso i reclutatori che battono i villaggi del subcontinente indiano o selezionano nella massa di profughi curdi di Turchia o d’Iraq. E’ un flusso programmato su ordinazione dagli speculatori, che mettono in conto la possibile perdita delle navi e della “merce”come un costo d’esercizio. Istanbul è un grande magazzino di merce umana, con imprenditori mafiosi come M.G. e H.T., che lasmistano in cento locande di infimo ordine in attesa della partenza.

  1. Le altre viaz: Grecia, Albania,Pakistan

 

L’amicizia greco-pakistana

L’altro magazzino di smistamento è Atene, con porto secondario di imbarco a Patrasso: dalle indagini del pakistano Zabihullah Bacha (non certo aiutato dalle autorità greche) sul naufragio del Natale ’96, è emerso ad esempio l’organigramma della Pakistan- Greek Friendship Association, una vera e propria holding con al vertice 6 greci, 2 pakistani e 1 maltese. Una legale associazione a delinquere capeggiata dal quarantaduenne Eftichios Zervoudakis, arrestato e scarcerato nell’88 : armatori, diplomatici e trafficanti di alto livello, capaci di procacciarsi dalle ambasciate greche all’estero i visti di ingresso per falsi marinai, e di coordinare verso l’Italia una flotta di natanti e un collaudato sistema di trasbordi nei porti e in alto mare. Si dice inoltre che in Grecia siano oltre 20.000 i curdo-irakeni in attesa di trasporto,  il boss irakeno S. e molti altri (anche legati ai vari partiti-clan del Kurdistan irakeno) che li smistano fra Atene e Patrasso.

Naturalmente una parte di questo flusso viene indirizzata verso le 1.000 vie della traversata adriatica. Nella sola giornata del 29 luglio ’97 vengono trovati 25 curdi, fra cui 6 donne e 7 bambini, sbarcati in Puglia per 1 milione l’uno e poi giunti fino alla stazione di Campobasso,  altri 4 curdi nella stazione di Bari, e 9 a Occhiello (Rovigo) su un Tir diretto in Francia. Pochi giorni prima, il 18 luglio, altri 10 kurdi erano stato trovati sul litorale salentino presso Casalabate, e 3 curdo – irakeni respinti da Bari con lo stesso traghetto di linea con cui erano arrivati, insieme a un gruppo di albanesi, nigeriani e slavi.

Scalo Albanese

In Albania  asiatici e curdi incontrano un’umanità molto più varia: slavi, estereuropei, africani. Alcuni hanno già pagato i passaggi precedenti, altri sono arivati in Albania autonomamente. Gli scafisti non fanno differenza: basta che paghino. Anche qui non mancano i disastri. Il 31.12.1992 solo un albanese si salva, degli 11 (tutti albanesi tranne un greco) schiantatisi su una scogliera presso Otranto; ancora nel canale di Otranto il 12.  10.  1994 una collisione fra 2 scafi con 58 persone a bordo uccide 13 albanesi; il 10. 9. 95 e il 30.11.95, sempre al largo delle coste salentine, muoiono rispettivamente 11 e 19 albanesi per l’incendio e l’affondamento di 2 gommoni (sarà stato lo zelo dei guarda coste italiani): infine il 27.3 97  l’episodio piu’ atroce e piu’ gravido di responsabilità per l’Italia, lo speronamento e l’affondamento di una nave partita da Valona, con almeno 85 morti.

Lealtre 2 vie d’accesso in Italia sono i Tir caricati sulle navi mercantili, i traghetti e le navi di linea per i passeggeri. Nel primo caso, spesso ai 20 – 25 clandestini nascosti in ogni Tir, provenienti dalla Turchia o dalla Grecia, si affianca o si alterna il trasporto di droga. Nel secondo, i trafficanti – specie greci – provvedono a fornire a pagamento i doppi passaporti falsi, uno europeo all’imbarco, l’altro greco da usare per l’ingresso in Italia. Ambedue i traffici fanno capo ai porti italiani di Bari e Brindisi, e in subordine Napoli e Trieste. Si è calcolato (vedi Narcomafie n. 3/97) che le navi di linea della compagnia di Stato turca, per molti anni abbiano trasportato in Italia da Izmir almeno 4.000 clandestini al mese con una percentuale del 25% sui passeggeri normali, simile a quella riscontrata per tutti gli anni ’80 sui bus di linea e turistici e sui voli dela Turkish Airlines. Attualmente la più grande compagnia pubblico-privata di viaggi e turismo, la Turban di proprietà dell’ex premier Tansu Ciller, è sotto inchiesta per traffico di droghe e clandestini, oltre che per distrazione di fondi per finanziare la guerra “informale” contro i curdi.

Il Nordafrica è un’altra cosa

Ben diverso è il traffico dal Nordafrica. E’ purtrtoppo invalso l’uso di catalogare tutti i traffici di calndestini sotto le voci “mafia, negrieri, tratta”. Come se tutti i reati contro la proprietà, dallo scippo in su, fossero assimilati alla rapina a mano armata. In realtà gli scafisti dalla Tunisia  sono in genere pescatori o marinai che arratondano il loro reddito arischiandosi più o meno  saltuariamente nella traversata del braccio di mare verso Pantelleria o la Sicilia. Con la Tunisia il sottosegretario Serri firmo’ nel ’96 un accordo in tema di imigrazione, che pero’ pare sia servito solo ad agevolare le espulsioni e non ad aprire accessi legali. Finchè dura il proibizionismo, saranno  “clandestini” tutti: dalla moglie del tunisino che non vuole attendere le pastoie del ricongiungimento in Italia, allo studente o all’impiegato che vuole lavorare d’estate in Sicilia o in Campania, al malato incurabile nel suo paese (il caso atroce di Mohames Boughanmi, annegato con altri il 2 agosto ’97 a Pantelleria mentre cieco, cercava di raggiungere l’Italia per operarsi), al giovane in fuga da un regime oppressivo, fino al “normale” migrante per un lavoro stabile.

Mentre l’emigrazione egiziana e i porti coma Alessandria d’Egitto sono ormai inseriti stabilmente nella rete della grande mafia turco-greca, l’immigrazione maghrebina – intrecciata in parte con quella proveniente dall’Africa Nera- è ondivaga, diversificata, sostanzialmente “autogestita” anche se clandestina. Prima o poi, se dura e se si accentua la chiusura e la militarizzazione degli accessi, le difficoltà incrementeranno i prezzi e renderanno indispensabile una logistica “aziendale” e una pianificazione degli sbarchi slegata dai cicli stagionali. Cioè l’intervento della mafia. Dice un proverbio arabo: il ricco che sbarra la sua porta, vede ovunque nemici e riempie il giardino di scherani, non si stupisca se chi veniva da amico ritornerà da aggressore. Smarrire ogni distinzione, gridare all’invasiona, alla tratta alla mafia anche quando non c’è, alzare il livello dello scontro invece delllincontro con i processi migratori, serve esattamente a favorire i controllo mafioso sulle migrazioni.

Pubblicato su Narcomafie nel settembre del 1997

 

Naufragio di Natale ’96: la memoria non si cancella

Avete provato a mettervi dalla parte di chi cerca di arrivare clandestinamente via mare nella fortezza Europa? Dino Frisullo l’ha fatto. Il dossier che ricostruisce la tragedia del naufragio avvenuto nel canale di Sicilia il 26 dicembre 1996, da lui scritto e costato mesi di indagini “parallele”, pubblicato sul numero 9/’97 di Narcomafie, dà voce a chi ha rischiato la vita e parla, fa i nomi di trafficanti turchi, greci, maltesi, asiatici, e delle coperture che godono da parte di autorità portuali greche, turche, italiane, chiedendo di portarli in giudizio e restituire un po’ di giustizia alle vittime. Possiamo vedere quasi quelle persone, quei ragazzi, chiusi nella stiva della F 174; sui loro volti ansia, paura. Il legno maltese, che sta portando il suo sovrabbondante carico umano verso l’Europa, verso una vita migliore, verso la salvezza, si è fermato, imbarca acqua da ore. Ad un certo punto, nel buio, si sente un terribile tonfo, tutto si sposta all’interno della stiva; il buio rende l’ansia ancora più forte, ciascuno tende l’orecchio per sentire qualche parola nella sua lingua, punjabi, tamil, urdu. Un vorticoso tuffo alla bocca dello stomaco: il battello è stata speronato, sta colando a picco, e così velocemente da non lasciare neanche il tempo di chiedere perdono ciascuno al proprio Dio…

D’improvviso realizziamo cosa deve aver spinto Dino a occuparsi così tenacemente di questa vicenda. Sì, perché si potrebbe dire: ma ormai sono passati tanti anni, succedono tante cose, tanti altri naufragi continuano a ripetersi; perché ostinarsi a voler parlare di una tragedia certo grave, ma ormai lontana, a chi potrebbe interessare? La memoria, ed in particolare la memoria delle vittime, di quelle 283 vittime tamil, indiane, pakistane, è preziosa e non può essere strumentalizzata, né da destra né da sinistra: ma di questo naufragio si è a lungo negata perfino l’esistenza. Dino aveva scelto di guardare questa vicenda con i loro occhi, con gli occhi di chi subisce la creazione dell’Europa-fortezza, che si chiude ai profughi ed ai migranti, proprio mentre oggi con la logica della guerra permanente ne alimenta i flussi. E questa negazione non poteva che far crescere la sua ostinazione, che lo ha portato a cercare ed annotare con precisione preziose informazioni sui trafficanti di esseri umani e sulle coperture istituzionali che li proteggono anche in Turchia, durante i viaggi ad Istanbul e in Kurdistan come osservatore della guerra sporca del governo turco contro il popolo kurdo (e che nel ’98 gli costarono il carcere e un processo per “incitazione all’odio razziale”!), ci lascia una pesante eredità. Insieme ai parenti delle vittime, e alle associazioni siciliane, la battaglia oggi non può che essere quella per il recupero del relitto e delle salme dei naufraghi, ma anche perché la Sicilia e l’Italia siano più accoglienti verso chi vi approda. Al posto di nuove inutili colate di cemento, pericolose basi NATO e centri di detenzione per chi ha commesso l’unico crimine di non aver aspettato un impossibile ingresso regolare in Italia, la memoria di quella tragedia doveva essere nelle sue intenzioni un monito per cambiare rotta e superare le politiche di chiusura, già sperimentate con la legge sull’immigrazione del centrosinistra e la creazione dei CPT, e perfezionate con la legge sull’immigrazione del centrodestra, condita da inviti a “cannoneggiare le navi dei clandestini”. La coltre di ipocrisia che una parte del centrodestra si prepara a stendere attraverso la presentazione di una proposta di legge “specchietto per le allodole” sul diritto di voto ai cittadini stranieri, non può essere stesa sulla realtà di una crescente precarizzazione dei permessi dei soggiorno.

Il processo che dovrebbe accertare le responsabilità del naufragio, attualmente in corso a Siracusa, è ormai alla deriva…e non solo in senso figurato! Il naufragio è avvenuto in acque internazionali, non c’è da accertare – come nel caso della Kater I Rades carica di albanesi, speronata e affondata dalla corvetta militare italiana Sibilla durante una manovra di harassment,– una responsabilità diretta delle istituzioni italiane: l’ignavia e l’ipocrisia istituzionale dovrebbero avere un loro spazio in un ipotetico codice penale popolare. Dopo che già nelle scorse udienze la Francia aveva negato l’estradizione del capitano della Yohan, il libanese Youssuf El Hallal, la sua posizione è stata definitivamente derubricata dal dibattimento, e ora El Hallal non è più neanche ricercato. Rimane un unico altro imputato, il “Mister Tony” conosciuto anche dalle parti di piazza Vittorio a Roma: pakistano, basista e armatore della Yohan oggi residente a Malta, è a piede libero. Ai parenti delle vittime e all’associazione Senzaconfine non resta che costituirsi parte civile in un dibattimento che non ha alcuna speranza di fare giustizia: il relitto non è neanche sotto sequestro, come se esso – spezzato in tre tronconi a causa dello speronamento da parte della Yohan – non fosse stato giudicato dalla Procura una prova a sostegno della tesi dell’accusa, e cioè omicidio volontario.

Non erano tutti chiusi nella stiva della F 174 i migranti a bordo: alcuni erano sul ponte di questa carretta del mare, sovraccarica fino all’inverosimile. Ventinove di loro, aggrappandosi alle tre corde gettate in loro soccorso da altri passeggeri della nave assassina, la Yohan, insieme ai quali avevano fatto un pezzo di viaggio, riuscirono a sfuggire all’orrore. Ventinove scampati al gorgo che aveva inghiottito i loro compagni di sventura, oltre ai “traghettatori”. Furono essi ad avvertire della tragedia, una volta che la Yohan comandata da El Hallal, allontanatasi dal luogo dello speronamento senza dare l’allarme, li sbarcò su un’isola della costa greca, cercando di assicurarsene il silenzio. Una volta lasciati andare, furono fermati dalle autorità greche, come clandestini: interrogati dagli inquirenti, in luoghi diversi ed in lingue diverse, diedero versioni straordinariamente coincidenti dell’avvenuto naufragio. Fu così che venne allertato il centro di coordinamento del soccorso di Malta, il quale trasmise già dal 29 dicembre ’96 la segnalazione di una probabile collisione alle autorità italiane, che fecero qualche modesto tentativo di ricerca impegnando due motovedette e un elicottero, nel tratto di mare sbagliato. Un paio di mesi dopo cominciarono ad essere avvistati in mare corpi compatibili con l’avvenuto naufragio, tenendo conto del tempo trascorso e delle correnti che battono il canale di Sicilia. La notizia rimbalzò tra gli amici e i parenti dei “clandestini”, nei paesi di origine – India, Sri Lanka, Pakistan – e nei Paesi in cui erano attesi. Tra questi c’era l’Italia. Di fronte all’enormità dell’accaduto, l’omertà delle vittime del traffico – che consente ai trafficanti di agire indisturbati, speculando sulle leggi di chiusura – si ruppe: alcuni familiari delle vittime pakistane in particolare si recarono in Grecia e in Turchia, e ricostruirono a partire da lì, facendo un viaggio a ritroso, la catena dei trafficanti; ma anche i tamil e gli indiani si mobilitarono. Nel febbraio del ’97 un giornalista inglese dell’Observer, che si era occupato della vicenda, scoprì per caso che una nave sequestrata a Reggio Calabria per traffico di clandestini era proprio la Yohan, la nave che aveva speronato il battello maltese: uno dei sopravvissuti pakistani, Shakur, identificò con certezza la nave, che recava tracce dello speronamento. Venne consegnato il dossier contenente il frutto delle indagini svolte e i nomi di svariate decine di persone coinvolte nel traffico di migranti asiatici e kurdi tra la Turchia, Malta, la Grecia e l’Italia, alla procura di Reggio Calabria, prima titolare dell’inchiesta, trasferita poi a Siracusa. Il Governo dell’epoca, pur se informato (ci fu un’interrogazione della senatrice Tana De Zulueta, c’era il dossier consegnato da Senzaconfine e dall’Associazione lavoratori pakistani in Italia oltre che alla Procura e al capo della Polizia Masone anche al sottosegretario Toia), non credette al naufragio, di cui continuò ad occuparsi soltanto “Il Manifesto”, accontentandosi della versione delle autorità portuali che lo classificarono come “presunto”.

Poi, nel giugno 2001, la “svolta”: Repubblica, dopo aver taciuto per quattro anni, affitta un robot con telecamera di profondità e filma i resti del relitto, a 19 miglia dalla costa di Portopalo di Capopassero, in acque internazionali, a circa 100 metri di profondità. Orrore e meraviglia dei rappresentanti del centrosinistra di fronte al naufragio fantasma, di cui però all’epoca erano stati informati; un appello di quattro premi Nobel italiani viene lanciato per il recupero del relitto; vengono presentati anche due disegni di legge in tal senso, uno dei quali con la senatrice De Zulueta come prima firmataria. Ma non succede niente. Nel frattempo, in Pakistan, in India, nello Sri Lanka, negli altri Paesi della diaspora, i familiari aspettano ancora: le vedove non sono vedove, e gli orfani non sono orfani, come ama ricordarci il nostro amico Shabir Khan, presidente dell’Associazione lavoratori pakistani in Italia.

Ma se a sinistra si è voluto rimuovere l’imbarazzante vicenda, a destra c’è chi la sfrutta come arma contro Prodi (sic!), forse in vista delle elezioni europee o magari nelle prossime politiche italiane: ponendo in secondo piano i 283 morti, la questione si sposta sul vilipendio all’onore dei pescatori siciliani, accusati dal quotidiano “Repubblica” di omertà, mentre le colpe sarebbero da imputare esclusivamente al Governo di centrosinistra.

E arriviamo così a parlare di un senatore di Alleanza Nazionale, Francesco Bevilacqua, che ha presentato nel gennaio 2003 un nuovo progetto di legge, non per recuperare il relitto e i resti delle salme di coloro che erano chiusi nella stiva, ma per far piovere su Portopalo una pioggia di soldi pubblici, per la precisione 2.580.000 euro, pari a quasi 5 miliardi di vecchie lire, per costruire un monumento interreligioso a memoria di tutti i naufraghi e i caduti in mare, e per l’istituzione di un premio internazionale “in memoria delle vittime del sommergibile “Sebastiano Veniero”, inabissatosi nelle coste antistanti Capo Passero negli anni ’20 con un equipaggio composto da italiani, i cui resti si trovano all’interno del relitto in fondo al mare”. E ci mancherebbe altro, spendere soldi italiani per tirar fuori dal mare corpi di clandestini? Che rimangano in fondo al canale di Sicilia, non a caso definito canale di Malta nel testo del disegno di legge, a voler marcare una distanza, “considerato che nel naufragio non risultano, a nessun livello, coinvolgimenti né di autorità, né di singoli cittadini italiani”. Razzismo e ipocrisia si mischiano alle pelose motivazioni che ispirano l’attività legislativa dei promotori di questo disegno di legge, e cioè combattere contro la “utilizzazione demagogica della tragedia operata a danno della comunità marinara di Portopalo di Capo Passero e delle autorità italiane falsamente accusate di omertosa complicità e di inazione e rappresentate negativamente in prestigiose manifestazioni culturali (…)”. Se Dino criticava con amarezza il centrosinistra dell’epoca per la sua mancanza di coraggio e per essersi allineato sulle posizioni europee di chiusura delle frontiere, non era certo per lodare chi – come i compagni di governo del senatore Bevilacqua – quelle frontiere le blinda ancora di più, facendo entrare solo chi si piega ai diktat del mercato e costringendo la maggioranza ai viaggi clandestini: la Bossi-Fini e la legge 30 come due facce di una stessa medaglia, peraltro con non poche contraddizioni, come dimostrato dall’impossibilità di rinnovare il permesso di soggiorno rilasciato con la sanatoria del centro-destra se si è in possesso di un contratto di collaborazione e non si è dipendenti.

E così, come Dino aveva previsto, quei poveri corpi rivestiti di “effimera carta” dallo scoop giornalistico stanno per essere definitivamente dimenticati. Oppure? Oppure la società civile, che in Italia e specialmente in Sicilia lotta contro la militarizzazione del territorio, per la smilitarizzazione e la riconversione per uso civile della base di Sigonella, per l’abolizione dei centri di permanenza temporanea, e che ha animato recentemente la carovana della pace culminata nella grande manifestazione del 20 marzo a Roma per il ritiro delle truppe dall’Iraq, saprà raccogliere la sfida che i parenti delle vittime ci chiedono da ormai più di sette anni? Sapremo noi, società civile, recuperare il relitto e restituire qualcosa su cui i familiari possano piangere? Sapremo fronteggiare chi ha interesse a dare un colpo di spugna su questa vicenda, salvo magari a utilizzarla strumentalmente in chissà quale futuribile contesto politico tra un’ottantina d’anni, come sta succedendo ai poveri marinai del “Veniero”? Soprattutto, sapremo dare il nostro piccolo contributo affinché le stragi del proibizionismo cessino oggi di verificarsi?

5/6/’04 – Alessia Montuori (Senzaconfine) – Alfonso Di Stefano (Attac-Catania)

Siti Internet consultati:  www.ilmanifesto.itwww.senato.it

pubblicato su Guerre&Pace n.111 per il 1° anniversario della scomparsa di Dino Frisullo

…per proiettare insieme la memoria al futuro…

 

http://www.argocatania.org/2014/08/29/ancora-sui-fantasmi-di-porto-palo-e-sul-naufragio-negato/

Un primo barlume di giustizia nel processo per il naufragio del Natale ‘96

Condannato a 30 anni  il capitano della Yohan  El Hallal

Si è da poco conclusa l’ultima udienza  a Catania dopo le arringhe degli avvocati dei familiari delle vittime Simonetta Crisci e Matilde Di Giovanni e dell’imputato  avv. Comi; il presidente della Corte Virardi ha letto la sentenza di condanna in base agli art. 25, 604 e 627 del CPP per omicidio plurimo volontario, a 30 anni di reclusione ed al pagamento di una provvisionale di 20.000 euro per le famiglie di ogni vittima.

Si arriva così ad un primo segnale di svolta del lungo calvario per i familiari delle vittime e per i superstiti, che da 12 anni attendono Verità e Giustizia mentre invece hanno ricevuto una vergognosa sentenza d’assoluzione a Siracusa per l’altro imputato Thourab, per il quale è in corso un altro processo d’appello a Catania.

Negli interventi di parte civile stamattina è stata sottolineata la pesante responsabilità in quella tragica notte del libanese El Hallal, che urtò per due volte il battello F174, dove aveva fatto scendere i 300 giovani sfortunati e poi l’aveva lasciato affondare. L’imputato El Hallal era esperto di navigazione, conosceva la proibitive condizioni  climatiche di quella notte, l’unico suo interesse a tornare in soccorso della F174 era quello di salvare il conducente greco Zebourdakis, che era un’esponente dell’organizzazione internazionale di trafficanti di esseri umani e quindi , per evitare di essere sorpreso dalla capitaneria italiana, fuggiva incurante del destino di morte dei naufraghi . L’avv. Crisci ha inoltre sottolineato le gravi manchevolezze  nell’investigare sulla rete di complicità della “holding degli schiavisti” ( come la definiva  Dino Frisullo), dato che , il padre della vittima  Shabib (in attesa di permesso di soggiorno, ma costretto a tornare in Pakistan per l’aggravarsi della madre), Zabiullah aveva già ricostruito la rete di “agenzie di viaggio” a Karachi, Colombo, Alessandria d’Egitto…Dopo 10 anni l’Interpol  ancora brancola nel buio. Sarebbe stata inoltre necessaria un’indagine anche sulle numerose omissioni di soccorso e d’atti d’ufficio di casa nostra, dato che in troppi si sono ostinati a considerare per anni  il naufragio “presunto”.

In questi anni il numero delle vittime è salito vertiginosamente ed i trafficanti di esseri umani continuano ad ingrassarsi approfittando di leggi proibizioniste che impediscono ingressi regolari: Si preferisce dilapidare denaro pubblico per militarizzare le nostre coste e si firmano accordi di riammissione con governi  del bacino nordafricano sempre più corrotti e liberticidi, addirittura si esternalizzano le galere etniche in quei paesi per salvarsi la coscienza e non disturbare le stagioni turistiche.

La sentenza di oggi è un primo passo per iniziare ad ottenere giustizia  non solo per l’imputato El Hallal, che dovrà finalmente iniziare a pagare per le sue responsabilità, ma  all’interno di un progressivo accertamento dell’insieme delle responsabilità della rete internazionale dei trafficanti e dei loro complici, anche in Italia, dato che le tragedie per entrare nella fortezza Europa si moltiplicano, grazie alla vergognosa latitanza bipartisan delle forze politiche, che , invece d’ investire in nuove politiche d’accoglienza preferiscono vergognose politiche securitarie , riducendosi così a fare la guerra ai poveri, anzicchè alla povertà.

Ct 9/4/’08                                                                   Rete Antirazzista Catanese, Senza Confine

 

 

Processo per il naufragio del Natale ’96: condannato a 30 anni anche Thourab

 Si è da poco conclusa l’ultima udienza  a Catania , dopo le arringhe degli avvocati  e del PM Toscano, del processo d’appello contro l’armatore pakistano-maltese Thourab, in quanto “organizzatore della spedizione” con il battello F174 ( che giace in fondo al mare a 19 miglia da Portopalo) , con una condanna per omicidio volontario plurimo  in base agli articoli 110, 112 e 575 del CP ed a un risarcimento per  le famiglie di  ciascuna vittima con una provvisionale di 20.000 euro. Questa sentenza fa seguito alla vergognosa assoluzione in primo grado nel processo a Siracusa.

Si arriva così ad un secondo segnale di svolta, dopo oltre 12 anni,  del lungo calvario per i familiari delle vittime e per i superstiti, in seguito alla giusta condanna del 9/4/’08 ,  pure a 30 anni, dell’altro imputato El Hallal.

Sia il PM Toscano che gli avvocati dei familiari delle vittime hanno espresso piena soddisfazione per la sentenza. Pensiamo però che non si possano  attenuare le gravi manchevolezze  nell’investigare sulla rete di complicità della “holding degli schiavisti” ( come la definiva  Dino Frisullo); dato che , il padre della vittima  Shabib (in attesa di permesso di soggiorno, ma costretto a tornare in Pakistan per l’aggravarsi della madre), Zabiullah , aveva già ricostruito la rete di “agenzie di viaggio” a Karachi, Colombo, Alessandria d’Egitto… Ciononostante  l’Interpol  ancora brancola nel buio. Sarebbe stata inoltre necessaria un’indagine anche sulle numerose omissioni di soccorso e di atti d’ufficio di casa nostra, dato che in troppi si sono ostinati a considerare per anni  il naufragio “presunto”.

In questi anni il numero delle vittime è salito vertiginosamente ed i trafficanti di esseri umani continuano ad ingrassarsi approfittando di leggi proibizioniste che impediscono ingressi regolari: Si preferisce  dilapidare denaro pubblico per militarizzare le nostre coste e costruire nuovi lager, inoltre,   si   firmano accordi di riammissione con governi  del bacino nordafricano sempre più corrotti e liberticidi; addirittura si esternalizzano le galere etniche in  paesi come la Libia e si trasforma Lampedusa in una nuova Guantanamo.

La sentenza di oggi è un secondo  passo per  ottenere Verità e Giustizia  non solo per gli imputati Thourab ed El  Hallal, che dovranno finalmente iniziare a pagare per i loro crimini (nonostante siano contumaci), ma  all’interno di un progressivo accertamento dell’insieme delle responsabilità della rete internazionale dei trafficanti e dei loro complici, anche in Italia; dato che le tragedie per entrare nella fortezza Europa si moltiplicano, grazie alla vergognosa latitanza bipartisan delle forze politiche, che , invece d’ investire in nuove politiche d’accoglienza preferiscono vergognose politiche securitarie , riducendosi così a fare la guerra ai poveri, anzichè alla povertà.

Ct 11/3/’09

                                                                             Rete Antirazzista Catanese, Senza Confine

                                                                                 Unione Lavoratori Pakistani in Italia

da ADIF