Ancora ricoveri, ricatti e repressione
L’Italia è l’unico paese al mondo dove dal 1978 con la legge 180 i Manicomi sono stati aboliti. Ma la riforma del sistema psichiatrico si è rivelata più verbale che materiale: ai cambiamenti formali non sono seguite differenze sostanziali delle condizioni di vita dei soggetti internati. Quello che è certo è che la rivoluzione psichiatrica all’italiana ha riguardato solo i luoghi della psichiatria, ma non i trattamenti e le logiche sottostanti. La legge 180 non ha impedito alla psichiatria di riorganizzarsi intorno al paradigma biologico e a ridurre le pratiche alternative ad un ruolo di secondo piano rispetto alle terapie farmacologiche.
L’uso massiccio di sostanze e un corredo di narrazioni consolatorie hanno permesso alla psichiatria di mitigare l’impatto sociale del crollo del modello segregazionista e ripresentarsi quale garante credibile del controllo, confinando lo scandalo dei manicomi dentro una storia passata. Ma ad oggi dei 320 reparti psichiatrici, gli SPDC (Servizio Psichiatrico Diagnosi e Cura e solo in una ventina di essi non si usa la contenzione meccanica) e nelle oltre 3200 strutture psichiatriche residenziali e centri diurni sul territorio in molti casi si sono conservati i dispositivi e gli strumenti propri dei manicomi, quali il controllo del tempo, dei soldi, l’obbligo delle cure, il ricorso alla contenzione.
La legge Basaglia mantiene dunque inalterato il principio di manicomialità, in base al quale chiunque può essere arbitrariamente etichettato come “malato mentale” e quindi rinchiuso. Lo stesso Franco Basaglia, che è scomparso nel 1980 solo due anni dopo l’entrata in vigore della legge 180, mise spesso in guardia rispetto a facili entusiasmi dovuti alla chiusura dei manicomi, considerando tale traguardo, non sufficiente ad alterare quei meccanismi di delega sociale conferita alla psichiatria come il controllo e il contenimento dei comportamenti giudicati disturbanti: ”E’ una legge transitoria, fatta per evitare il referendum e perciò non immune da compromessi politici.
Attenzione quindi alle facili euforie. Non si deve credere di aver trovato la panacea a tutti i problemi del malato di mente con il suo inserimento negli ospedali tradizionali. La nuova legge cerca di omologare la psichiatria alla medicina, cioè il comportamento umano al corpo, è come se volessimo omologare i cani alle banane”.
Se l’articolo 32 della Costituzione garantisce il diritto alla libera scelta del luogo di cura e quindi la volontarietà degli accertamenti sanitari, con la legge 180 e la successiva 833/78 non si sono chiusi gli OPG (Ospedali psichiatrici Giudiziari) oggi trasformati in REMS (Residenze Esecuzione Misure di Sicurezza) e non si è vietato pratiche disumane come la contenzione meccanica e l’elettroshock.
Invece si stabiliscono dei casi in cui il ricovero può essere effettuato indipendentemente dalla volontà dell’individuo: è il caso del TSO (trattamento sanitario obbligatorio) e dell’ ASO (accertamento sanitario obbligatorio).
La legge stabilisce che il TSO può essere eseguito solo se sussistono tre condizioni: l’individuo presenta alterazioni psichiche tali da richiedere urgenti interventi terapeutici; l’individuo rifiuta la terapia psichiatrica; l’individuo non può essere assistito in altro modo rispetto al ricovero ospedaliero.
Subito ci troviamo di fronte ad un problema: chi stabilisce lo “stato di necessità” della cura psichiatrica, l’urgenza dell’intervento terapeutico? E, in che modo si dimostra che il ricovero ospedaliero è l’unica soluzione possibile? Risulta evidente che le condizioni di attuazione di un TSO rimandano di fatto al giudizio arbitrario di uno psichiatra, giudizio cui generalmente il sindaco, che dovrebbe insieme al giudice tutelare agire da garante del paziente, di norma non si oppone.
Il rifiuto delle cure è praticamente l’unica delle condizioni a poter essere invalidata, ma è frequente che il ricovero prosegua anche se il paziente non rifiuta le cure.
Il ricovero, durante il quale si sottosta ad un regime terapeutico imposto, ha una durata di 7 giorni e può essere effettuato solo all’interno di reparti psichiatrici di un ospedale pubblico; deve essere disposto con provvedimento dal sindaco del comune di residenza su proposta motivata da un medico e convalidata da un medico psichiatra operante nella struttura sanitaria pubblica. Dopo aver firmato la richiesta di TSO, il sindaco deve inviare il provvedimento e le certificazioni mediche al giudice tutelare operante sul territorio il
quale lo deve notificare e, entro 48 ore, convalidare o meno. Lo stesso procedimento deve essere seguito nel caso in cui il TSO venga rinnovato oltre i 7 giorni.
Se in teoria la legge prevede il ricovero coatto solo in casi limitati e dietro il rispetto rigoroso di alcune condizioni, la realtà testimoniata da chi la psichiatria la subisce è ben diversa. Con grande facilità le procedure giuridiche e mediche necessarie per effettuare il TSO vengono aggirate, nella maggior parte dei casi i ricoveri coatti vengono eseguiti senza rispettare le norme che li regolano e spesso seguono il loro corso semplicemente per il fatto che quasi nessuno è a conoscenza delle normative e dei diritti di cui gode il ricoverato. Molto spesso prima arriva l’ambulanza per portare le persone in reparto psichiatrico (SPDC) e poi viene fatto partire il provvedimento.
Diffusa è la pratica di mascherare tramite pressioni e ricatti, i TSO con ricoveri volontari. Spesso il paziente viene trattenuto dopo lo scadere del TSO in regime di TSV (trattamento sanitario volontario) senza essere messo a conoscenza del fatto che può lasciare il reparto, oppure, persone che si recano in reparto in regime di TSV vengono poi trattenute in TSO al momento in cui richiedono di andarsene. L’ASO funziona come trampolino di lancio per portare la persona in reparto, dove verrà poi trattenuta in regime di TSV o TSO a seconda della propria accondiscendenza agli psichiatri.
Tutto questo è frutto non solo delle potere medico-psichiatra, ma anche delle pressioni e intimidazioni più o meno dirette che le persone subiscono in ambito familiare e sociale.
Per i pazienti ricoverati in TSO e considerati “agitati” si ricorre ancora al”isolamento e alla contenzione fisica, mentre i cocktails di farmaci somministrati mirano ad annullare la coscienza di sé della persona, a renderla docile ai ritmi e alle regole ospedaliere. Molto spesso il depot (la puntura intramuscolo bisettimanale o mensile) è un metodo invasivo vissuto come un’intrusione forzata che comporta indesiderabili effetti collaterali, tra i quali grave rallentamento delle capacità cognitive e confusione mentale, che non si devono strumentalmente considerare sintomi patologici ma esclusivamente effetti della terapia psichiatrica somministrata per depot. Inoltre la “comodità” per il CIM (Centro Igiene Mentale) dell’iniezione mensile, rispetto alla terapia per somministrazione orale, non giustifica l’esposizione del paziente a effetti indesiderati tanto violenti, fisicamente rischiosi e psicologicamente devastanti. Il grado di spersonalizzazione ed alienazione che si può raggiungere durante una settimana di TSO ha pochi eguali, anche per il bombardamento chimico a cui si è sottoposti.
Ecco come l’obbligo di cura oggi non significhi più necessariamente la reclusione in una struttura, ma si trasformi nell’impossibilità di modificare o sospendere il trattamento psichiatrico sotto costante minaccia di ricorso al ricovero coatto sfruttato come strumento di ricatto e repressione.
Collettivo Antipsichiatrico Antonin Artaud
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