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41bis ed ergastolo ostativo come dispositivi di ricatto

L’uso degli strumenti penitenziari nella logica della guerra interna e le violazioni dei più fondamentali diritti del detenuto

di da Penale, diritto e procedura

La legislazione italiana di contrasto alla criminalità organizzata e al terrorismo reca con sé i caratteri tipici della “logica di guerra”, il cui obiettivo principale è la neutralizzazione del “nemico”. L’ergastolo c.d. “ostativo” e l’art. 41-bis ord. penit. sono le massime espressioni di tale legislazione e, alla neutralizzazione del detenuto, aggiungono un altro inconfessabile obiettivo: costringerlo alla collaborazione con la giustizia. Il ricatto intrinseco di tale logica assume i connotati della tortura, in violazione della Costituzione e delle convenzioni internazionali.

Quanti, poi, con animo perverso, avessero persistito nel proprio dannato proposito, era nostro intento punirli in modo tale che la loro pena diventasse un esempio per gli altri[1].
Qui la mattina che ti svegli, la prima cosa che pensi è di dover fare qualcosa, la seconda è che non puoi fare niente[2].

1. Il ricatto – Si può definire ricatto una attività di estorsione di qualcosa o di un comportamento per il tramite della coartazione della volontà altrui. Il fine può essere conseguito col ricorso alla violenza o alla minaccia, che assumono una funzione strumentale al perseguimento dello scopo[3].

1.1. Il ricatto come tortura – Storicamente il concetto di tortura è stato differenziato in tre sottocategorie, determinate dalla finalità con cui le condotte venivano praticate: i) la c.d. tortura giudiziaria, finalizzata ad ottenere informazioni o confessioni; ii) la c.d. tortura punitiva, come forma di punizione fisica; iii) la c.d. tortura pedagogico-discriminatoria, finalizzata a negare l’identità della vittima[4].

Difatti, la Convenzione contro la tortura ed altre pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti adottata dall’Assemblea generale dell’ONU il 10.12.1984, entrata in vigore il 26.6.1987 e ratificata dall’Italia con l. 3 novembre 1988, n. 498, nel definire la tortura all’art.1, prevede le tre ipotesi appena richiamate: «il termine “tortura” indica qualsiasi atto mediante il quale sono intenzionalmente inflitti ad una persona dolore o sofferenze forti, fisiche o mentali, al fine segnatamente di ottenere da essa o da una terza persona informazioni o confessioni, di punirla per un atto che essa o una terza persona ha commesso o è sospettata aver commesso, di intimorirla o di far pressione su di lei o di intimorire o di far pressione su una terza persona, o per qualsiasi altro motivo fondato su qualsiasi forma di discriminazione, qualora tale dolore o sofferenze siano inflitte da un agente della funzione pubblica o da ogni altra persona che agisca a titolo ufficiale, o su sua istigazione, o con il suo consenso espresso o tacito. Tale termine non si estende al dolore o alle sofferenze risultanti unicamente da sanzioni legittime, inerenti a tali sanzioni o da esse cagionate».

Uno dei pregi della definizione appena riportata è l’aver evidenziato come la tortura sia strettamente connessa col potere.

In un approfondito studio sulla tortura, si è sostenuto che il fine ultimo del torturatore sia la distruzione dell’identità della vittima. Da questo punto di vista, dunque, le sofferenze fisiche e psichiche sono i mezzi (le modalità di lesione) con i quali si persegue la distruzione di tale identità; essa consiste in una vera e propria devastazione interiore. La tortura, attraverso l’umiliazione dell’altro, provoca una crisi relazionale intersoggettiva, portando al silenzio e all’annichilimento interiore[5].

In un altro, raffinato studio sulla tortura, essa viene definita come «la situazione-limite in cui la dignità umana viene radicalmente lesa. Quando il torturatore tocca la sua vittima, ne cancella l’alterità. Viene meno ogni spazio tra i due. Il carnefice violenta il corpo, si impadronisce del sé, occupa il mondo della vittima. E la fa sprofondare nella notte dell’abiezione. Mentre la dignità precipita, non più recuperabile, si apre la vertigine dell’inumano»[6].

La gravità della tortura è tale che la Convenzione dell’ONU in materia, all’art. 2, co. 2, stabilisce: «Nessuna circostanza eccezionale, quale che essa sia, che si tratti di stato di guerra o di minaccia di guerra, di instabilità politica interna o di qualsiasi altro stato di eccezione, può essere invocata per giustificare la tortura».

Al fine di evitare il rischio che si ricorra all’idea di “graduazione” dell’intensità della tortura per giustificarne le manifestazioni considerate più “blande”, assieme ad essa sono vietati anche  i trattamenti crudeli, inumani o degradanti[7].

In dottrina è stato proposto un criterio distintivo tra la tortura e i trattamenti crudeli, inumani o degradanti: «La tortura […] presuppone una situazione di assenza di potere della vittima, che solitamente vuol dire privazione della libertà personale o una situazione simile di potere di fatto e di controllo diretti di una persona su un’altra. […] Il decisivo criterio distintivo tra la tortura e i comportamenti crudeli, inumani o degradanti non consiste, come sostenuto dalla Corte Europea dei Diritti dell’Uomo e da vari studiosi, nell’intensità del dolore o della sofferenza inflitti, ma nello scopo della condotta e nell’assenza di potere della vittima. […] In una situazione di detenzione o di controllo diretto di fatto similare… la proibizione della tortura e dei trattamenti crudeli, inumani o degradanti è assoluta. Qualsiasi uso di forza fisica o psichica contro un detenuto allo scopo di umiliarlo costituisce una punizione o un trattamento degradanti. Ogni inflizione di dolore o sofferenza acute finalizzate ad uno degli scopi indicati dall’art. 1 della Convenzione ONU contro la tortura, è qualificabile come tortura»[8].

L’equiparazione, in punto di divieto, è statuita anche dalla Convenzione europea dei Diritti dell’Uomo (CEDU), all’art. 3: «Nessuno può essere sottoposto a tortura né a pene o trattamenti inumani o degradanti».

La tortura può assumere sia declinazioni fisiche che psicologiche, anzi nelle democrazie è proprio questa seconda forma che conquista col tempo maggior campo, venendo marginalizzata la violenza più esplicita, per motivi di consenso e legittimazione politico-sociali[9].

La tortura psicologica (c.d. bianca) è senza contatto, fondandosi per lo più sulla deprivazione sensoriale[10]. Essa raggiunge il massimo della efficacia e della insidiosità quando si spersonalizza in norme, procedure, regolamenti e circolari amministrative. I primi studi scientifici sulla tortura psicologica risalgono addirittura agli anni ’50 del secolo scorso e si sono affinati molto nel corso dei decenni, al servizio del potere costituito. Uno dei padri fondatori di tali studi, Albert Biderman, già nel 1959 aveva potuto verificare come per spezzare la volontà di una persona fosse sufficiente privarlo di ogni contatto umano, disorientarlo, alterarne i ritmi biologici e sottoporlo a forti stress[11]. Il tutto senza alcun contatto violento col corpo della vittima[12]. Obiettivo è la regressione dell’essere umano, così da eliminare le sue capacità di resistenza, con la conseguente perdita di autonomia. Ridurre la vittima in balia del torturatore, obiettivo perseguito con la violenza fisica nella tortura classica, in questo caso è ottenuto con la ‘violenza bianca’, per certi versi ancora più invasiva e devastante della prima: «La tortura psicologica… distrugge la persona, non solo una parte del suo corpo, perché mira direttamente al cuore dell’identità personale della vittima»[13].

Attraverso queste pratiche, ben descritte nel manuale della CIA sulle tecniche di interrogatorio “Kubark”, si persegue l’obiettivo di convincere la vittima che è causa delle proprie sofferenze: vittima, dunque, di sé stessa, l’unica persona che può porre fine alla tortura[14]. La logica di colpevolizzazione del soggetto passivo, in fondo, è la stessa utilizzata per legittimare l’ergastolo ostativo e l’art. 41-bis ord.penit.: è colpa del detenuto se si ritrova sottoposto a quei regimi, perché “liberamente” decide di non collaborare (discorso in passato avallato anche dalla Corte costituzionale[15]).

Sulla scorta delle pressioni e degli impegni internazionali, dopo una lunghissima gestazione, anche in Italia, nel 2017, è stato introdotto il delitto di tortura, pur con evidenti limiti[16].

1.2. Il ricatto come tortura giudiziaria – Dalla sintetica e schematica esposizione appena abbozzata, è possibile ricavare un dato ineludibile: il ricatto, inserito in una pratica di inflizione di forti sofferenze fisiche e/o psichiche, è elemento costitutivo della tortura c.d. giudiziaria[17].

Detta tipologia di tortura, negli ultimi vent’anni, è stata oggetto di un ampio dibattito che ha visto coinvolte varie discipline (dalle scienze politiche alla filosofia, dalla sociologia alla medicina) circa l’ipotesi di legittimarla in casi estremi di conflitti interni o internazionali. Il casus belli è rappresentato dagli attacchi alle Torri Gemelle e dalle conseguenti “guerre al terrorismo” (che hanno prodotto, tra innumerevoli orrori e distruzioni, per quanto ci riguarda più da vicino in questa sede, Abu Ghraib e Guantanamo).

La proclamazione dell’emergenza e la retorica del ticking bomb scenario[18] hanno legittimato il ricorso al diritto penale del nemico (un nemico illegittimo, definito irregolare: il “terrorista”), contro il quale nessuna Convenzione, Costituzione o norma ordinaria possono operare.

La tortura in tale scenario manifesta la sua più intima natura di vero e proprio strumento di politica di guerra.

2. Legislazione emergenziale e logica di guerra – La categoria della legislazione d’emergenza in Italia è da sempre un ossimoro. Dalla stagione della sovversione sociale degli anni ’70 del secolo scorso allo stragismo della mafia, passando per Tangentopoli, le soluzioni normative che si sono succedute per fronteggiare le particolari situazioni congiunturali sono state stabilizzate, con effetti dirompenti sia sul piano sociale che in ordine alla distorsione del processo penale e del suo uso politico[19].

L’emergenza reca con sé l’urgenza dell’intervento, procedure decisionali molto centralizzate (predominio dell’Esecutivo sul Parlamento e ricorso frequente ai decreti-legge), l’assenza di un vero dibattito pubblico pluralistico, la riduzione delle garanzie, soprattutto per chi viene considerato “nemico”. Il frutto di tale attività compulsiva sono discipline speciali che regolano la reazione dello Stato contro certi ‘tipi d’autore’, comprimendo persino diritti costituzionalmente garantiti. Tale logica regge sia la fase del parto normativo (con nuove fattispecie di reati, circostanze aggravanti ad hoc, pene elevatissime), sia quella processuale (compressione sistematica dei diritti della difesa, semplificazione probatoria, presunzioni di colpevolezza e pericolosità), che quella esecutiva, in particolare carceraria.

La genesi dell’art. 41-bis ord.penit. e dell’ergastolo ostativo non sfugge a tali dinamiche, frutto delle emergenze e della ‘lotta alla mafia’, col conseguente ricorso sul piano discorsivo ad una terminologia e ad una logica di “guerra” [20].

L’art. 41-bis ord.penit. e più in generale la legislazione antimafia sono figli di questa logica bellicistica, che pur di ottenere il risultato dell’annientamento del nemico è disposta ad imporre una “moratoria” della Costituzione. Tale tendenza, d’altronde, è riscontrabile in molti altri scenari nazionali, caratterizzando il più ampio fenomeno del c.d. populismo penale, per il quale «ciò che importa è il castigo: le garanzie costituzionali del giudicabile sono solo un ostacolo»[21].

Nelle frenetiche settimane trascorse tra le due stragi di mafia di Capaci e Via D’Amelio, si discuteva la proposta di modifica dell’art. 41-bis ord.penit., con l’introduzione, al secondo comma, di una specifica disciplina di sospensione del ‘trattamento penitenziario’ per i detenuti ritenuti apicali delle consorterie mafiose.

Il vecchio art. 41-bis ord.penit. (sostanzialmente plasmato sulla disciplina dell’abrogato art. 90 ord.penit., ampiamente utilizzato durante gli ‘anni di piombo’) fu ritenuto insufficiente a condurre la “guerra contro la mafia”, per cui – in via temporanea, inizialmente – si introdusse un ‘regime differenziato’ per determinate persone considerate portatrici di una pericolosità estrema.

Nel suo atto di nascita, il “nuovo” art. 41-bis ord.penit. fu pura violenza, vera e propria vendetta di Stato, che colpì non soltanto i mafiosi direttamente coinvolti nella pratica stragista di Cosa nostra di quegli anni, ma anche numerosi altri detenuti (alcuni dei quali in misura cautelare), che nulla ebbero a che fare con quelle vicende.

In questa sede non è possibile descrivere nemmeno sommariamente le prime fasi di applicazione del nuovo regime detentivo speciale, per cui ci si limita ad osservare come esse siano state caratterizzate da vere e proprie pratiche di tortura fisica e psicologica, con feroci maltrattamenti quotidiani[22].

Dopo i primi anni, tuttavia, data l’assoluta incompatibilità di un simile regime carcerario con uno stato di diritto, l’art. 41-bis ord.penit. venne modificato, sulla base di parametri di massimo contenimento più efficaci e meno roboanti. Per semplificare, si potrebbe sostenere che si passò da una forma di ‘tortura classica’ ad una ‘tortura senza contatto’, alla ‘deprivazione sensoriale’.

2.1. I “dispositivi bellici” del doppio binario penitenziario – La combinazione degli artt. 4-bis, 41-bis, 58-terord.penit.  ha creato e disciplinato un vero e proprio ‘doppio binario penitenziario’ che distingue il presente e soprattutto il futuro delle vite dei detenuti: da una parte i “comuni”, dall’altra quelli qualificati da una particolare pericolosità, determinata da due fattori: il titolo di reato e l’assenza di collaborazione con la giustizia.

Non potendo entrare nel merito tecnico-giuridico delle numerose questioni complesse generate nel corso degli anni da questo vero e proprio sottosistema penitenziario, ci si limiterà a tracciarne a grandi linee la disciplina generale, per quel che attiene maggiormente al nostro tema.

Il primo comma dell’art. 4-bis ord.penit. prevede una disciplina generale di divieto di concessione dei benefici penitenziari (fatta salva la liberazione anticipata) e di ammissione alle misure alternative alla detenzione in assenza di collaborazione con la giustizia (ai sensi dell’art. 58-ter ord.penit.) per detenuti e internati per delitti per lo più legati alla criminalità organizzata, al terrorismo o all’eversione, per alcuni gravi reati contro la libertà individuale, per reati in materia di favoreggiamento dell’immigrazione irregolare, delitti associativi per contrabbando di tabacchi e traffico di sostanze stupefacenti.

Tale previsione, in collegamento con l’esclusione della liberazione condizionale risultante dall’art. 2 d.l. 13 maggio 1991, n.152, conv. con modif. in l. n. 12 luglio 1991, n. 203, rende, in particolare, l’ergastolo, perciò definito “ostativo”, un vero e proprio ‘fine pena mai’, senza nemmeno la speranza di poter accedere ai benefici predetti e alle misure alternative alla detenzione, se non previa collaborazione con la giustizia (o quando la collaborazione dovesse essere ritenuta, con un giudizio estremamente complesso e arduo da superare, impossibile, inutile o irrilevante)[23].

A seguito delle vicende scaturite da alcune note decisioni della Corte Europea dei Diritti dell’Uomo (Viola c. Italia) e della Corte costituzionale (sent. n. 253/2019)[24], il legislatore, per evitare una pronuncia dichiarativa della illegittimità costituzionale della predetta disciplina anche in relazione alle misure alternative, è corso ai ripari modificando, tra l’altro, il successivo comma 1-bis, riscrivendolo e sostituendolo con una serie di ulteriori commi (1-bis.1, 1-bis.1.1 e 1-bis.2) con il d.l. 31 ottobre 2022, n. 162, conv. con modif. dall’art. 1, co. 1 l. 30 dicembre 2022, n. 199.

Esclusa la condicio sine qua non della collaborazione, e la conseguente ‘presunzione assoluta di pericolosità sociale’, la nuova disciplina impone tuttavia in capo al detenuto una serie di adempimenti e oneri probatori “diabolici” che, di fatto, restringono al minimo le possibilità di superare il vaglio di ammissibilità dinanzi al Tribunale di sorveglianza. Basti pensare, per tutti, agli oneri di allegazione relativi alla inesistenza del pericolo di un futuro ripristino dei collegamenti, anche indiretti, con il «contesto nel quale il reato è stato commesso»[25].

L’art. 4-bis ord.penit. diviene centrale anche nel funzionamento della disciplina dettata dall’art. 41-bis ord.penit., poiché fornisce l’elenco dei reati per i quali quest’ultimo può essere adottato, indicati nel primo periodo del primo comma. Forse per evitare equivoci interpretativi (per la verità più immaginari che concretamente verificatisi), il nuovo co. 2 dell’art. 4-bis ord.penit. ha esplicitamente previsto che detenuti e internati sottoposti al regime di cui al successivo art. 41-bis non possono accedere ai benefici penitenziari o alle misure alternative. Da ultimo, il legislatore, con l’art. 7 d.l. 4 luglio 2024, n. 92 (conv. con l. 8 agosto 2024, n. 112), ha escluso anche la possibilità di accedere ai programmi di giustizia riparativa.

La portata e l’incisività della disciplina dei “divieti” imposti dall’art. 4-bis ord.penit., tali da rendere un ergastolo “ostativo” o da legittimare l’adozione del più severo dei regimi detentivi, lo hanno reso nel corso degli anni un duttile strumento di politica criminale, ampliando progressivamente il catalogo dei reati ivi compresi. Una “facile” risposta per attrarre consensi elettorali a fronte delle debolezze della politica[26]. Un vero e proprio strumento di definizione/selezione del “nemico” nelle mani del potere costituito che ricorre con crescente frequenza ad un uso politico del ‘doppio binario’ del sistema penitenziario[27]: da un lato ci sono i detenuti “comuni”, per i quali è previsto un percorso ispirato ad una progressiva apertura verso la società in un’ottica di risocializzazione (almeno sulla carta) e, dall’altro, vi è un percorso per i detenuti ritenuti “pericolosi” sulla base di titoli di reato, del tutto estraneo alla prospettiva rieducativa e informato «ad una logica di neutralizzazione e finalizzato ad incentivare le condotte collaborative»[28], che li esclude dall’accesso alla liberazione condizionale, ai benefici penitenziari e alle misure alternative al carcere.

La logica del ricatto, dunque, sia nel caso dell’art. 41-bis ord.penit. che dell’ergastolo ostativo (‘di diritto’ o ‘di fatto’, dopo la riforma), conduce ad una pratica di tortura, quantomeno psicologica, col ricorso a trattamenti contrari alla dignità umana, quindi assunti in violazione dell’art. 3 Convenzione EDU[29] e della Carta costituzionale, nonché in violazione del principio della finalità rieducativa della pena stabilito nell’art. 27, co. 3 Cost.[30]. La combinazione di entrambi i dispositivi raggiunge i massimi livelli di afflittività incostituzionale.

2.2. Il ricatto negato. Non sempre – I sostenitori dell’art. 41-bis ord.penit. e dell’ergastolo ostativo per lo più negano la sottesa logica ricattatoria di tali regimi. Un autorevole magistrato inquirente ha da sempre sostenuto che l’unica ragione posta a fondamento del ‘regime differenziato’ sia quella preventiva: la rottura dei collegamenti con le consorterie criminali esterne al carcere e dentro di esso[31]. Tuttavia, nel ribadire come vi sia una stretta relazione tra la collaborazione e l’accertamento dell’assenza di pericolosità (via maestra per superare l’assoggettamento ad ergastolo ostativo e art. 41-bis ord.penit.), l’Autore evidenzia, per quanto involontariamente, la logica ricattatoria dei due dispositivi[32].

In un confronto proprio con l’orientamento appena citato, autorevole dottrina, nel sottolineare come l’art. 41-bis ord.penit. fosse riconducibile ad un orizzonte di diritto penale d’autore, tutto fondato sulla prevenzione speciale negativa e caratterizzato da un eccesso punitivo simbolico, manifestava il proprio dubbio: «Premialità estrema e carcere duro sono estremi ritenuti necessari all’implementazione di una sorte di “soave inquisizione”… capace di “sciogliere le lingue”?»[33].

In effetti, in dottrina, da sempre, numerose e articolate sono state le critiche ai predetti regimi. In un autorevole commentario alla legge sull’ordinamento penitenziario si legge: «Il dubbio che insinua, allora, è che il legislatore abbia voluto in realtà perseguire altri fini: istituzionalizzando il regime differenziato in esame, da un lato, mira a tranquillizzare l’opinione pubblica inducendo un maggior senso di efficienza e quindi di sicurezza (non a caso si parla di “carcere duro”, anzi “durissimo” secondo la definizione del ministro dell’epoca Alfano), dall’altro mira a sollecitare condotte collaborative da parte dei detenuti sottoposti alla sospensione delle regole trattamentali. Un siffatto risultato se può essere astrattamente condivisibile, non lo è quando per il suo raggiungimento si comprimono diritti costituzionalmente garantiti»[34].

Qualora dovessero residuare dubbi, il sigillo sulla natura intrinsecamente ricattatoria dell’art. 41-bis ord.penit. e dell’ergastolo ostativo è stato di recente posto da uno stimato magistrato antimafia in un passaggio estremamente franco di un testo dedicato al fenomeno dei pentiti e alla relativa disciplina normativa: «L’esperienza ha dimostrato che quanto più sono ampie le forbici tra il trattamento per il collaboratore e l’irriducibile tanto maggiore è l’effetto incentivante alla collaborazione. […] L’accesso alla collaborazione viene incentivato, in maniera consistente, dal regime differenziale esistente tra chi collabora e l’irriducibile e dall’efficienza del sistema della protezione che rivela la serietà dell’impegno dello Stato. Tanto più è marcata la differenza e l’agevolazione per la via della collaborazione tanto maggiore sarà il numero delle vocazioni collaborative sia sotto il profilo qualitativo che quantitativo. Le collaborazioni sono state incentivate con la disciplina inerente all’ergastolo ostativo che inibisce o, comunque, rende più difficile l’accesso ai benefici penitenziari… rispetto a chi non collabora con la giustizia»[35].

2.2.1. Sul fronte politico non sono mancate testimonianze estremamente esplicite sul fine ultimo e reale del regime differenziato. Alcuni politici, nei mesi in cui fu partorita la modifica dell’art. 41-bis ord.penit. con l’introduzione del co. 2, così si esprimevano: «Contro i capimafia è necessario il massimo rigore, senza lasciar neppure intravedere loro la possibilità di un ammorbidimento delle condizioni di detenzione, salvo che cambino idea e non inizino una seria e fruttuosa collaborazione» (L. Violante); «Il punto centrale è la stabilizzazione del 41 bis […] perché di fronte ad una situazione stabile si chiarisce che si esce dal carcere duro solo con una precisa dissociazione o un pentimento» (A. Maritati)[36].

D’altronde già nel 1994, nel consesso delle Nazioni Unite, le autorità italiane si espressero con le seguenti limpide parole: «Grazie a questa misura speciale [l’applicazione dell’art. 41-bis ord.penit.], un numero crescente di detenuti ha deciso di cooperare con le autorità giudiziarie, fornendo indicazioni sulle organizzazioni criminali delle quali facevano parte»[37]. Tale dinamica “virtuosa” sembrerebbe essersi accentuata a seguito della ‘riforma Alfano’ del 2009 dell’art. 41-bis ord.penit., se uno dei massimi esperti dell’istituto così commentava: «Il numero dei provvedimenti 41 bis è cresciuto, gli annullamenti dei Tribunali di sorveglianza sono diminuiti. Sono cresciuti i collaboratori di giustizia»[38].

Da allora vi è un vero e proprio consenso bipartisan delle forze politiche, tanto da farne un totem per l’attrazione di consenso. Basti pensare alla corsa ai proclami contro ogni ipotesi di riforma o abolizione dell’art. 41-bis ord.penit. in occasione della vicenda Cospito.

2.2.2. La logica ricattatoria intrinseca nei due dispositivi di cui stiamo trattando è fortemente percepita anche dai detenuti.

Negli ultimi anni la letteratura relativa agli ergastolani ostativi e all’art. 41-bis ord.penit. è cresciuta sensibilmente e, tuttavia, le opere di maggiore respiro “testimoniale”, frutto di interviste massive, mancano da tempo. Ciò, forse, è anche frutto della disciplina restrittiva introdotta nel 2009, con la previsione del reato di cui all’art. 391-bis c.p., che obiettivamente “mura” anche la voce dei detenuti.

Tracce di tale sensibilità, tuttavia, si trovano sparse nelle testimonianze che sono circolate nel corso degli anni. Recentemente, ad es., un detenuto già ristretto in regime di art. 41-bis ord.penit. racconta: «Dopo il mio arresto mi viene applicato il 41 bis; da quel momento inizia un interminabile calvario in quanto inizio a subire vessazioni fisiche e psicologiche: mi veniva ripetutamente chiesto di collaborare con la giustizia se volevo rivedere i miei figli. Non ho mai accettato perché nulla avevo da dire in quanto la responsabilità dei reati che mi venivano contestati era solo e soltanto mia e non me la sentivo di scaricarmela addossandola a chi in realtà non aveva colpe. Visto che non accettavo questo compromesso, stavo rinunciando alla possibilità di rivedere i miei figli. Questo calvario durerà poco più di sei anni»[39].

Un altro detenuto, in uno scritto relativo alla sua esperienza carceraria in regime di cui all’art. 41-bis ord.penit., scriveva: «Il direttore mi disse: “Sa Indelicato se ha ricevuto minacce a casa?”. Risposi: “Sono tredici mesi che non faccio colloqui. Sa perché non faccio colloqui? Perché mia moglie ogni volta che viene qua viene vessata più di me, perché deve passare le perquisizioni corporali, deve fare i piegamenti, deve fare tutto, mia moglie che non c’entra niente, i miei figli non c’entrano niente con queste torture. […]”. Questo direttore mi chiese se avevo ricevuto minacce a casa, tipo incendi, cose varie, ma io ovviamente non lo potevo sapere. Me ne sono andato. Ma questo pallino, questa idea mi rimase in testa; questa era una mossa psicologica perché loro ti smontavano, cioè volevano creare il pentito, questa è la realtà. E questo hanno fatto, perché ci sono state persone che si sono pentite e persone che si sono pure uccise»[40].

Un altro ex detenuto in regime di art. 41-bis ord.penit. per alcuni anni, poi assolto, ha raccontato: «Le manette… a me le hanno legate alla sedia. Il dottore voleva sapere qual era il dente che mi faceva male; con la lingua glielo indicavo, ma indicandoglielo con la lingua mi hanno tolto quello sbagliato. Una pedata ai testicoli perché dovevo collaborare. […] Le proposte che mi hanno fatto non le dico per non andare incontro a una denuncia; le proposte che mi facevano di collaborazione»[41].

La stessa, complessa, vicenda processuale di un collaboratore di giustizia del processo “Borsellino-bis”, poi mostratosi del tutto inattendibile dopo numerosi cambi di versione e alterne vicende di collaborazione e ritrattazioni – le cui dichiarazioni vanno, di conseguenza, maneggiate con estrema cautela –, è di particolare interesse ai fini del nostro studio. Questi, infatti, in più passaggi di una importante intervista, ha chiarito come il regime detentivo brutale di Pianosa nel 1992, unitamente ai numerosi ‘colloqui investigativi’, lo avessero indotto a “pentirsi”[42].

È stato osservato, condivisibilmente, che «sono “tortura” non solo “dolore e sofferenze forti” […], ma anche le “pressioni” che in particolari condizioni di detenzione si esercitano nei confronti di detenuti fatti oggetto di visite in cella eufemisticamente definite “colloqui investigativi”»[43].

Si leggano, inoltre, le interviste condotte a ben 645 detenuti in regime di art. 41-bis ord.penit. realizzate anni or sono, dalle quali emerge frequentemente come i reclami contro l’applicazione o le proroghe dell’applicazione del regime speciale venissero rigettati per una ‘persistente pericolosità’ dovuta all’assenza di ‘segni di collaborazione’[44].

Più di recente, un noto anarchico detenuto in regime di art. 41-bis ord.penit. dichiarava: «Io potrò uscire da questo girone dantesco solo se rinnegherò il mio credo politico, il mio anarchismo, solo se mi venderò qualche compagno o compagna»[45].

2.3. Il regime del 41-bis come “dispositivo di ricatto” – La sospensione del trattamento penitenziario conseguente all’applicazione dell’art. 41-bis ord.penit. prevede numerose limitazioni, alcune delle quali già definite dal legislatore, congiuntamente applicate e senza la possibilità di adattarle al singolo caso[46]. La norma, tuttavia, riserva anche la possibilità, in capo all’Amministrazione, di imporre ulteriori restrizioni sulla base di due previsioni molto generiche che, di fatto, lasciano mano libera al decisore politico-amministrativo (sia in sede di emissioni di circolari che di applicazione locale delle stesse): i) l’adozione di «misure di elevata sicurezza interna ed esterna» non meglio specificate, «con riguardo principalmente alla necessità di prevenire contatti con l’organizzazione criminale di appartenenza o di attuale riferimento» (art. 41-bis, comma 2-quater, lett. a) ord.penit.[47]; ii) l’adozione di «tutte le necessarie misure di sicurezza… volte a garantire che sia assicurata la assoluta impossibilità di comunicare tra detenuti appartenenti a diversi gruppi di socialità, scambiare oggetti e cuocere cibi» (art. 41-bis, comma 2-quater, lett. f) secondo periodo ord.penit.). Misure, anche in questo caso, non meglio precisate.

2.3.1. Il primo dato che emerge quando si studia l’art. 41-bis ord.penit. “reale”, cioè quello concretamente applicato, anche in violazione delle decisioni della Corte costituzionale, riguarda la sua particolare ‘geografia penitenziaria’.

La logica di fondo che informa le decisioni sulle collocazioni dei detenuti particolarmente pericolosi è quella della “dispersione” e dell’allontanamento dai luoghi di origine. Si tratta di una precisa scelta politica del DAP: «Al di sotto di Secondigliano non mettiamo detenuti soggetti all’art. 41-bis, proprio per tenerli lontani da quell’ambiente. […] Al di là della battuta… abbiamo una regola alla quale non abbiamo mai contravvenuto, quella di non inviare mai detenuti sottoposti all’art. 41-bis oltre Secondigliano; peraltro c’è da considerare che Secondigliano è un’isola nell’area da Roma in giù»[48].

Dietro l’esigenza di allontanare i detenuti dai contesti criminali di provenienza (esigenza che dovrebbe essere, in verità, garantita dal regime di massima restrizione di cui all’art. 41-bis ord.penit.)[49], di fatto opera un potente meccanismo di rottura dei legami affettivi, con ciò che ne consegue in termini di qualità della vita in carcere, soprattutto tenuto conto delle restrizioni ulteriori che subisce un detenuto sottoposto al regime di cui all’art. 41-bis ord.penit.[50]. È un dato incontrovertibile che, con questa politica del distanziamento familiare, i colloqui – per motivi logistici ed economici – si diradino, riducendosi a poche occasioni in un anno[51].

La rottura dei legami familiari, già ampiamente compromessi dalle modalità con cui vengono svolti i colloqui dei detenuti sottoposti al regime di cui all’art. 41-bis ord.penit. (e anche alla trafila di controlli estenuanti e invadenti che devono subire i familiari all’ingresso e all’uscita dal carcere), diventa un potente fattore di pressione sul detenuto, conferendo connotati di particolare afflittività alla pena[52]. Il tutto in evidente violazione dell’art. 28 ord. penit., stando al quale «particolare cura è dedicata a mantenere, migliorare o ristabilire le relazioni dei detenuti e degli internati con le famiglie».

2.3.2. Nel complesso delle limitazioni previste esplicitamente su base normativa e delle altre che si fondano sulle circolari del DAP, sono numerose quelle che mostrano profili assolutamente eccentrici rispetto alle proclamate esigenze di “sicurezza” e alla necessità di assicurare la rottura dei legami con le organizzazioni criminali di provenienza. Senza stretta funzionalità[53], non soltanto le restrizioni sono prive di legittimazione normativa, ma finiscono per violare il patto costituzionale e i divieti anche internazionali di tortura[54]. Tutto ciò che non è giustificabile in base alle esigenze di sicurezza/rottura dei legami con l’esterno, finisce per assumere i connotati della pura afflittività, essa sì funzionale a perseguire altri scopi, in particolare la collaborazione. Ciò è ancora più vero nei numerosi casi di detenuti sottoposti all’art. 41-bis ord.penit. in misura cautelare (poco meno del 20% del totale).

Tale critica è stata avanzata anche da uno dei più strenui difensori dell’art. 41-bis ord.penit., Nicolò Amato, capo del DAP per un decennio (1983-1993), il quale censura le restrizioni senza fini di sicurezza, sostenendo che esse abbiano «esclusivamente un carattere di afflizione o di punizione fine a sé stessa»[55]. Una tale afflittività, informata ai parametri della ‘sicurezza assoluta’ e della ‘punizione senza limiti’ – continua l’A. – «non trova alcuna legittimazione»[56]. Con ancora maggiore precisione: «Una pena detentiva è contraria al senso di umanità o lesiva della dignità personale, se infligge al detenuto una sofferenza che vada al di là di quella inevitabilmente insita nella privazione della libertà. E così, indubbiamente, tutte le disposizioni del regime 41 bis sono più o meno in contrasto con il principio indicato, giacché in sé, per il loro stesso contenuto, determinano condizioni detentive inumane o degradanti, ossia un eccesso di afflittività rispetto alla semplice privazione della libertà. […] E quindi, le restrizioni di diritti penitenziari privi di scopi di sicurezza – come quelle concernenti i pacchi, gli acquisti al sopravvitto, la permanenza nei cortili di passeggio e simili – sono senz’altro illegittime e inaccettabili, in quanto il di più di sofferenza che comportano non ha alcuna giustificazione»[57].

Di seguito si riporta un breve elenco di tali restrizioni del tutto ingiustificabili anche tenendo come riferimento le esigenze di ‘ordine e sicurezza pubblica’ e di impedimento dei “collegamenti” con la criminalità organizzata.

L’edilizia e le condizioni materiali di vita delle sezioni destinate all’esecuzione in regime di art. 41-bis ord.penit. mostrano i primi segni tangibili di criticità, tanto da aver spinto il Garante Nazionale dei detenuti a parlare di vere e proprie «pene corporali»[58]. Nelle sezioni predette vige un vero e proprio ‘regime claustrale’, dove persino l’accesso alla luce naturale e all’aria sono impediti. Le finestre delle celle sono chiuse e oscurate da diversi strati di schermatura, che in alcuni casi arrivano fino a cinque. Ciò riduce il passaggio di luce e aria senza alcuna giustificazione, con risultati asfissianti d’estate[59]. Le celle, inoltre, sono del tutto impersonali, condizione che impoverisce la personalità del detenuto, già censurata in un rapporto del 2008 dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (CPT)[60].

Il Garante Nazionale, inoltre, ha osservato nel suo ultimo Rapporto la «presenza ossessiva di grate a copertura dei cortili»[61], tanto che le aree di passeggio finiscono per essere dei «meri contenitori grigi, privi di ogni stimolazione visiva e avulsi da ogni elemento naturale»[62], dei cubi di cemento coperti da reti (in passato in alcuni istituti anche dal plexiglass, che in estate produceva un vero e proprio ‘effetto serra’). Gli spazi ristretti e l’assenza di visuale più ampia producono sulla distanza il deterioramento della vista e non solo: «La mancanza di una estensione dello sguardo, sempre limitata da mura o da reti, incide negativamente sulla capacità visiva delle persone e, molto probabilmente, sul loro complessivo equilibrio»[63]. Tali scelte di edilizia penitenziaria sono inserite nella logica della deprivazione sensoriale, come si è già notato in precedenza. Il Garante, pur non ricorrendo a tale terminologia, la lascia intendere: «Questa caratteristica di spazi […] pensati e progettati per tali destinazioni, induce a credere che il grigiore amorfo costituisca una scelta precisa»[64].

Alla dimensione alienante degli spazi “aperti”, si aggiunge che – stando all’ultima circolare del DAP che regola la disciplina e l’organizzazione delle sezioni destinate all’art. 41-bis ord.penit., emessa il 2.10.2017 con prot. n. 3673/6126 – l’Amministrazione ha compresso ulteriormente la previsione normativa. Difatti, mentre il co. 2-quater, lett. f) dell’art. 41-bis ord.penit. prevede che la ‘permanenza all’aperto’ non debba avere una durata superiore alle due ore, il DAP, confondendo la ‘permanenza all’aperto’ con il tempo di ‘socialità’, finisce per concedere una sola ora di ‘aria’ (v. l’art. 11 della citata circolare).

Le condizioni complessive di detenzione e la composizione dei gruppi di “socialità”[65] e passeggio comportano che durante le ‘ore d’aria’ spesso domini il silenzio: «Alcune persone mi hanno raccontato che di consueto camminavano in silenzio, tutte e quattro. Anche quando si andava nella saletta per l’ora della socialità, si giocava a carte in silenzio. Il numero di parole utilizzato è estremamente limitato e con il passare degli anni le persone diventano incapaci persino di sostenere una conversazione»[66].

L’isolamento prolungato conduce alla degradazione delle capacità di comunicazione e all’assuefazione alla solitudine: «Le persone parlano poco. Ad alcune domande riguardanti la sfera emotiva spesso rispondono a monosillabi, ma anche le domande più stimolanti a volte ricevono risposte brevi oppure un insieme di frasi incomplete. Mentre le emozioni rimangono una sfera difficilmente raccontata, vi è maggiore eloquenza quando si tratta di descrivere spazi, norme e (non) attività»[67].

Il silenzio, in regime di art. 41-bis ord.penit., è la consegna impartita dagli agenti[68]. I detenuti, pur potendo, in teoria, comunicare tra di loro dalle celle, a gruppi di quattro, sono ridotti al silenzio: «… hanno la porta blindata delle celle sempre chiusa e detenuti collocati in celle diverse non possono comunicare tra loro»[69]. Un ergastolano detenuto ad Opera così inizia una lettera inviata ad un quotidiano: «Mi chiamo […], sono ininterrottamente detenuto da quasi vent’anni con l’ergastolo ostativo, il 4 bis. Sono stato per quattro anni al 41 bis e complessivamente sono stato isolato per sei anni, a volte per mesi e mesi senza parlare con nessuno. Il 41 bis spegne i rapporti con le persone che ami, crea una distanza incolmabile»[70].

La violenza della tortura «annienta il linguaggio… il torturato resta un corpo senza voce»[71]. Il silenzio della tortura, nel caso dei dispositivi che stiamo analizzando, si contrappone al recupero della parola solo sotto forma di propalazioni del collaboratore di giustizia. In effetti: «La tortura vuole spezzare la volontà del torturato, giocando il suo corpo contro la sua mente, e fargli fare e dire quello che proprio non vuole né fare né dire»[72].

Un’altra pratica costante, particolarmente invasiva, giustificata con le ‘esigenze di sicurezza’ è l’abuso delle perquisizioni ordinarie: ad ogni spostamento corrisponde un denudamento[73], anche in caso di colloqui con i familiari, notoriamente intrattenuti con vetri divisori alti fino al soffitto e che non consentono alcun passaggio di oggetti tra i colloquianti, così come  prima e dopo i colloqui con gli avvocati e persino con i magistrati[74]. E ciò, nonostante durante i tragitti di andata e ritorno i detenuti siano sempre scortati da più agenti. Nel caso di comprovata assenza di esigenze di sicurezza, tale pratica assume i connotati della violenza gratuita.

Anche la censura asfissiante sulle comunicazioni verso l’esterno finisce per incidere sensibilmente sui rapporti intrattenuti coi familiari. Se è vero che tale restrizione fonda la propria logica nelle esigenze di sicurezza, ossia al fine di limitare eventuali comunicazioni criminogene verso l’esterno, è altrettanto vero che ne se fa un uso indiscriminato. Il controllo è eseguito spesso dagli agenti di sorveglianza, che possono operare arbitrariamente[75]. Sebbene sia previsto un controllo giurisdizionale sulla fondatezza della censura, è altrettanto vero che esso arriva per lo più con estremo ritardo. Il tutto provoca un impoverimento del linguaggio (teso ad evitare qualsiasi parola ed espressione che possa essere interpretata come criptica e perciò censurabile) e delle relazioni affettive[76].

A tali restrizioni, assolutamente non funzionali a garantire le esigenze di sicurezza (o delle quali, ad ogni modo, si abusa), si aggiungono quelle previste dalla circolare del 2017 già citata o adottate dai singoli istituti penitenziari. Di seguito un florilegio: le pentole e i pentolini utilizzabili per cucinare i cibi in cella non possono avere rispettivamente un diametro superiore ai 25 e 22 cm[77]; gli oggetti di igiene personale non possono essere detenuti nella cella, ma vengono consegnati e ritirati ad orari prestabiliti; nella sala pittura non possono essere detenuti più di 12 pezzi tra matite e colori all’acquerello; il numero massimo di libri che si possono avere in cella contemporaneamente è di quattro (il che comporta non pochi problemi per chi abbia intenzione di seguire dei corsi di studio)[78]; è previsto un numero massimo di fotografie da poter avere in cella ed è imposto il divieto di affissione di foto sulle pareti, salvo una singola fotografia di un familiare[79]; la televisione è fruibile soltanto dalle 7:00 alle 24:00, così limitando anche l’uso della radio per finalità informative, essendo per lo più le radio incorporate nelle tv[80]; sono previste limitazioni nell’acquisto dei quotidiani, alcuni dei quali, anche a diffusione nazionale, sono vietati in certi istituti.

Il complesso di tali restrizioni, non motivabili sulla base delle esigenze di sicurezza pubblica e di rottura dei legami con le organizzazioni criminali, portò già nel 2008 il CPT in modo netto a denunciare: «Alla luce di questi elementi e delle condizioni di vita succitate, è evidente che questo tipo di trattamento è creato per spingere il detenuto alla collaborazione con la polizia e con la giustizia, in modo da ottenere lo status di collaboratore di giustizia e la sospensione del regime 41 bis»[81].

Le restrizioni imposte anche al diritto allo studio incidono in termini deteriori sulla possibilità di avviare un percorso rieducativo in osservanza dell’art. 27, co. 3 Cost.[82]. Dal punto di vista pedagogico, difatti, è stato osservato: «La finalità di un regime di massima sicurezza è da ricercare non tanto nell’esclusione e nell’allontanamento per garantire la pace sociale ma nel porre la persona mafiosa in una situazione psicologica e fisica estenuante per neutralizzare i suoi residui elementi sociali. Nel lungo periodo, questa asocialità forzosa non favorisce il suo recupero ma potrebbe, al contrario, incentivare caratteri di antisocialità»[83].

Ciò è tanto più vero se si tiene conto del c.d. effetto imbuto del regime di cui all’art. 41-bis ord.penit., per il quale chi vi entra molto difficilmente ne uscirà, se non con la completa espiazione della pena; nel caso dell’ergastolano ostativo in regime di art. 41-bis ord.penit. non collaborante, la via d’uscita è la morte[84]. Tale conseguenza è dovuta al meccanismo perverso delle proroghe pressoché automatiche e alla difficoltà (ovvero, impossibilità vera e propria senza collaborazione) di scardinare la presunzione di pericolosità sociale e della persistenza dei collegamenti con la criminalità[85].

2.4. Il regime del 41-bis e il solitary confinement. Un rapido confronto – Il regime di cui all’art. 41-bis ord.penit. ha tutte le caratteristiche di quello che nella letteratura internazionale viene definito solitary confinement, ovvero un regime carcerario nel quale il detenuto è isolato nella propria cella dalle 22 alle 24 ore al giorno e separato dagli altri detenuti; i suoi contatti con il personale penitenziario sono scarsi e superficiali, per lo più di totale dipendenza; i rapporti con i familiari sono infrequenti; vi è un controllo diffuso e costante di ogni movimento, persino di quelli più intimi (telecamere in bagno); le celle sono particolarmente piccole, prive di luci sull’esterno o comunque dotate di piccole fessure, con un limitato accesso all’aria fresca e alla luce naturale; la vita è condotta in situazioni ambientali di scarse stimolazioni e pochissime opportunità di attività da svolgere[86].

Regimi del genere furono ampiamente sperimentati nel XX secolo in vari Paesi, soprattutto durante i periodi più caldi delle stagioni dell’insorgenza sociale o delle rivolte anticoloniali.

Sono numerosi gli studi internazionali che dimostrano come tale regime carcerario arrechi plurimi danni, sia fisici sia soprattutto psicologici, ai detenuti, in particolare se imposto per lunghi periodi di tempo[87]. Tra i primi, la letteratura scientifica annovera palpitazioni cardiache, diaforesi, insonnia, dolori articolari e alla schiena, deterioramento della vista, inappetenza, perdita di peso e in alcuni casi diarrea, sonnolenza, spossatezza, tremore, sensazioni di freddo, aggravamento di pregressi problemi di salute. Tra i principali effetti sul piano psichico, invece, sono stati riscontrati ansia (che varia dalle sensazioni di tensione a veri e propri attacchi di panico), depressione (che va dai casi di umore basso fino alla vera e propria depressione clinica), rabbia (che passa dall’irritabilità per arrivare alla rabbia totale), disturbi cognitivi (dalla perdita di concentrazione fino agli stati confusionali), distorsioni percettive (dalla ipersensibilità fino alle allucinazioni), paranoia e psicosi (dai pensieri ossessivi fino alla psicosi vera e propria)[88]. Le condizioni deteriori del solitary confinement sono cristallizzate anche dal brutale dato statistico dei più alti tassi di pratiche di autolesionismo e suicidio[89]. A ciò si aggiungano conseguenze, spesso irrimediabili, sulle abitudini di vita, sulle strutture caratteriali e sulle difficoltà relazionali che ne seguono in un eventuale reinserimento in società[90].

A fronte di tutto ciò, sembra un mero paravento ideologico quello utilizzato dal DAP nella premessa della circolare n. 3676/6126 del 2017, più volte richiamata: «Le prescrizioni imposte col decreto del Ministro non sono volte a punire e non devono determinare un’ulteriore afflizione, aggiuntiva alla pena già comminata, per i soggetti sottoposti al regime detentivo in esame»[91].

3. Guerra ai nemici – L’ergastolo ostativo e l’art. 41-bis ord.penit., prodotti di una «idea segregazionista della pena fondata sulla pericolosità»[92], mostrano tutti i caratteri del ricatto, dal chiaro obiettivo (in alcuni casi anche esplicitamente rivendicato) di indurre (costringere) il detenuto alla collaborazione con la giustizia a mezzo disofferenze fisiche e/o psichiche.

Il ricatto, quando non riesce a raggiungere l’obiettivo principale, assume comunque i connotati della pura e gratuita afflizione, non giustificabile da alcuna esigenza di sicurezza.

Imponendo un grado di massima afflittività si persegue, in effetti, anche un doppio obiettivo “simbolico”: uno, di prevenzione generale tramite la pena esemplare espiata dai “nemici” della società[93]; l’altro, di legittimazione del potere costituito grazie alla “guerra” al fenomeno criminale.

In questa prospettiva, l’ergastolo ostativo e l’art. 41-bis ord.penit. svolgono anche una funzione di “garanzia” per le ansie sociali e qualificano l’efficacia della lotta statuale contro le organizzazioni criminali, rappresentando le ‘punte di diamante’ della repressione del crimine.

La lunga stagione del populismo penale, difatti, si alimenta di discorsi giustizialisti che rivendicano la centralità del carcere come risposta dello Stato alla criminalità. Tale logica è del tutto consequenziale in rapporto al fallimento delle politiche di giustizia sociale e allo smantellamento del Welfare State. La “giustizia” passa solo per i tribunali e chi “sbaglia” deve pagare, severamente. Il carcere ha sempre di più la funzione di mero contenitore di persone “irrecuperabili”, da neutralizzare.

La reattività dello Stato, in quest’ottica, si misura con quante persone vengono rinchiuse in carcere e in quali condizioni i detenuti sono stipati in questi contenitori[94].

Il meccanismo appena descritto sembra richiamare quello raffigurato nella bolla papale citata in esergo: l’obiettivo principale è ottenere la collaborazione con la giustizia (la confessione e la “conversione” richieste dall’Inquisizione) e, nel caso del mancato raggiungimento dello scopo, residua comunque la pena della massima sofferenza, conseguenza della cattiva fede e dell’irriducibilità del detenuto, che funga da terribile monito per gli altri consociati. L’uomo è ridotto a puro strumento del potere costituito.

In questa dinamica di repressione e legittimazione, al “nemico” è negata non soltanto la libertà, ma anche la vita.


[1] Paolo III nel 1542 emanava la bolla Licet ab initio, con cui veniva istituita la “nuova” Inquisizione romana, indicando subito i propri intendimenti. La bolla è riprodotta ampiamente nell’illuminante studio di I. Mereu, Storia dell’intolleranza in Europa. Sospettare e punire. Il sospetto e l’Inquisizione romana nell’epoca di Galilei, Milano, 1979, pp. 100-104 (per la citazione v. p. 101).

[2] Da una lettera di un detenuto sottoposto al regime di cui all’art. 41-bis pubblicata in Camera Penale di Roma, Barriere di vetro: voci dalla detenzione speciale in Italia, Roma, 2002, p. 90.

[3] Il ricatto, pur non essendo un termine esplicitamente richiamato nel codice penale, è elemento costitutivo di numerose fattispecie incriminatrici. V. ad es. art. 317 c.p., art. 338 c.p., art. 377, co. 3 c.p., art. 377-bis c.p., art. 610 c.p., art. 611 c.p., art. 629 c.p., art. 630 c.p.. Sulla differenza tra “minaccia-fine” e “minaccia-mezzo” (tipica del ricatto), v. G.L. Gatta, La minaccia. Contributo allo studio delle modalità della condotta penalmente rilevante, Roma, 2013, passim.

[4] Per un’introduzione alla storia della tortura (sui piani giuridico, sociologico e politico), con ampie ricostruzioni storiografiche, v. T. Padovani, Tortura: anno accademico 2006/2007, Pisa, 2015.

[5] M. Lalatta Costerbosa, Il silenzio della tortura. Contro un crimine estremo, Roma, 2016, pp. 19, 21-22, 74-75.

[6] D. De Cesare, Tortura, Torino, 2016, p. 93.

[7] Sul punto v. M. La Torre, in M. Lalatta Costerbosa, Legalizzare la tortura? Ascesa e declino dello Stato di diritto, Bologna, 2013, pp. 159-161, 164. Si rinvia all’intero testo per una articolata critica delle teorie giustificazioniste della tortura, sviluppatesi soprattutto negli Usa e in Germania dopo gli attentati del 2001 alle Torri Gemelle.

[8] M. Nowak, E. McArthur, The distinction between torture and cruel, inhuman or degrading treatment, in Torture, vol. 16, n. 3, 2006, pp. 150-151.

[9] In questa sede si fa ricorso alla classica distinzione tra tortura “fisica” e “psicologica” per mera semplificazione espositiva, ben consapevoli che, invece, nella letteratura scientifica la differenziazione netta tra “corpo” e “psiche” sia criticata e rifiutata da tempo. Già negli anni ’70, ad es., uno studioso della materia osservava: «Non ha senso distinguere tra tortura fisica e psicologica perché si dovrebbe accettare la concezione profondamente sbagliata… secondo la quale un essere umano può essere pensato come l’unione di due entità distinte: la psiche (l’anima) e il corpo. […] La pratica della tortura ha […] dimostrato che le reazioni dell’uomo agli stress possono essere comprese solo in termini di combinazione di processi mentali e fisici» (S. Mistura, Le scienze umane per la tortura, in S. Mistura, Collettivo latino-americano di lavoro psico-sociale, La fabbrica della tortura. Psicologia e psichiatria come scienze della coercizione, Verona, 1978, p. 19).

[10] Si tratta di pratiche che cominciarono ad essere sperimentate negli anni ’70 del secolo scorso in danno dei prigionieri politici. In un articolo giornalistico di allora, a proposito del trattamento riservato ai prigionieri della RAF nella Repubblica Federale Tedesca, si denunciava quanto segue: «Non si viene certo privati della facoltà della vista, la luce degli occhi non viene accecata: si viene privati piuttosto della possibilità di vedere qualsiasi cosa con gli occhi. Non viene sottratta la capacità soggettiva degli organi di senso, ma bensì il loro soggetto, il loro senso appunto; per cui essi diventano inutili, senza funzioni, esangui. […] Per esempio è previsto il totale divieto di parlare, vengono eseguite razzie nelle celle, la luce rimane accesa di notte, il taglio delle visite, le limitazioni negli scambi epistolari, la privazione di ogni oggetto di arredamento, l’incubo del braccio morto, ecc. Quindi: è solo la complessità delle misure dell’isolamento, e il fattore tempo, che determinano l’effetto della tortura. […] Lo scopo sono quindi le confessioni» (“La tortura che non lascia tracce”, in Wir wollen alles, n. 24 – gennaio 1975, pubblicato in A. Assante, P. Pozzi (a cura di), Il gulag socialdemocratico. Note sulla repressione in Germania, Milano, 1977, pp. 26-28).

[11] Per una sintetica ricostruzione dei principali risultati dei suoi studi, v. Amnesty International, Rapporto sulla tortura nel mondo, Milano, 1975, pp. 57-63.

[12] Su questi temi, nonché sul ruolo degli psicologi nell’affinamento delle tecniche di “tortura bianca”, v. R. Mausfeld, Psychologie, ‘weiße Folter’ und die Verantwortlichkeit von Wissenschaftlern, in Psychologische Rundschau, n. 60, 2009, pp. 229-240 (trad. inglese di V. Ekroll, Psychology, ‘white torture’ and the responsibility of scientists, in ResearchGate).

[13] R. Mausfeld, op. cit., p. 13 ed. inglese.

[14] Su questi aspetti e sull’obiettivo della regressione dell’interrogato, prodromica della sua arrendevolezza, v. Central Intelligence Agency, Manuale della tortura. Il testo finora top-secret uscito dagli archivi Usa, Roma, 1999, pp. 48, 59, 90.

[15] V. ad es. la sent. Corte cost., n. 135 del 24 aprile 2003: «La preclusione prevista dall’art. 4-bis, comma 1, primo periodo, dell’ordinamento penitenziario non è conseguenza che discende automaticamente dalla norma censurata, ma deriva dalla scelta del condannato di non collaborare, pur essendo nelle condizioni per farlo: tale disciplina non preclude pertanto in maniera assoluta l’ammissione al beneficio, in quanto al condannato è comunque data la possibilità di cambiare la propria scelta».

[16] Per un’analisi critica del reato di tortura introdotto nel nostro codice penale con l’art. 613-bis c.p., v. tra gli altri S.C. Monachini, Da Genova a Santa Maria Capua Vetere. Nuove ferite alla dignità umana. Riflessioni sulla “violenza di Stato” in Italia a quattro anni dall’introduzione del reato di tortura nel nostro ordinamento, in Ind. pen., n. 2/2022, pp. 427-454.

[17] Il termine “giudiziario” è inteso in senso a-tecnico, ricomprendendo anche le fasi propriamente investigative e della esecuzione della pena.

[18] ‘Cosa fare nel caso sia stata piazzata una bomba ad orologeria in un luogo sconosciuto che potrebbe essere rivelato in tempo da un terrorista prigioniero? È lecito eventualmente anche torturarlo pur di ottenere informazioni salvifiche?’. Tale argomento retorico è stato demistificato con grande efficacia da D. De Cesare, op. cit., pp. 75-81.

[19] Per una oramai classica e imprescindibile introduzione alla materia, v. S. Moccia, La perenne emergenza. Tendenze autoritarie nel sistema penale, Napoli, 2011, 2ª ed. riv. ed ampliata, passim.

[20] Un nitido esempio di ciò che sosteniamo è l’editoriale pubblicato su uno dei principali quotidiani italiani da un noto intellettuale conservatore solitamente pacato. Si era all’indomani della strage di Via D’Amelio: «Ci interessa soltanto sapere se il governo intende vincere questa guerra e di quali mezzi voglia servirsi. “Guerra” non è un’iperbole. […] Non siamo alle prese con manifestazioni di criminalità organizzata, ma con una forza di occupazione che si è impadronita di una larga parte del territorio sociale siciliano e meridionale e che comprende probabilmente decine di migliaia di “occupanti” […]. Se questi sono i termini del problema è assurdo immaginare che il governo possa risolverlo stringendo qua e là le viti e i bulloni di un sistema che è comunque inadatto a fronteggiare fenomeni di minore ampiezza e gravità. Se è “guerra” i mezzi con cui vincerla sono quelli dello stato d’emergenza. […] Crediamo che lo Stato abbia anzitutto il diritto di difendere se stesso e i propri cittadini, anche se ciò può significare, per un certo periodo e per una parte del territorio nazionale, la sospensione delle garanzie costituzionali» (S. Romano, La mafia dichiara guerra allo Stato. Dopo Falcone, uccisi Borsellino e cinque agenti. Leggi d’emergenza, in La Stampa del 20.7.1992).

[21] E. J. Prats, Los peligros del populismo penal, Santo Domingo, 2011, p. 72. La letteratura nazionale e internazionale sul tema è sterminata. Ci si limita a rinviare ad uno dei lavori più recenti: C. Landolfi, Declinazioni del populismo e ricadute sul diritto penale. Un caso emblematico: le riforme della legittima difesa, Pisa, 2023, passim.

[22] Sulla stagione della brutalità massima del predetto regime carcerario, v. le testimonianze raccolte in R.E. Indelicato, L’inferno di Pianosa. L’esperienza del 41 bis nel 1992, Roma, 2015; P. De Feo, Le Cayenne italiane. Pianosa e Asinara: il regime di tortura del 41 bis, Roma, 2016, ma anche N. Dinoi, Dentro una vita: i 18 anni in regime di 41 bis di Vincenzo Stranieri, Roma, 2010 (ove alle pp. 173-186 è riprodotto il decreto ministeriale con il quale venne applicato per la prima volta il nuovo regime appena introdotto). V. anche la relazione stilata dal Magistrato di sorveglianza di Livorno il 5.9.1992 ai sensi dell’art. 69, co. 1 ord. penit. (reperibile al seguente link, nella sezione “Documenti allegati”: https://tinyurl.com/9b5xvsb7). Su quella particolare stagione, anche in un testo di impianto accademico, è stato osservato: «L’Amministrazione penitenziaria, […] ha inizialmente chiuso un occhio su quanto stava accadendo negli istituti penitenziari interessati al 41 bis: vi sono, infatti, plurime e concordanti circostanze che portano fondatamente a sospettare che, nella prima fase di applicazione del regime detentivo speciale (parliamo in particolare del periodo di tempo che va dal luglio all’ottobre del 1992), i due penitenziari ‘insulari’ di Pianosa e dell’Asinara siano stati il teatro di gravi episodi di maltrattamenti e soprusi» (A. Della Bella, Il “carcere duro” tra esigenze di prevenzione e tutela dei diritti fondamentali. Presente e futuro del regime detentivo speciale ex art. 41 bis O.P., Milano, 2016, p. 110).

[23] Per un’introduzione al tema dell’ergastolo ostativo e ad una sua critica radicale v. A. Pugiotto, Criticità costituzionali dell’ergastolo ostativo, in C. Musumeci, A. Pugiotto, Gli ergastolani senza scampo. Fenomenologia e criticità costituzionali dell’ergastolo ostativo, Napoli, 2016, pp. 63-180.

[24] In questa sede è semplicemente impossibile anche solo accennare alla complessità della portata delle citate sentenze e a tutte le ricadute per il nostro Paese. Tra le numerose pubblicazioni sul tema, v. E. Dolcini, F. Fiorentin, D. Galliani, R. Magi, A. Pugiotto, Il diritto alla speranza davanti alle Corti. Ergastolo ostativo e articolo 41-bis, Torino, 2020.

[25] In dottrina, tra i primi commenti a caldo della novella, si è parlato di “percorso che scarica sul detenuto la prova”. V.  A. Cisterna, Ergastolo ostativo: la presunzione assoluta di pericolosità sostituita da un percorso che scarica sul detenuto la prova, in Quotidiano Giuridico, 15.11.2022. Per una disamina più approfondita della riforma dell’art. 4-bis, in un’ottica critica, v. S. Metrangolo, ‘E quindi uscimmo a riveder le stelle’: l’ergastolo ostativo e il diritto (negato?) alla speranza di uscire dal carcere dopo il d.l. 31 ottobre 2022, n. 162 e la relativa legge di conversione, in Arch. pen., fasc. 1, gennaio-aprile 2023, pp. 81-96. L’A. conclude: «La via della collaborazione sembra dunque, tuttora, la via maestra da percorrere per il condannato che ambisca a uscire dal carcere e a dismettere le scomode vesti del “ribelle sociale”» (p. 95).

[26] Basti pensare alle vicende della legge c.d. spazzacorrotti, introdotta come panacea di tutti i mali della società italiana, con la quale nel catalogo di cui all’art.4-bis ord.penit. erano finiti molti reati contro la pubblica amministrazione, poi esclusi dalla l. 30 dicembre 2022, n. 199.

[27] È stato argutamente osservato come l’art. 4-bis ord.penit. abbia «perso la connotazione, che aveva in origine, di strumento specificamente finalizzato al contrasto alla criminalità organizzata, per trasformarsi in uno strumento politico funzionale a placare l’allarme sociale attraverso la creazione di percorsi penitenziari intramurari, e perciò percepiti come ‘sicuri’, da applicare a ‘tipi di autore’, considerati di volta in volta come i più pericolosi per la società» (A. Della Bella, op. cit., p. 93).

[28] Ivi, p. 96.

[29] Per un commento alla sentenza Viola c. Italia, già richiamata, v. F. Fiorentin, Il caso Viola n. 2. L’ergastolo ostativo e la tutela della dignità umana, in E. Dolcini et alii, op. cit., pp. 67-86. La Corte Europea dei Diritti dell’Uomo già da tempo ha definito trattamenti inumani o degradanti tutte quelle condotte che producono lesioni particolarmente gravi della dignità umana perché capaci di instillare nell’individuo sentimenti di paura, di angoscia e di inferiorità, atti ad umiliarlo ed eventualmente a fiaccarne la resistenza fisica e morale (v. Corte EDU, sent. 18. 1.1978, Irlanda c. Regno Unito, Serie A/25, § 167).

[30] Tesi sostenuta anche da autorevole dottrina, che parla di “ricatto psicologico” poiché «la scelta tra collaborare e non collaborare avviene sotto la forte pressione psicologica dell’alternativa tra segregazione perpetua e possibilità di tornare liberi» (G. Fiandaca, Sì: l’Europa fa bene a ricordare che ogni delinquente è potenzialmente capace di miglioramento grazie a interventi di tipo rieducativo, in Il Foglio, 10.10.2019, ora in Id., Giustizia penale e dintorni. Dieci anni di interventi sul Foglio, Bologna, 2022, pp. 183-184).

[31] V., a titolo di es., S. Ardita, Intervento, in Opinioni a confronto. Il ‘carcere duro’ tra efficacia e legittimità, in Criminalia, 2007, pp. 249-262.

[32] Convinzione ribadita, da ultimo, in S. Ardita, Al di sopra della legge. Come la mafia comanda dal carcere, Milano, 2022, p. 89, ove si legge: «È quasi impossibile che un capomafia che non ha collaborato possa cambiare vita».

[33] M. Pavarini, Intervento, in Opinioni a confronto, cit., p. 265.

[34] L. Cesaris, Art. 41-bis. Situazioni di emergenza, in F. Della Casa, G. Giostra, Ordinamento penitenziario commentato, Milano, 6ª ed., 2019, p. 541. Cfr. anche T. Padovani, La pena carceraria, Pisa, 2014, ove si legge: «Si tratta di una variante della tortura, una variante soave. Io ti prospetto, anziché un dolore, un premio, e naturalmente col premio sollecito atteggiamenti, reazioni, collaborazioni della cui validità e fondatezza in realtà non ho sempre la possibilità di rendermi conto, e che somigliano da vicino ai risultati che si ottenevano con la tortura. Quindi la soave inquisizione. […] il sistema del 41-bis è costruito in modo tale che se non ti penti, cioè se non collabori, non potrai mai demolire la capacità di collegamento con l’organizzazione criminale» (pp. 332-333). Pur valorizzando tale aspetto rilevante della ‘inquisizione soave’, non va sottovalutato, tuttavia, il portato di sofferenze fisiche e psichiche che il regime di cui all’art. 41-bis ord.penit. scarica sul detenuto. Non c’è, dunque, soltanto il ‘premio promesso’, ma anche il surplus di concreta sofferenza inflitta col ‘regime differenziato’.

[35] L. Tescaroli, Pentiti. Storia, importanza e insidie del fenomeno dei collaboratori di giustizia, Soveria Mannelli, 2023, pp. 11, 95. L’Autore, in altri luoghi della pubblicazione, si lamenta della più recente giurisprudenza della Corte EDU e della Corte costituzionale per il loro lavoro di «progressiva erosione della legislazione antimafia» (p. 96).

[36] Entrambi citati in S. D’Elia, M. Turco, Tortura democratica. Inchiesta su “la comunità del 41 bis reale”, Venezia, 2002, p. 28. Il Dott. Maritati, all’epoca relatore presso la Commissione parlamentare d’inchiesta sul fenomeno della criminalità organizzata mafiosa o similare, in vista della riforma dell’art. 41-bis ord.penit., l’8 luglio 2002 ribadiva tale posizione: «La definitività dell’istituto avrebbe… effetto positivo di incentivazione di possibili collaborazioni con la giustizia proprio da parte di chi a quel regime sarebbe destinato, permanendo i suoi collegamenti con la criminalità», sottolineando anche la funzione intimidatoria dello stesso, snaturandone del tutto natura e fine, che dovrebbe essere la tutela della sicurezza esterna al carcere (v. la relazione di A. Maritati trascritta nel Resoconto stenografico della 20ª seduta lunedì 8 luglio 2002 della citata Commissione, p. 17).

[37] Dichiarazione riportata in Comitato europeo per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti inumani o degradanti (CPT), Rapport au Gouvernement de l’Italie relatif à la visite effectuée par le Comité européen pour la prévention de la torture et des peines ou traitements inhumains ou dégradants (CPT) en Italie du 22 octobre au 6 novembre 1995, al § 93, pag. 37 (reperibile in www.cpt.coe.it).

[38] V. S. Ardita, Ricatto allo stato, Milano, 2011, p. 145.

[39] Intervista pubblicata in S. Curatolo, Ergastolo ostativo. Percorsi e strategie di sopravvivenza, Soveria Mannelli, 2022, p. 53. Lo stesso autore, ergastolano ostativo, nel suo bel libro “autoetnografico”, racconta di come sia stato sollecitato a collaborare con la giustizia da appartenenti alle forze dell’ordine durante alcuni colloqui predisposti da questi ultimi (v. p. 65).

[40] R. Indelicato, Cinque anni, un mese e venti giorni, in P. De Feo (a cura di), Le Cayenne italiane, op. cit., pp. 53-54.

[41] B. Labita, La maglietta strappata, in P. De Feo, op. cit., p. 60.

[42] V. l’intervista rilasciata a Dina Lauricella, in R. Di Gregorio, D. Lauricella, Dalla parte sbagliata. La morte di Paolo Borsellino e i depistaggi di Via D’Amelio, Roma, 2014, pp. 33-54.

[43] S. D’Elia, Prefazione a N. Dinoi, Dentro una vita…, op. cit., p. 13.

[44] Cfr. S. D’Elia, M. Turco, op. cit., pp. 95-289.

[45] A. Cospito, Dichiarazione di Alfredo Cospito all’udienza di riesame per le misure cautelari dell’operazione ‘Sibilla’, in Archivio Primo Moroni, Calusca City Light, Csoa Cox 18 (a cura di), Pensare l’impensabile, tentare l’impossibile. A fianco di Alfredo, contro l’ergastolo e il 41 bis, Milano, 2023, p. 23.

[46] Esse sono dettate dall’art. 41-bis, co. 2-quater ord.penit. Di recente la Corte costituzionale si è espressa sulla disciplina prevista dal co. 2-quater, lett. b), relativa ai colloqui, che prevede di attrezzare i locali destinati ai colloqui visivi in modo da impedire il passaggio di oggetti. Il DAP a tal fine predispone sale divise da vetri a tutta altezza; tuttavia, la Corte costituzionale, con la sentenza n. 105/2023, ha escluso che tale modalità vada interpretata come l’unica soluzione percorribile, negando anche ogni automatismo nell’esclusione dei minori ultradodicenni a sostenere colloqui con contatto fisico diretto col genitore/nonno/a detenuti.

[47] In dottrina tale disposizione è stata giustamente definita una norma in bianco, data la sua genericità, ulteriormente ampliata dall’utilizzo dell’avverbio “principalmente”, che apre la possibilità di intervento restrittivo anche per altre motivazioni, non strettamente legate alle esigenze di impedire i contatti con l’esterno. Cfr. L. Cesaris, op. cit., p. 548.

[48] V. l’audizione del Dott. Giovanni Tinebra, pubblico ministero, all’epoca dei fatti Direttore Generale del Dipartimento dell’Amministrazione penitenziaria, riprodotta nel resoconto stenografico della seduta della Commissione antimafia dell’8.7.2022, cit., p. 46. Va notato che, coerentemente con quanto lamentato sull’anomalia di Secondigliano (Napoli), nel corso degli anni la relativa Casa di reclusione è stata sottratta al circuito dell’art. 41-bis, tanto che oggi il carcere più a Sud è quello di Roma-Rebibbia. Si noti, per giunta, che il disegno originario del legislatore è ancora più preciso, prevedendo l’art. 41-bis, comma 2-quater ord.penit. una preferenza esplicita per i penitenziari ubicati nelle ‘aree insulari’, che rendono ancora più difficoltosi e costosi i viaggi dei familiari. Si pensi alla Sardegna.

[49] Si adduce solitamente anche la necessità di tutela del personale di sicurezza che altrimenti potrebbe subire pressioni locali. Motivazione quantomeno bislacca, considerato che nelle sezioni speciali destinate all’art. 41-bis ord.penit. la custodia è garantita da un reparto specializzato del Corpo della Polizia Penitenziaria quale è il GOM e dai suoi reparti locali (ROM) (art. 41-bis, comma 2-quater ord.penit.).

[50] L’importanza dell’affettività per i detenuti, soprattutto per quelli di lungo corso e per gli ergastolani, a maggior ragione se ristretti in regime differenziato, è raccontata da alcuni di essi in F. De Carolis (a c. di), Urla a bassa voce, Viterbo, 2012, pp. 67-74.

[51] Si tratta di una costante nei racconti dei detenuti sottoposti alla disciplina di cui all’art. 41-bis ord.penit. sentiti durante l’inchiesta condotta da S. D’Elia, M. Turco, op. cit., pp. 95-289 nonché nelle lettere pubblicate in Camera Penale di Roma, op. cit., pp. 49-92. Ciò è tanto più vero tenuto conto che la maggior parte dei detenuti nel predetto regime differenziato proviene dalla Campania, dalla Sicilia e dalla Calabria, per cui i familiari devono sostenere viaggi di migliaia di chilometri tra andata e ritorno, con i relativi costi, per poter svolgere un colloquio di un’ora.

[52] Quella dell’allontanamento abissale dei “nemici” dai luoghi di provenienza è una pratica politica di “guerra”, finalizzata a spezzare legami familiari e di solidarietà. Si pensi ad es. alle esperienze dei prigionieri politici baschi, smistati a centinaia/migliaia di chilometri dai luoghi di origine, quando non “deportati” in altri Paesi, per cui i familiari sono costretti a sopportare viaggi lunghi, costosi e necessariamente rari per incontrarli. V. sul punto la testimonianza diretta di A. Etxegarai, Ritornare a Sara. Testimonianza di un deportato basco, Roma, 2002.

[53] La Corte costituzionale, nel corso degli anni, dopo un iniziale periodo di maggiore timidezza, è intervenuta più volte a censurare quantomeno le restrizioni più stridenti col dettato costituzionale, pretendendo una relazione funzionale di stretta necessità tra le esigenze di sicurezza e le limitazioni imposte. V., ad es., le sentenze della Corte cost. n. 351/1996 e n. 97/2000.

[54] Debordando anche dalle soglie di “dolore e sofferenze” connaturate fisiologicamente alle sanzioni legittime come indicate dall’art. 1, ultimo periodo della citata Convenzione contro la tortura.

[55] N. Amato, I giorni del dolore. La notte della ragione. Stragi di mafia e carcere duro, Milano, 2012, p. 170.

[56] Ivi, p. 172. In maniera ancora più precisa, proseguendo nel ragionamento, l’Autore paventa la riconducibilità alla tortura di simili condizioni di detenzione qualora venissero imposte per provocare la collaborazione con la giustizia. Un vero e proprio obiettivo “inconfessabile” (ivi, pp. 172-173).

[57] Ivi, pp. 194-195.

[58] Garante Nazionale dei diritti delle persone private della libertà personale, Rapporto tematico sul regime detentivo speciale ex articolo 41-bis dell’Ordinamento penitenziario, Roma, 20.3.2023, p. 30.

[59] Il tutto in violazione dell’art. 6, co. 1 ord. penit., stando alla quale «I locali nei quali si svolge la vita dei detenuti e degli internati devono essere di ampiezza sufficiente, illuminati con luce naturale e artificiale in modo da permettere il lavoro e la lettura; areati, riscaldati per il tempo in cui le condizioni climatiche lo esigono, e dotati di servizi igienici riservati, decenti e di tipo razionale».

[60] La spersonalizzazione ulteriore, in alcuni casi, si persegue con il cambio improvviso e frequente delle celle. Questa pratica è testimoniata da Salvatore Curatolo: «Ogni due o tre giorni ti facevano cambiare stanza senza un reale motivo, ma solo per non lasciarti tranquillo. […] molte volte succedeva che, mentre eri ai passeggi, prendessero le tue cose e le portassero in un’altra cella» (S. Curatolo, op. cit., pp. 78-79).

[61] Garante Nazionale, op. cit., p. 30.

[62] Ivi, p. 33.

[63] Ib. Condizioni per nulla mutate nel corso dei decenni di applicazione del regime di 41-bis ord penit., se è vero che già più di venti anni fa numerosi detenuti testimoniavano su tale particolare tema con simili espressioni di denuncia: «In questi 10 anni di 41 bis è venuta meno la vista», «Stiamo diventando ciechi per via delle barriere di plastica alle finestre» (v. S. D’Elia, M. Turco, op. cit., p. 172). Altre testimonianze dello stesso tenore si trovano nelle lettere dei detenuti sottoposti all’art. 41-bis ord.penit. raccolte in Camera Penale di Roma, op. cit., pp. 49-92.

[64] Garante Nazionale, op. cit, p. 33.

[65] È stato osservato come vi sia una vera e propria costruzione scientifica dei gruppi di socialità di cui all’art. 41-bis ord.penit., finalizzata alla riduzione al minimo degli scambi interpersonali: solitamente un detenuto è molto anziano e un altro ammalato, per cui non abbandonano mai la cella; dunque la condivisione dell’aria e della socialità si riduce ad una relazione a due persone (v. S. Curatolo, op. cit., p. 82). La possibilità di comporre i gruppi in questo modo è agevolata dal fatto che oramai, tenuto conto della presenza di numerosi detenuti in regime di art. 41-bis ord.penit. da molti anni, è più facile trovare quelli particolarmente anziani e/o ammalati. In merito a tale pratica, le parole di un detenuto suonano come un epitaffio: «Magari capiti in gruppo con persone anziane, magari stanche e ammalate, allora diventa un ospizio, un’attesa per il viaggio finale» (cit. in E. Kalica, La pena di morte viva. Ergastolo, 41 bis e diritto penale del nemico, Milano, 2019, p. 80).

[66] E. Kalica, op. cit., pp. 97-98.

[67] Ivi, pp. 85-86.

[68] Spesso, peraltro, il silenzio è imposto anche nei rapporti tra detenuti e agenti del GOM, i quali assumono soli compiti di controllo e repressione e la cui “cultura dell’interlocuzione”, d’altronde, ebbe modo di manifestarsi in tutta la sua brutalità nella caserma di Bolzaneto, a Genova, durante il G8 del 2001. Tale prassi del silenzio veniva censurata già più di venti anni fa in un rapporto del CPT del 2000 (cit. in A. Della Bella, op. cit., p. 358, nota 99).

[69] E. Kalica, op. cit., p. 119.

[70] A. Caruso, Annientato dal carcere e dal 41 bis, sono salvo grazie allo studio, in Nessuno Tocchi Caino, Pena di morte e morte per pena, Roma, 2023, p. 196.

[71] D. De Cesare, op. cit., p. 21.

[72] M. La Torre, in M. La Torre, M. Lalatta Costerbosa, Legalizzare la tortura?, op. cit., pp. 126.

[73] La circolare del DAP del 2017, già richiamata, prevede in teoria il ricorso alla perquisizione col metal detector; solo in caso di «comprovate ragioni di sicurezza», da dover annotare in una relazione di servizio, si dovrebbe procedere a quella manuale (art. 16). Dette prescrizioni sono ribadite anche nell’art. 25.1.

[74] V. le testimonianze di detenuti riportate in E. Kalica, op. cit., pp. 72, 82.

[75] L’annotazione di tale pratica è riportata ivi, pp. 68-69.

[76] Nel lavoro etnografico condotto da Elton Kalica, in merito si osserva: «… la corrispondenza [è] una fonte di frustrazione… la pratica della censura ha un effetto demotivante e demoralizzante sui detenuti al punto da costringerli inizialmente a snaturare il linguaggio nei rapporti affettivi» (ivi, p. 69).

[77] La seguente testimonianza di un detenuto è particolarmente eloquente: «Alla mattina ti facevi il caffè perché veniva il lavorante e ti portava le tue cose. Alle sette di sera se ne andavano, il fornello, la caffettiera… Perciò tu dopo le otto di sera se ti faceva male la testa e ti volevi fare una camomilla, non te la potevi fare… cosa c’entra questo con la pericolosità? Erano tutte secondo me cose per fiaccarti e per andare al pentimento, io lo dico non è che mi nascondo» (cit. in E. Kalica, op. cit., p. 76). D’altronde, prima ancora che la Corte costituzionale intervenisse per dichiarare l’illegittimità del divieto di cucinare cibi in cella (sent. n. 186/2018), in caso di uso “improprio” del pentolino (far bollire, ad es., la cipolla invece dell’acqua) veniva applicata una sanzione disciplinare (v. E. Kalica, op. cit., p. 77). Sul punto si legga anche la testimonianza diretta di un detenuto a Rebibbia: «per aver riscaldato le melenzane che mi avevano dato la sera precedente e aggiungendo solo due spicchi d’aglio, sono stato rapportato con sanzione disciplinare e isolato per 5 giorni» (in Camera Penale di Roma, op. cit., p. 87). Ancora di recente, la S.C. ha ribadito che i limiti di orario imposti per cucinare in cella costituiscono un legittimo esercizio della potestà riconosciuta all’Amministrazione penitenziaria ai sensi dell’art. 36, lett. b) d.p.r. 30 giugno 2000, n. 230 (v. Cass., Sez. I, sent. 24 gennaio 2024, n. 7886. Le fasce orarie per poter cucinare in cella, nel caso di specie, erano le seguenti: 11:30-13:00 e 16:30-18:30). Anche per poter scambiare oggetti tra membri dello stesso gruppo di socialità (ad es., zucchero, caffè, prodotti per l’igiene personale o per la pulizia della cella) si è dovuta attendere un’altra sentenza della Corte costituzionale (n. 97/2000). Ad ogni modo, lo scambio dei cibi cotti, oggi possibile, è sottoposto ad una snervante procedura burocratica di preventiva comunicazione all’Amministrazione e successiva attestazione di ricezione, con l’evidente scopo di disincentivarlo. La perversione burocratica del controllo maniacale anche dei gesti più inoffensivi si riscontra in alcune limitazioni spiegabili esclusivamente in un’ottica di pura afflittività: un detenuto sottoposto all’art. 41-bis ord.penit., ad es., raccontava di come l’amministrazione dell’istituto di pena consentisse di acquistare i baci Perugina solo per regalarli ai familiari in occasione dei colloqui e non per consumo personale (v. la testimonianza di Paolo Amico in S. D’Elia, M. Turco, op. cit., p. 103). Di recente, invece, è addirittura intervenuta la Corte di Cassazione a vietare il possesso di una borsa frigo rigida in cella (richiesta in sostituzione di una borsa frigo morbida per una migliore conservazione del cibo) (v. D. Aliprandi, Cassazione: al 41 bis vietata la borsa frigo per conservare il cibo, in Il Dubbio, 30.8.2023). In altra occasione, il giudice di legittimità ha dichiarato legittimo il diniego di utilizzo del frigorifero della sezione di assegnazione per la conservazione di cibi freschi e congelati, in luogo delle borse termiche con tavolette refrigeranti, ammesse all’interno della cella, trattandosi di disposizione organizzativa che non lede il diritto alla sana alimentazione del detenuto (Cass., Sez. I, sent. 9 febbraio 2023, n. 5691).

[78] A ciò si aggiunga che spesso il “sindacato” sul libro da poter acquistare o meno è particolarmente invasivo (oltre che privo di ragione alcuna, se non quella puramente afflittiva). Tra i numerosi provvedimenti adottati dal DAP e avallati dalla magistratura di sorveglianza, ad es., vi è il divieto relativo ad alcuni libri di diritto (a firma della prof.ssa Marta Cartabia, già Presidente della Corte costituzionale, e del prof. Adolfo Ceretti), per evitare di porre il detenuto in posizione di privilegio (grazie ai suoi studi!) agli occhi degli altri detenuti e, dunque, aumentarne il carisma criminale (l’accrescimento culturale, da elemento del trattamento degrada a fattore di pericolosità; a dimostrazione di come l’obiettivo sia la regressione delle persone sottoposte a tale regime). In altri casi, invece, sono state vietate le riviste pornografiche, considerate non un diritto dal DAP. Entrambi gli episodi sono riportati da M. Brucale, Non puoi sfogarti né desiderare, anche pensare è proibito al 41 bis, in Nessuno Tocchi Caino, op. cit., pp. 173-174.

[79] Ad Alfredo Cospito è stata vietata persino la detenzione di alcune fotografie che ritraggono i genitori, tanto da essere stato costretto ad attivare i rimedi giurisdizionali. V. F. Cimini, Tolte di nuovo a Cospito le foto del padre e della madre, in Il Dubbio, 13.7.2023. In un altro caso, la Corte di Cassazione ha dichiarato legittimo il divieto di far realizzare non più di una fotografia all’anno con i propri congiunti, non incidendo tale limitazione sul diritto soggettivo all’affettività, ma solo sulle modalità del suo esercizio affidate alla discrezionalità dell’Amministrazione penitenziaria (v. Cass., Sez. I, sent. 10 gennaio 2023, n. 443: nel caso di specie si trattava della richiesta di un detenuto di scattare almeno quattro fotografie all’anno con la figlia minorenne).

[80] La Corte di Cassazione, inoltre, in più occasioni ha dichiarato la legittimità del diniego di autorizzazione all’acquisto e alla detenzione di compact disk e dei relativi lettori digitali, qualora la messa in sicurezza dei dispositivi e supporti non sia possibile per l’incidenza sull’organizzazione della vita dell’istituto in termini di impiego di risorse e materiali (v. per tutte: Cass., Sez. I, sent. 23 maggio 2023, n. 35687). I parametri utilizzati dalla S.C. sono talmente ampi e vaghi da riconoscere, in pratica, in capo all’Amministrazione penitenziaria, un potere decisionale insindacabile.

[81] Cit. in A. Della Bella, op. cit., p. 357, nota 97.

[82] La sospensione in tutto o in parte dell’applicazione delle regole trattamentali (ex art. 41-bis, co. 2 ord.penit.) entra in stridente contraddizione con il presupposto per la concessione della liberazione anticipata (l’aver «dato prova di partecipazione all’opera di rieducazione» ex art. 54 ord.penit.). A rigor di logica, dunque, ai detenuti sottoposti al regime differenziato non potrebbe essere riconosciuta alcuna liberazione anticipata, poiché impossibilitati a svolgere qualsiasi percorso rieducativo (che ai sensi dell’art. 1, co. 2 ord.penit. è – dovrebbe essere – individualizzato). Contraddizione colta limpidamente dal Procuratore nazionale antimafia, il quale, audito alla Camera dei deputati sulla proposta di legge della liberazione anticipata speciale, ha evidenziato la sua insensatezza per i detenuti sottoposti al regime differenziato, tenuto conto che per loro non è previsto alcun trattamento penale (v. M. Brucale, Lo ammette anche Melillo: per i detenuti al 41 bis la rieducazione non si fa, in Domani del 19.4.2024).

[83] E. Cataldo, Il regime del 41 bis O.P. e la rieducazione penitenziaria, Roma, 2023. p. 34, al quale si rimanda per approfondire il tema della rieducazione negata in regime di art. 41-bis ord.penit. L’A. osserva: «Un contesto rigido e disciplinato come il regime previsto al 41 bis o.p. non innesca e non instilla alcuna intenzionalità nell’avvio di un iter pedagogico, ma rafforza l’accettazione di una condizione statica e preordinata, con i conseguenti effetti di immobilismo anche sul piano cognitivo, affettivo e relazionale, oltre che nella struttura del pensiero» (p. 68). Ancora: «In assenza di percorsi rieducativi il condannato resta confinato in un passato senza tempo, nella negazione del presente e del futuro e attraverserà un’esistenza congelata al soliloquio e priva di impulsi» (p. 49).  Il carcere, dunque, in questo caso assume la sola finalità contenitiva, di pura neutralizzazione, in violazione dell’art. 27, co. 3 Cost.

[84] Sono numerosi, infatti, i detenuti sottoposti all’art. 41-bis ord.penit. da più di venti anni. Sull’effetto “imbutiforme” di detto regime speciale v. A. Della Bella, op. cit., pp. 196-201 e i due Rapporti tematici del Garante Nazionale dei detenuti del 2019 e 2023.

[85] Il provvedimento applicativo originario del regime speciale ha durata di quattro anni e i rinnovi hanno durata biennale (v. art. 41-bis, co. 2-bis ord.penit.).

[86] Per un’introduzione alla materia, v. S. Shalev, A sourcebook on solitary confinement, Londra, 2008. Le numerose limitazioni imposte al detenuto in regime di isolamento producono effetti sulla psiche e sulla personalità. Conseguenze illustrate in innumerevoli studi oramai da lungo tempo. Già sul finire degli anni ’70 veniva osservato: «In isolamento, al prigioniero viene a mancare la possibilità di attualizzare una delle caratteristiche precipue dell’uomo: quella di essere trasformatore dell’ambiente mediante l’azione e guidato da un progetto. Il rapporto tra l’individuo e l’ambiente è contemporaneamente e in modo intrecciato il rapporto tra il fisico dell’uomo e la materialità dell’ambiente e tra lo psichico dell’uomo e le qualità vitali dell’ambiente. In una stanza piccola bianca disadorna neonilluminata isolata, la neurofisiologia della percezione è come sofferente, si atrofizza; ma la vera sofferenza, l’umana sofferenza, sta nell’impossibilità di intenzionare la percezione intesa come l’atto attraverso il quale la coscienza si colloca in presenza di un soggetto spazio-temporale. Mancano gli oggetti per fare progetti. Il vissuto percettivo è lacerato, frammentato. Il fatto che i sensi non siano in una certa qual maniera nutriti dal flusso di stimoli esterni ed interni, li rende inutili, li fa morire. Perciò la vittima disorientata, isolata e privata delle sensazioni si avvia verso una morte subdola che non sarà “sentita”» (v. S. Mistura, op. cit., p. 36).

[87] Alcune perizie disposte durante i processi ai militanti della RAF, ad es., provarono come un «prolungato isolamento sociale porta gravi danni fisici alle persone […]: difficoltà di concentrazione, disturbi nella coordinazione dei movimenti e nell’orientamento, amnesie, restrizione della capacità sensitiva, difficoltà di articolazione, scarsa capacità di prestazione e rapido esaurimento, crescente stanchezza, senso di spossatezza, svenimenti, emicranie, rilassatezza, fame. […] considerevole perdita di peso, diminuzione della massa muscolare, particolarità nello svolgersi dei movimenti, costante abbassamento dei valori della pressione sanguigna, talvolta molto bassi, accompagnata da una crescente frequenza delle pulsazioni in particolare modo nello stare in piedi e dopo uno sforzo, ed anche significative anomalie nell’elettrocardiogramma sempre nelle stesse condizioni. […] in tutti i detenuti sono stati riscontrati gravi disturbi nel funzionamento dei centri nervosi centrali che, tramite il sistema neurovegetativo, guidano i singoli organi che influiscono sulla capacità di sostenere il dibattimento». Ancora, su un altro detenuto vennero riscontrati «disturbi della memoria, in particolare della memoria temporale, torpore, disturbi nella comprensione delle parole e delle proposizioni, nebbia davanti agli occhi, continuo ronzio alle orecchie, amenorrea» (v. la scheda dei Risultati delle perizie medico-legali eseguite a Stoccarda e ad Amburgo, in Crit. dir., n. 7-8/1976, pp. 138-139). Sulla ‘deprivazione sensoriale’ come forma di tortura e sulle sue conseguenze psicofisiche sui corpi dei detenuti, v. anche S. Teuns, La tortura della ‘privazione sensoriale’, in Crit. dir., cit., pp. 134-137. Un confronto più approfondito, impossibile in questa sede, consentirebbe di evidenziare l’estrema similitudine se non quasi la totale sovrapponibilità delle discipline osservate nelle carceri speciali della RFT contro i “nemici interni” con il regime dell’art. 41-bis ord. penit. nostrano. V., ad es., anche Aa.Vv., La morte di Ulrike Meinhof. Rapporto della Commissione internazionale d’inchiesta, Napoli, 1979, pp. 15-21 sulle condizioni di detenzione. Gli es. potrebbero moltiplicarsi, basti pensare alle esperienze dei prigionieri politici irlandesi nelle carceri inglesi in quegli stessi anni, ove si consumarono le prime sperimentazioni delle tecniche di ‘tortura senza contatto’ contro i detenuti (v. A. Puggioni (a cura di), Tortura in Irlanda, Roma, 1972).

[88] Un decano di questi studi, il Prof. Stefano Ferracuti, ha osservato come i regimi speciali simili a quello previsto all’art. 41-bis ord.penit. producano «forme marcate di somatizzazioni […] indicative di profonda insicurezza personale […] il che rende la persona più suscettibile allo sviluppo di disturbi psichici», comportando, detti regimi, «una seria possibilità di sviluppo di sintomi psichiatrici, anche gravi, ed un generale indebolimento della personalità», collegato anche alla perdita pressoché totale dell’autonomia; v. S. Ferracuti, Conseguenze psicologiche e psichiatriche dei regimi detentivi di massima sicurezza, in Camera Penale di Roma, op. cit., pp. 41-42.

[89] Quello italiano è un caso a parte. Il sovraffollamento strutturale e le pessime condizioni di detenzione stanno provocando una vera e propria ecatombe negli istituti penitenziari, che vedono crescere il numero di suicidi a ritmi impressionanti e anche tra le fasce di età più basse. Al 21.8.24 dall’inizio dell’anno si sono già consumati 67 suicidi in carcere.

[90] Per un approfondimento di questi temi e per la relativa letteratura scientifica, v. S. Shalev, op. cit., pp. 15-23. Sarebbe a tal proposito interessante avere dati puntuali e aggiornati sulla diffusione degli psicofarmaci nelle sezioni destinate ai detenuti sottoposti al regime di cui all’art. 41-bis ord.penit. e tra gli ergastolani ostativi. Se la loro diffusione è oramai amplissima persino tra i detenuti ‘comuni’, tanto da far parlare di vera e propria ‘sedazione di Stato’, non è peregrino immaginare tassi elevatissimi di consumo tra i detenuti sottoposti ai regimi speciali. Sul tema degli psicofarmaci nei penitenziari italiani, v. A. Giunti, In carcere psicofarmaci a pioggia: per riprendermi ci ho messo 3 anni, in L’Espresso, 1.1.2016; Id., Psicofarmaci dietro le sbarre: così si annullano gli esseri umani, in L’Espresso, 1.2.2016; A. Scandurra, L’Osservatorio di Antigone nelle sezioni femminili d’Italia, in Antigone, Dalla parte di Antigone. Primo rapporto sulle donne detenute in Italia, Roma, 2023, il quale osserva: «Fanno regolarmente uso di psicofarmaci addirittura il 63,8% delle donne presenti, contro il “solo” 41,6% degli uomini» (p. 216). Denunce del medesimo tenore provengono dai detenuti. Tra le numerose testimonianze in tal senso, v. S. Curatolo, op. cit., il quale osserva: «Psicologi e psichiatri in carcere risolvono troppo rapidamente i disturbi delle persone con un medicinale» (p. 69); oppure quella di un ergastolano “ostativo”: «Per i mali psichiatrici…: litri di Valium e cocktail di psicofarmaci. Chi sta male non è una persona da curare ma è uno che dà fastidio» (denuncia riportata in F. De Carolis (a c. di), op. cit., p. 103).

[91] Non risulta condivisibile la presa di posizione netta del Garante nazionale dei detenuti, il quale – dopo aver qualificato come ‘pene corporali’ numerose limitazioni e condizioni di vita in regime di art.41-bis ord.penit.–, in un’intervista al principale quotidiano italiano, pur sostenendo la necessità di eliminare molti eccessi del regime speciale, conclude nel seguente modo: «Un sistema che interrompa le connessioni nella criminalità organizzata è doveroso e chi parla di tortura non sa ciò che dice» (v. G. Buccini, 41 bis, necessità ed eccessi di una normalità abnorme, in Corriere della Sera dell’11.12.2023). Una presa di posizione che sembra più “ideologica” che analitica.

[92] F. Palazzo, Prefazione a E. Dolcini et alii, op. cit., p. x.

[93] La prevenzione generale, che attiene tipicamente alla fase della comminatoria della pena, dovrebbe ridursi ai minimi termini nella sua fase esecutiva. In questo caso, invece, essa si riespande per scopi tutti politici, a detrimento della prevenzione speciale e della finalità rieducativa della pena. Sulle funzioni della pena secondo le fasi della sua dinamica, nella manualistica, v. C. Fiore, S. Fiore, Diritto penale. Parte generale, Torino, UTET, 2016, 5^ ed., pp. 63-66. Sulla necessità, invece, di informare tutto il ‘discorso sulla pena’, in ogni sua fase, al principio rieducativo (rectius: di ‘reinserimento sociale’), v. S. Moccia, Il diritto penale tra essere e valore. Funzione della pena e sistematica teleologica, Napoli, 1992, soprattutto il cap. 4. Sul piano giurisprudenziale, paradigmatica di una simile impostazione, è la sentenza della Corte costituzionale del 26 giugno 1990, n. 313.

[94] La centralità del carcere è stata ribadita di recente dal Ministro della Giustizia, la cui principale opzione di politica penitenziaria consiste nella costruzione di nuove carceri in una prospettiva di medio termine (v. l’intervento tenuto dal Ministro Carlo Nordio all’inaugurazione dell’anno giudiziario organizzato dall’Unione delle Camere Penali Italiane, tenutosi a Roma lo scorso 10.2.2024 – visionabile sul canale YouTube dell’UCPI). Coerentemente con tale impostazione, l’art. 4-bis del d.l. 4 luglio 2024, n. 92, così come modificato dalla l. di conv. 8 agosto 2024, n. 112, prevede la nomina di un commissario straordinario per l’edilizia penitenziaria (con la finalità precisa di «far fronte alla grave situazione di sovraffollamento degli istituti penitenziari» – art. 4-bis, comma 1) che, tra gli altri compiti, ha quello di realizzare nuovi istituti penitenziari (art. 4-bis, comma 3, lett. a).