Il 41bis e la necessità di restare umani anche davanti l’orrore
La certezza della pena è fondamentale ma essa non può sfociare nella mera vendetta rancorosa, Anche davanti all’orrore dei crimini più odiosi dobbiamo tenere a mente il precetto biblico “nessuno tocchi Caino” e quello ben più laico di Vittorio Arrigoni, giornalista pacifista ucciso in Palestina: “restiamo umani”.
Nadia Desdemona Lioce sarà a breve processata per “turbamento alla quiete carceraria”. Avrebbe disturbato infatti, “con più azioni esecutive di un medesimo disegno criminoso, mediante schiamazzi o rumori, provocati sbattendo ripetutamente una bottiglia di plastica contro le inferriate della propria cella,” le occupazioni o il riposo delle persone detenute nel suo reparto nella casa circondariale di L’Aquila.
Per chi non lo ricordasse, la Lioce è una terrorista italiana, componente della Organizzazione Armata di Sinistra Nuove Brigate Rosse- Nuclei Comunisti Combattenti, autrice di rapine e attentati e, soprattutto, degli omicidi dei giuslavoristi Massimo D’Antona e Marco Biagi, per i quali è stata condannata all’ergastolo. Nadia Desdemona Lioce non si è mai pentita né dissociata e da anni è sottoposta al regime di carcere duro, il cosiddetto 41bis.
Sottoposta al “carcere duro”, la brigatista lamenta una violenza psicofisica non potendo tenere in cella più di tre libri, trascorrendo le poche ore d’aria in totale solitudine, subendo perquisizioni a sorpresa e vedendo poco familiari e avvocati. Alla terrorista sarebbe insomma impedito di leggere, studiare, scrivere e persino parlare.
Il suo caso riapre il dibattito sull’opportunità, o meglio, sull’umanità del regime 41bis, unicum italiano. Introdotta nell’ordinamento penitenziario italiano all’indomani delle stragi di mafia degli anni novanta e inizialmente prevista come “soluzione temporanea” la norma è tuttora in vigore. Il 41bis è finalizzato ad ostacolare le comunicazioni tra i detenuti e le organizzazioni criminali operanti all’esterno e ad impedire qualsiasi contatto con eventuali membri detenuti. Esso prevede l’isolamento nei confronti degli altri detenuti e pernottamento in camera singola con divieto di accesso agli spazi comuni del carcere; un’ora d’aria limitata e in isolamento; sorveglianza speciale dalla polizia penitenziaria; limiti ai colloqui con i familiari ed avvocati; telefonate una volta al mese; censura della posta in entrata e in uscita; proibizione di tenere molti oggetti personali come penne o quaderni. Il carcere duro è applicabile ai detenuti che abbiano commesso delitti di associazione mafiosa, terrorismo nazionale e internazionale, induzione alla prostituzione minorile e produzione di materiale pedopornografico, sequestro di persona a scopo di estorsione, violenza sessuale di gruppo, tratta di esseri umani, acquisto e alienazione degli schiavi, associazione per delinquere finalizzata a contrabbando di tabacco o al traffico di sostanze stupefacenti e psicotrope. Il provvedimento può durare quattro anni e le proroghe due anni ciascuna.
Si tratta di delitti molto gravi, ma un regime penitenziario così duro appare sproporzionato. Amnesty International ha assimilato il carcere duro, in talune circostanze” a una tortura. Per lo stesso motivo un giudice statunitense ha negato l’estradizione in Italia di un detenuto. Inoltre, il 41bis sembrerebbe incompatibile con l’art. 27 della Costituzione italiana, secondo il quale “le pene non possono consistere in trattamenti contrari al senso di umanità e devono tendere alla rieducazione del condannato”, nonché con altre disposizioni internazionali in materia di diritti umani.
Tuttavia, sia la Corte Costituzionale che la Corte Europea dei diritti dell’Uomo hanno sempre ribadito la legittimità dell’art. 41bis. In particolare, la sentenza 349/1993 della Corte Costituzionale pur riconoscendone la “non felice formulazione” e affermando che “non si possono disporre trattamenti contrari al senso di umanità”, lo ha ritenuto costituzionalmente legittimo.
La Corte europea dei diritti dell’uomo di Strasburgo ha stabilito in diversi pronunciamenti che, in via generale, la disposizione in esame non viola i principi della Convenzione Europea dei diritti dell’uomo poiché si configura quale strumento necessario per interrompere definitivamente i legami tra i soggetti detenuti e le organizzazioni criminali, e non va al di là di quanto, in una società democratica, è necessario alla difesa dell’ordine e della sicurezza pubblica e alla prevenzione dei reati.
D’altronde, anche l’ergastolo, sebbene stridente con l’idea di rieducazione, è stato dichiarato legittimo. La Cassazione penale 33018/2012 ha ribadito la compatibilità della pena con l’art. 27 Cost. repubblicana e le norme sovranazionali di cui al l’art. 5 della Dichiarazione universale dei diritti dell’uomo del 10/12/19948, al l’art. 6 della Cedu, e all’art. 5, comma 1, n. 2, “poiché l’ergastolo, nella concreta realtà, a seguito della L. 25 novembre 1962, n. 1634 e dell’entrata in vigore dell’ordinamento penitenziario (L. 26 luglio 1975, n. 354, con succ. mod.), ha cessato di essere una pena perpetua e, pertanto, non può dirsi contraria al senso di umanità od ostativa alla rieducazione del condannato; e ciò non solo per la possibilità della grazia, ma altresì per la possibilità di un reinserimento incondizionato del condannato nella società libera, in virtù degli istituti del vigente diritto penitenziario”
Dunque, il 41bis, come l’ergastolo, è legittimo dal punto di vista giuridico. Tuttavia, dal punto di vista “umano” lascia alquanto perplessi. Nessuno nega che i delitti commessi dalla Lioce siano aberranti e che, giustamente, siano puniti con l’ergastolo. E lo stesso vale per i detenuti che hanno commesso gli altri efferati reati per il quale è previsto il regime di carcere duro. Non bisogna però farsi accecare dall’innegabile efferatezza dei reati commessi dalla Lioce perché si rischia di cadere nel giustizialismo più becero, nell'”occhio per occhio dente per dente”, assai simile alla pena di morte che giustamente l’Italia e l’Unione Europea hanno sempre fermamente condannato.
Roberta Condemi
da gas.social