L’otto marzo del 2020, in un momento molto particolare in cui l’attenzione generale era completamente rivolta all’emergenza coronavirus, nel giro, scoppia rivolte in diversi penitenziari italiani.
Nel giro di 72 ore morirono quattordici detenuti, in tre diverse carceri italiane: nove di loro erano detenuti del carcere di Modena, tre nel carcere di Rieti, uno nel carcere di Bologna.
Si chiamavano Slim Agrebi, Erial Ahmadi, Ali Bakili, Hafedh Chouchane, Ghazi Hadidi, Artur Iuzu, Lotfi Ben Mesmia, Salvatore Piscitelli, Abdellah Rouan, Carlo Samir Perez Alvarez, Marco Boattini, Ante Culic e Haitem Kedri.
Le carceri italiane arrivavano a marzo 2020 in uno stato già molto precario, come denunciato pochi mesi prima dal Comitato europeo per la prevenzione della tortura, un organo parte del Consiglio d’Europa. La pandemia e la paura che ne è conseguita hanno di fatto peggiorato la situazione: per evitare i contagi si sono ulteriormente ristrette le già risicate libertà disponibili, con la sospensione dei colloqui con i familiari in presenza, dei permessi di lavoro e di quelli premio, e in alcuni casi anche delle telefonate.
L’introduzione di queste limitazioni, la mancanza di una comunicazione chiara rispetto ai rischi causati dal virus, la consapevolezza di vivere in posti estremamente sovraffollati in un momento in cui era imposto il distanziamento fisico hanno scatenato rivolte in decine di istituti italiani.
Le indagini parlano di morti nel carcere di Modena per overdose da metadone. Una versione data per buona dalle istituzioni sin dalle prime ore, ma su cui con il passare del tempo si sono accumulati i dubbi.