Come ti invento i “pregiudicati” nell’inchiesta sul “Cara” di Mineo
- giugno 24, 2015
- in migranti cie, razzismo
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Dite che il processo mediatico imperversa? E avete ragione. E anzi c’è di più: perché l’ultima avveniristica degenerazione della nostra giustizia non riguarda solo il circuito perverso media-Procure. Ormai la ricerca dell’effetto, della suggestione, contagia le stesse strutture investigative. Non solo i pm dunque ma anche gli organi di polizia giudiziaria e i corpi dello Stato che conducono materialmente le indagini.
Se volete capire come funziona questa dinamica tremenda dovete seguire il filo che ha portato uno stimato medico catanese, Salvo Calì, nelle carte dell’inchiesta sul Cara di Mineo. Quella cioè condotta dalla Procura di Catania che vede indagati, tra gli altri, anche il sottosegretario dell’Ncd Giuseppe Castiglione e il solito onnipresente Luca Odevaine. Il Cara è un centro di accoglienza per immigrati. Uno snodo cioè importantissimo nella gestione dell’affare più delicato del momento, quello dell’assistenza a profughi e disperati. Bene, l’irregolarità dell’appalto per la gestione del centro in provincia di Catania è un’ipotesi della Procura etnea. Rilanciata con forza dal presidente dell’Autorità Anticorruzione Raffaele Cantone. Il quale continua a invocare il commissariamento della struttura. Sulla base di cosa? Del fatto che a giudizio suo e dei pm, Castiglione e Odevaine avrebbero ritagliato l’appalto «in modo sartoriale», cioè su misura, per la cordata di imprese cooperative che poi in effetti si è aggiudicata la gara. Della cordata fa parte anche il Consorzio Sisifo. Di cui appunto il dottor Calì è stato presidente per 18 anni, e più precisamente fino al 2012. «Le gare in realtà sono state tre: due le abbiamo vinte nel periodo in cui io ero ancora presidente, la terza sotto il mio successore. A mio giudizio tutte cristalline». Cosa ci sarebbe di anomalo, invece, secondo gli inquirenti? Il fatto che l’appalto sia stato assegnato secondo un meccanismo di accorpamento: anziché dividerlo in tante gare quante erano i diversi servizi da aggiudicare, si è cercato un unico soggetto (o associazione di soggetti) che potesse fornire in modo integrato tutte le attività. L’associazione di imprese di cui anche il Consorzio Sisifo fa parte aveva i mezzi e le articolazioni per acquisire la gestione globale del Centro immigrati, e c’è riuscita.
Ora, premesso che le accuse di Cantone e le ipotesi della Procura sono tutte da verificare, e visto che si è ben lontani dal farlo (d’altronde i processi davanti a un giudice terzo in Italia ci sono per questo, almeno per ora), è tornato utile, agli inquirenti, comporre un quadro che facesse il più possibile effetto. Allo scopo i carabinieri dei Ros hanno infilato nel loro rapporto tutto quanto potesse conferire almeno una certa aria da malaffare. In mancanza di meglio, anche informazioni non verificate. Come quella in cui a Salvo Calì sono stati attribuiti «precedenti di polizia». Strana definizione. Che i giornali, anche i due maggiori quotidiani del Paese, “Corriere della Sera” e “Repubblica”, hanno giustamente preso sul serio. E infatti venerdì 12 giugno hanno pubblicato servizi che riportavano anche l’eco di queste informative dei carabinieri, in cui Calì è stato definito «pregiudicato». Certo, se i carabinieri in un rapporto ufficiale consegnato alla Procura dicono che il medico catanese (peraltro non indagato per l’appalto di Mineo) ha «precedenti», a rigor di logica questo dovrebbe voler dire che si tratta di un «pregiudicato». Ma i Ros dicevano la verità? No. Hanno dato ai pm di Catania e all’opinione pubblica una notizia falsa: Calì ha un casellario giudiziario pulito. Mai una condanna, mai un giudizio. Quindi non è un pregiudicato. Ma ha almeno qualche indagine a suo carico? Neppure. E allora i Ros come si sono trovati il suo nome? Perché i colleghi dei Nuclei anti sofisticazione hanno trasferito loro degli appunti in cui il dottore catanese ricorreva come “direttore medico” dell’ospedale di Paternò, anni fa al centro di indagini della Procura per delle visite oculistiche. Calì non era stato indagato neppure. E tutta l’inchiesta è stata archiviata. Ma i Ros (e prima di loro i Nas) si erano preoccupati di verificare come fosse finita? Manco per sogno. Avevano dei nomi nelle loro banche dati e li hanno passati ai pm. In modo da “dare sostanza all’indagine”, diciamo. Secondo il principio della “suggestione“ che poi è lo stesso con cui i pm cercano di vincere i processi nei tribunali mediatici prima di arrivare a quelli veri. Gli investigatori, che si tratti di carabinieri o altri corpi, sono ormai stati contagiati. Cercano anche loro il colpo a effetto, in modo da confezionare report sostanziosi. Che poi nella “sostanza” non ci sia anche “verità”, è ormai faccenda che nel nostro processo penale comincia ad essere trascurabile.
Susanna Schimperna da Il Garantista