Assolto un medico che era stato accusato per la morte dell’operaio di Varese, l’inchiesta e il procedimento giudiziario su Giuseppe Uva ripartono da zero. Anche se tutti, in città, conoscono la verità.
L’ultima immagine che chiunque abbia seguito il processo sulla morte di Giuseppe Uva conserverà, è quella del PM Agostino Abate seduto al suo banco, mentre con ampi gesti delle braccia invita tutti i presenti a uscire dall’aula e a “andare in piazza”. Col tono sufficiente di chi si sente invaso nel proprio terreno di gioco – l’aula – dalla quale dopo anni di onorata carriera esce miseramente sconfitto.
Demolito completamente il suo impianto accusatorio, respinte per mesi tutte le eccezioni formali da lui avanzate, compreso il tentativo di ricusare i periti scelti dal tribunale o di dichiarare nulle le parti civili (che non avevano presentato richieste di risarcimento), ad Abate non era rimasto che esercitare una residua funzione di ordine pubblico, cacciando tutti con l’ausilio di due carabinieri: “andate in piazza”, continuava a ripetere sbracciando come rivolgendosi a un gregge di ottusi, il che equivaleva a un chiaro invito a portare altrove le recriminazioni, le rivendicazioni, la sete di giustizia e verità, i toni di voce un po’ alti, le telecamere, i microfoni e le macchine fotografiche. Tutte cose che in questo processo durato quattro anni non hanno mai trovato spazio e che ieri, nel giro di un quarto d’ora – tempo necessario al giudice per redigere il dispositivo di sentenza – hanno ritrovato la giusta collocazione.
Anche l’ingresso delle troupe televisive è stato preceduto da un’inutile polemica: il PM Abate da un lato sbandierava il dispositivo del tribunale che già tre mesi fa aveva proibito qualsiasi ripresa audiovisiva; l’avv. Fabio Anselmo, legale di parte civile di Lucia Uva, dal canto suo ribatteva affermando che nulla impediva la registrazione della sola sentenza. Il giudice ha dato ragione ad Anselmo ed è velocemente passato a leggere il dispositivo, davanti a telecamere accese, microfoni puntati e platea in attesa:
“Il giudice assolve Fraticelli Carlo dal reato ascrittogli, perché il fatto non sussiste. Dispone la trasmissione degli atti al Pubblico Ministero in sede, con riferimento agli accadimenti intercorsi tra l’arresto dei carabinieri e l’ingresso di Giuseppe Uva al posto fisso di Pronto Soccorso dell’Ospedale di Varese.”
Con quattro righe il tribunale assolve l’unico imputato, il medico Carlo Fraticelli, la cui condotta professionale non ha a che fare con il decesso di Giuseppe Uva. Con quattro righe ordina di fare chiarezza sulle tre ore che la vittima ha trascorso presso la caserma dei Carabinieri di Via Saffi. Bisogna ricominciare da capo, ricostruire una storia basata su veri e propri segreti di pulcinella, in una città in cui tutti sanno ma hanno paura di parlare per ripercussioni personali e professionali.
Tutti: avvocati, personale sanitario, operatori di pubblica sicurezza, volontari, politici di piccolo calibro, amici e parenti.
Il Dott. Agostino Abate è stato, suo malgrado, il vero protagonista dell’intero processo. Tutti conoscono la sua assoluta integrità di magistrato. Temutissimo, potentissimo, a Varese è stato sempre in prima linea nella lotta alla criminalità organizzata, conseguendo risultati d’eccellenza. A Varese ha istruito la prima tangentopoli d’Italia. È stato l’unico PM a sfidare Umberto Bossi nel suo regno, Varese, arrivando a ottenere un maxi-risarcimento dopo che il senatùr lo aveva pesantemente offeso. Ed è sempre Agostino Abate il titolare di diverse inchieste ai danni di un numero imprecisato di poliziotti e carabinieri coinvolti nello sfruttamento della prostituzione e in altri loschi giri. Durante il processo Uva, Abate non ha mai avuto dubbi sul corretto operato del personale in divisa. Ma il giudice, per ora, lo ha smentito clamorosamente, con dati processuali inoppugnabili, in grado di aprire scenari del tutto inediti.
La verità scientifica ha demolito punto per punto le verità della pubblica accusa. Il cuore di Giuseppe non ha retto. I segni sul corpo tracciano uno scenario di violenza. Chi sa, chi c’era, anche in quella caserma non vuole parlare, per motivi istituzionali, corporativi, e pur ricoprendo incarichi a livello sindacale.
Ruoli sindacali che in polizia hanno mera funzione comunicativa e che potrebbero risolvere molti problemi di immagine e reputazione.
La fine di Giuseppe Uva è iniziata con un arresto ingiustificato: per disturbo della quiete pubblica è prevista al massimo una sanzione pecuniaria. La fine di Giuseppe Uva si è concretizzata in quella caserma, dove gli accadimenti lo hanno portato a un livello tale di stress emotivo da richiederne il ricovero coatto. Giuseppe Uva è arrivato in ospedale ridotto molto male, come dichiarano alcuni dipendenti del reparto di psichiatria. Persino il primario di Psichiatria dell’ospedale Circolo di Varese, prof. Simone Vender, spiega la vicenda affidandosi a un’efficace metafora. ‘Quella sera’ dice ‘ hanno fatto con noi il gioco del cerino acceso. Ci hanno affidato Giuseppe Uva in condizioni critiche, tali da rendere difficoltoso qualsiasi tipo di intervento, a cominciare dal pronto soccorso. Del resto, il nostro reparto non è attrezzato per interventi di pronto soccorso’. L’agente di polizia Tommaso Talotta ha provvidenzialmente messo al sicuro i famosi indumenti insanguinati di Giuseppe Uva, in netta controtendenza con lo spirito di corpo che ha caratterizzato l’intera vicenda. Ad andarci di mezzo da un punto di vista penale sono stati semplicemente i medici di turno. Poteva capitare a chiunque, ed è capitato al Dott. Fraticelli, al Dott. Catenazzi, alla Dott.ssa Finazzi.
C’è voluto un giudice imparziale per stabilire che le colpe mediche non reggono, e che le responsabilità vanno cercate in caserma, partendo con le indagini sulla condotta di quei sei poliziotti e due carabinieri che trattennero Uva nella caserma di Via Saffi. È servita una riesumazione, seguita dalla nomina di un collegio di superperiti per stabilire che le reali cause di morte andavano ricercate altrove, e non in ospedale. Ora chissà quanto tempo ci vorrà per ripartire, per riaprire un processo, per ricominciare a cercare la verità.
Su tutto ciò incombe l’eventualità concreta che le nuove indagini siano affidate ancora al Pm Abate, già titolare, va ricordato, di un fascicolo aperto a carico di ignoti e ben riposto in un cassetto, di cui non è ancora chiaro il contenuto.
Adriano Chiarelli
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