Il falegname di Perugia arrestato il 12 ottobre del 2007 e morto in carcere sarebbe stato vittima di un aneurisma. Così diceva una Tac realizzata dopo la morte di Bianzino. Peccato che fosse falsa…
“Cause naturali”. Un aneurisma, una maformazione vascolare, un colpo basso del caso. Questo, per la procura di Perugia, è ciò che causò la morte di Aldo Bianzino, falegname arrestato il 12 ottobre 2007 perché in possesso di 30 grammi di erba e uscito cadavere dal carcere di Capanne, in Umbria, dopo appena due giorni di detenzione. L’inattesa piega degli eventi fu addirittra documentata da due consulenti dei pm, Anna Aprile e Luca Lalli: dalla Tac si vede chiaramente il maledetto aneurisma che avrebbe ucciso il falegname umbro. Insomma, un caso chiuso, con appena una condanna ad un anno e mezzo (pena sospesa) per omissione di soccorso nei confronti di una guardia carceraria, Gianluca Cantoro.
Era il dicembre del 2009 e le cose sembravano sistemate, tra la delusione dei parenti di Bianzino e un grosso sospiro di sollievo tirato dalle guardie carcerarie di Capanne. Adesso, però, il mensile Terra, riapre i giochi: quella Tac presentata in tribunale era falsa, il fotogramma con l’aneurisma non riguardava il cervello di Bianzino, ma era materiale d’archivio, “letteratura medica”. E’ stata la stessa dottoressa Aprile a dichiarare davanti ai pm che nessun medico legale aveva riscontrato l’aneurisma, ma semplicemente “dei vasi con delle caratteristiche alterate, che ben si correlano con l’ipotesi di una rottura, diciamo, spontanea”. Questo già sarebbe sufficiente a riaprire il caso, evidentemente viziato dalla leggerezza con cui sono state acquisite delle prove che, tra l’altro, prove non erano. Ma non è tutto: un altro particolare inquietante fa tremare il palazzo di giustizia perugino. Le perizie mediche, infatti, avevano accertato che il fegato di Bianzino non solo risultava essere ‘distaccato’ dalla sua sede naturale, ma conteneva anche 280 centilitri di sangue in eccesso. Una fuoriuscita – si disse – dovuta alla rianimazione cardiaca esercitata sull’uomo. Purtroppo però, di quell’intervento non risulta esserci nemmeno un fotogramma nei circuiti di videosorveglianza del carcere di Capanne. Lo stesso magistrato ha espresso in aula le sue perplessita chiedendosi se “la manovra rianimatoria ha come punto di riferimento il cuore” piuttosto che il fegato. Un’operazione insolita per dei medici professionisti. Risulta difficile immaginare qualcuno in camice bianco che, nel tentativo di eseguire una rianimazione a mano, esercita pressione una ventina di centimetri più in basso rispetto al cuore…
E’ così che sono emersi nuovi punti oscuri in questa vicenda che, sin dal principio, ha destato perplessità negli osservatori, pur senza acquisire il grado di – triste – notorietà riservata alle misteriose morti di Aldrovandi, Cucchi e Uva, tanto per fare qualche esempio di persone morte dopo aver avuto a che fare con le forze di pubblica sicurezza. Adesso, oltre agli amici e ai familiari di Bianzino, la pressione per far uscire il caso dalla casella “archiviato” e dar così vita a una nuova indagine, cominciano ad arrivare anche dal mondo politico. “A questo punto – dice la deputata radicale Rita Bernardini – ritengo necessaria la riapertura delle indagini per accertare l’evoluzione delle circostanze che hanno portato al decesso del detenuto, anche per sgomberare al più presto ogni nube ed evitare l’atroce sensazione di trovarsi davanti ad un nuovo caso di denegata giustizia”.Un appello sacrosanto, si direbbe, che ogni procura della Repubblica dovrebbe accogliere, almeno per fugare ogni dubbio sull’integrità di chi lavore nel carcere di Capanne. Peccato, però, che quando gli avvocati di parte civile espressero i loro dubbi sulla ‘finta’ Tac, ormai un anno fa, i pm decisero di non concedere la riesumazione del corpo di Aldo Bianzino. La domanda finale è sempre la stessa: perché?
Mario Di Vito da Eilmensile