Prosegue senza sosta sosta l’offensiva estiva della governance europea contro i migranti: ad essere duramente repressi, quest’oggi, sono stati gli oltre 7000 rifugiati (in larga maggioranza provenienti dalla Siria e dell’Afghanistan) stipati da mesi sull’isola greca di Kos, una delle mete più frequentate del turismo nell’Egeo. Parallelamente nel paese di Salou, a 100 km di distanza da Barcellona, la polizia catalana ha provocato la morte di un venditore ambulante di origine senegalese provocando la rivolta della comunità migrante locale, che in queste ore sta scendendo in strada in maniera determinata per chiedere giustizia.
Episodi da legare inevitabilmente ai durissimi respingimenti delle scorse settimane nei pressi dell’eurotunnel di Calais e ai recenti episodi di intimidazione nei confronti degli attivisti del presidio No Borders di Ventimiglia. Questi singoli episodi contribuiscono infatti a ricomporre un complesso mosaico dal quale si evince la chiara volontà dell’Unione Europea nel voler dichiarare ufficialmente guerra alle migliaia di profughi e rifugiati ormai assurti a “Nemico (interno) pubblico n.1” agli occhi dell’opinione pubblica del Vecchio Continente in crisi.
Questa volontà è quantomai più esplicita nelle minacce – più o meno velate – delle istituzioni preposte a “gestire” l’emergenza sui fronti più caldi (ovvero, a iniziare la sporca guerra). Se a Ventimiglia la delegittimazione della lotta alla frontiera passa attraverso giornalisti e politici locali che additano gli attivisti presenti come “nullafacenti figli di papà”, nell’isola di Kos è il sindaco in prima persona ad esporsi dichiarando che se la situazione non dovesse risolversi entro breve potrebbe scorrere “un bagno di sangue”. Parole, per ora, parole che alla luce di quanto sta accedendo in queste ore suonano più come un proposito volontario che come una velata minaccia.
Eppure per comprendere la determinazione delle centinaia di persone che, quotidianamente, lottano alle frontiere di mezza Europa basterebbe avere chiaro come il sistema dell’accoglienza di qualsiasi paese europeo non sia altro che un complesso dispositivo creato con l’intenzione di alimentare l’esasperazione delle persone che si trovano intrappolate al suo interno. Oggi tutti i mezzi d’informazione raccontano di come a Kos centinaia di migranti, da giorni stipati come animali in uno stadio, abbiano iniziato una fuga precipitosa. In realtà erano in attesa di essere registrate (e poi nuovamente stipate?), quando al grido di “We want papers, we want to eat!” hanno tentato di far valere due diritti irrinunciabili: il diritto all’esistenza e il diritto alla sopravvivenza. Evidente come la negazione di questi due principi passi attraverso le politiche di respingimento, le costruzione di CIE-lager e campi di internamento, ma anche nel quotidiano tramite, per esempio, un poliziotto che minaccia un giovane profugo con un coltello mentre lo prende a schiaffi (è accaduto proprio ieri a Kos).
La chiusura de facto delle frontiere coincide con l’apertura di un fronte interno, nel quale gli agenti in campo sono sempre gli stessi: da un lato l’esplicita aggressione dei governi che utilizzano tutti i mezzi a propria disposizione (repressivi e legislativi), dall’altro i subalterni e i proletari (e, di conseguenza, i migranti) schiacciati tra la necessità di rispondere all’aggressione e il rischio di essere vittime di un conflitto fratricida. In questo senso è possibile ravvedere in questa offensiva di fine estate le avvisaglie di una nuova guerra civile europea, per la quale sembra essere giunto il momento di scegliere da quale parte schierarsi.
Di seguito alcune immagini della protesta a Salou: