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Un ergastolano scrive ai suoi giudici

Cominciate col fare ciò che è necessario, poi ciò che è possibile.
E all’improvviso vi sorprenderete a fare l’impossibile. ( S. Francesco d’Assisi)

Condannato alla “Pena di Morte Viva”, dopo venti anni di carcere, lo scorso anno mi era stato concesso un permesso di necessità di undici ore, per andare a laurearmi da uomo libero. Di questa esperienza ho scritto un libro dal titolo: “Undici ore d’amore di un uomo ombra” (Gabrielli editore, 2012).
I miei relatori di tesi, Prof. Carlo Fiorio e Prof. Stefano Anastasia, insieme all’Amministratore Unico AdiSU, Prof. Maurizio Oliviero, hanno organizzato per il 29 febbraio scorso una presentazione del libro all’Università di Perugia, alla presenza di oltre 150 studenti, e non solo. Avevo chiesto di nuovo un permesso di necessità per essere presente all’evento e perfino il Procuratore Generale, con sensibilità e umanità, aveva espresso parere favorevole, sostanzialmente con queste parole: L’Italia continua spesso ad essere condannata dalla “Corte Europea dei Diritti dell’Uomo” (…) In attesa che il legislatore cambi la legge sull’ergastolo ostativo che ci impedisce di concedere qualsiasi beneficio, bisogna che sia questo Tribunale di Sorveglianza a fare un passo avanti usando i permessi di necessità con più elasticità per rispettare la nostra Costituzione, che ci ordina che la pena deve avere una funzione rieducativa.
Nonostante questo valido intervento, il Tribunale di Sorveglianza ha respinto la richiesta:

Con riferimento alla categoria generale degli eventi familiari di particolare gravità, questi ultimi di portata eventualmente lieta oltre che luttuosa, si è inoltre dell’opinione che la nozione di “evento” rimandi ad un accadimento che l’interessato non ha concorso a produrre, ma che si trovi piuttosto ad incontrare lungo il percorso della vita, così che il relativo verificarsi risulti accidentale.
In caso contrario, si darebbe spazio e cittadinanza a eventi “autoprodotti”(…)
Signori Magistrati, siete lo stesso Tribunale che mi ha concesso il permesso per andare a laurearmi, quindi in base a questo criterio io oggi mi sento umiliato e offeso che la mia Laurea possa essere da voi definita un accadimento che non ho concorso a produrre perché non so, con tutto rispetto, se abbiate idea di cosa significhi studiare e laurearsi in carcere. Mi sento umiliato per tutto il tempo passato, ore e ore, giornate intere, seduto sullo sgabello a studiare, per quante ore d’aria ho rinunciato e quante moke di caffè per stare sveglio a studiare tutta la notte, in attesa della commissione d’esame che magari l’indomani non veniva, senza che nessuno mi avvisasse, o perché si era dimenticata, o perché non era potuta entrare in carcere per un qualsiasi intoppo burocratico. Per non dire delle centinaia di Km percorsi dentro le gabbie dei furgoni penitenziari, come un animale e spesso senza neanche la possibilità di andare in bagno, per essere tradotto in altri istituti per dare esami universitari. Tutto questo è per voi un accadimento che non ho concorso a produrre .

Signori Magistrati, io non ho incontrato lungo il percorso della vita la mia laurea, e vi chiedo, con il massimo rispetto ma desideroso di risposta, se la vostra di laurea sia stata un verificarsi accidentale lungo il percorso della vita o se piuttosto anche voi come me abbiate “autoprodotto” i vostri risultati di studio.

Sempre nella stessa sentenza di rigetto, questo Tribunale scrive:

“(…) si è dell’avviso che l’istituto p. dall’art.30 co.2 Ord pen. non persegua finalità trattamentali-che in definitiva sarebbero proprie della uscita del MUSUMECI- non essendo stata tale la volontà del legislatore in sede di lavori preparatori.”

Signori Magistrati, siete lo stesso Tribunale che mi ha concesso il permesso per andare a laurearmi, scrivendo nella sentenza del 28.04.2011:

Ed, invero,le situazioni valorizzate dalla norma in esame ai fini della eventuale concessione di un permesso di necessità, devono trovare una chiave di lettura e di interpretazione nell’ambito degli interventi rieducativi di cui l’ordinamento si fa promotore, volti a garantire, secondo un necessario criterio di individalizzazione, un possibile reinserimento sociale.”

Signori Magistrati di Sorveglianza, vi ricordo che un giudice dovrebbe anche ubbidire alla Costituzione del suo Paese e una pena che non finisce mai non potrà mai essere giusta, né avere nessuna funzione rieducativa.

Io credo che nonostante ventuno anni trascorsi nelle condizioni di vita disumane, degradanti e spesso illegali, in cui ho vissuto nelle vostre prigioni, il carcere non sia riuscito a peggiorarmi. Forse solo per questo meriterei che anche nei miei confronti si applicasse la funzione rieducativa della pena.

Ricordo che tempo fa il Presidente del Tribunale di Sorveglianza di Perugia aveva dichiarato: Ci sono moltissimi detenuti oggi in Italia che prendono l’ergastolo, tutti per reati ostativi, e sono praticamente persone condannate a morire in carcere. Anche su questo, forse, una qualche iniziativa cauta di apertura credo che vada presa, perché non possiamo, in un sistema costituzionale che prevede la rieducazione, che prevede il divieto di trattamenti contrari al senso di umanità, lasciare questa pena perpetua, che per certe categorie di autori di reato è assolutamente certa, nel senso che non ci sono spazi possibili per diverse vie di uscita.
Infine, ma non per ultimo, considerato che questo Tribunale scrive:

(…) considerato che il legislatore, attraverso la previsione di cui all’art.30 Ord pen. ha inteso concepire un rimedio di carattere eccezionale, diretto ad evitare al detenuto quell’afflizione aggiuntiva che sarebbe derivata dall’impossibilità di essere vicino ai congiunti, o di adoperarsi a favore dei medesimi, in occasione di particolari vicende della vita familiare” non riesco a non osservare che non è prerogativa del diritto stabilire quando, quanto e perché un detenuto soffra.

Ancora una volta mi avete detto no, continuate a dirmi che dovrei avere fiducia in una legge che mi considera cattivo e colpevole per sempre, ma non potete dirmi come e quando soffrire.


Carmelo Musumeci
Spoleto marzo 2012