Facebook blocca, censura, indirizza. Il vento di guerra soffia anche sui social network …
Sono note a tutti le mosse di propaganda di Facebook verso la costruzione di un’immagine di “buono” nella rete. La retorica dello strumento al servizio dell’umanità, già adottata da tante altre aziende come Apple o Google è ormai da tempo compresa nella sua realtà di strumento utile alla costruzione di un marchio di valore, sul quale raggranellare milioni in Borsa o attraverso sponsorizzazioni. Eppure sembra che il rapporto tra web 2.0, messa a valore, sfruttamento biopolitico e costruzione di soggettività si stia avviando verso nuove sperimentazioni.
Negli ultimi tempi sembra esserci un salto di qualità, praticato con mosse come la notifica automatica sulle condizioni di salute dei tuoi contatti parigini degli attentati; una mossa dal sapore simile alla funzionalità che permetteva di poter adagiare sul proprio profilo le bandiere arcobaleno in omaggio alla legalizzazione dei matrimoni gay in molti stati USA, riproposta con quelle tricolori della Francia post 13 novembre.
L’azienda di Zuckerberg – basandosi sui passi in questo campo dell’apripista Google e del suo “don’t be evil” -è sempre più impegnata in una promozione del proprio brand che non rifiuta di prender posizione, per quanto su argomenti dal vasto consenso diffuso, rompendo l’idea di un contenitore neutro di profili e pagine ben oltre la prima rottura incarnata dai meccanismi di valutazione di pagine con contenuti ritenuti scomodi (pedofilia etc).
Ma dopo i fatti di Parigi, sembra evidentemente che la libertà d’espressione, “valore cardine della civiltà occidentale” minacciata secondo tutti i commentatori dagli attentati parigini vale fino a quando essa si identifica con certi specifici valori e sentimenti. Valori e sentimenti che devono passare evidentemente al vaglio morale di Facebook, dato che è di oggi la notizia che lo scrittore Giuseppe Genna e la presidente di Emergency Cecilia Strada sono stati sospesi da Facebook per aver pubblicato degli articoli contro la guerra.
Nel primo caso il software di gestione dell’azienda di Menlo Park ha cancellato un post dello scrittore (che potete leggere qui) e ha sospeso il suo account per sette giorni; nel secondo caso la minaccia di sospensione (poi rientrata) è stata messa in atto con la ormai nota richiesta del “nome vero” – cosa che la Strada già utilizzava – che sembra non casuale però se riferita ad un personaggio che aveva più volte espresso pubblicamente, come la sua organizzazione, posizione di netto rifiuto di ogni azione militare.
Solo piccoli esempi, che rendono conto però della pericolosità di una istituzione totale della rete come Facebook di poter eterodirigere più di quanto già non faccia – basti pensare all’algoritmo di ricerca delle informazioni e alla teoria della “bolla omofila” – la formazione del consenso nella folla smisurata che compone i suoi users.
Lo sforzo di Hollande di trainare la Francia e i suoi alleati, Usa in primis, all’interno di una nuova fase bellica a guida occidentale ha evidentemente spinto Facebook a mostrare la sua vera natura. Nè profili con bandiere russe per i 224 morti dell’aereo abbattuto nel Sinai, né libanesi dopo la strage di Beirut..anche per Zuckerberg e soci, è il momento di schierarsi al fianco della lotta al “terrorismo di guerra”, come da neologismo del Presidente francese.
Anche il più importante social network del pianeta, talmente potente da riuscire a imporsi come idea della totalità della rete da milioni e milioni di persone, scende in campo al richiamo delle fanfare e a schierarsi nel campo che da sempre gli appartiene: quello di una colonizzazione dei sentimenti e delle opinioni talmente approfondita da potere, oltre che metterla a valore, anche curvare a seconda delle necessità.
da InfoAut
Facebook censura chi combatte Daesh ( DinamoPress)
Censurata la campagna francese contro Daesh e per il sostegno al PKK. L’ultimo di una lunga serie di episodi contro il movimento curdo. In Italia era toccato a Zerocalcare e Rojava Calling.
Il sito francese streetpress* ha denunciato la censura della campagna “Fuck Daesh, support PKK” da parte di Facebook. Tre giorni dopo gli attentati di Parigi, alcuni collettivi antifascisti francesi avevano lanciato su change.org una petizione per chiedere di: sostenere attivamente tutte le forze curde che stanno combattendo i miliziani del Califfato islamico (YPG/YPJ/PKK); eliminare il PKK dalle liste del terrorismo internazionale; interrompere le relazioni con la Turchia di Erdogan, l’Arabia Saudita e tutti i paesi che sostengono Daesh. La compagnia di Palo Alto avrebbe spiegato al sito francese che sul social network non c’è spazio per contenuti a favore di organizzazioni terroristiche. E il PKK, almeno secondo Stati Uniti e Unione Europea, sarebbe una di queste.
Ma non si tratta di un episodio isolato: esiste una lunga serie di antecedenti che hanno visto facebook schierato contro il movimento curdo, nelle sue molteplici articolazioni, comprese quelle legali. Un articolo del Corriere della Sera del 24 febbraio 2012, analizzando “le regole base che si devono seguire per vivere nel mondo di FB”, afferma che per quanto riguarda la Turchia è vietato postare: attacchi contro Atatürk, bandiere turche bruciate, contenuti che appoggiano il PKK, mappe del Kurdistan. Il quotidiano italiano sottolinea il carattere politico di tale censura e la violazione della libertà di espressione, chiedendosi se queste regole riguardino solo gli utenti turchi o anche tutti gli altri.
L’anno successivo dalle parole si passa ai fatti. Ad ottobre 2013 il BDP, partito curdo “della Pace e della Democrazia”, denuncia la chiusura di numerosi profili di esponenti politici, della pagina principale dell’organizzazione e di quella della sezione di Istanbul. FB giustifica questa scelta con la presenza di contenuti legati al PKK, senza peraltro mai rispondere alle richieste dei curdi di specificare di quali contenuti si trattasse. A questo primo round di censure segue un incontro a Londra tra accademici ed esperti del partito curdo e Richard Allan, Direttore generale per l’Europa di Facebook. In un primo momento sembra che la compagnia sia disponibile ad andare incontro alle richieste presentate dei membri del BDP, aggiornando i parametri del social network alla luce dei negoziati di pace tra Turchia e PKK e della svolta politica dell’organizzazione. Ma le “impressioni positive” durano ben poco. Meno di un mese dopo l’incontro, infatti, FB chiude anche la nuova pagina del partito curdo. Motivo: l’utilizzo della parola “Kurdistan”.
A questo ennesimo attacco, il BDP, guidato da quel Selhattin Demirtaş che è oggi a capo dell’HDP, risponde con un comunicato stampa in cui chiede l’immediata riattivazione della pagina e denuncia la stretta collaborazione tra Facebook e il governo di Erdogan. Secondo il leader curdo, la compagnia ha barattato la censura dei loro contenuti con l’accesso al grande bacino di utenti turchi, con alcune agevolazioni rispetto al mercato pubblicitario e con la possibilità di aprire in Turchia una sede dell’azienda.
Ma le censure nei confronti dei contenuti pro-kurdi non si limitano al contesto turco. Come redazione di DINAMOpress abbiamo potuto constatare direttamente almeno due episodi accaduti di recente ad utenti italiani.
Nel primo, la vignetta disegnata dal fumettista Zerocalcare per denunciare il massacro di civili compiuto dall’esercito turco a Cizre è stata improvvisamente rimossa da tutti i profili. Un messaggio avvisava le pagine che l’avevano postata (compresa la nostra) che l’immagine violava non meglio precisati standard di Facebook. Probabilmente, anche in questo caso l’azienda americana ha utilizzato, dopo puntuali segnalazioni, il pretesto della bandiera del PKK per eliminare un contenuto politico scomodo. Poche ore dopo, anche la seguitissima pagina della campagna di solidarietà “Rojava Calling” è stata temporaneamente bloccata. FB ha inviato un messaggio agli amministratori sostenendo che la pagina fosse fuori dai “canoni standard”. Che anche in questo caso non venivano specificati. Dopo alcune ore e diverse proteste Rojava Calling è tornata accessibile. Dettaglio inquietante è che una pagina attiva da quasi un anno, con migliaia di like (oltre 13.000), venisse oscurata proprio mentre gli attivisti della Carovana internazionale per Kobane entravano nella città di Cizre per testimoniare quello che era accaduto nei nove giorni di assedio da parte dei militari di Ankara.
Del resto, almeno da Gezi Park, Erdogan è ossessionato da tutti i social network e ha più volte bloccato o rallentato youtube e, soprattutto, twitter (record mondiale di censure, 4.363 soltanto nei primi sei mesi di quest’anno). La Turchia è tra i sei paesi al mondo che hanno impedito l’accesso ai social media nel 2015. L’unico a far parte della NATO e l’unico candidato all’adesione all’Unione Europea. Gli altri sono: Iran, Cina, Vietnam, Pakistan e… Corea del Nord. Negli ultimi mesi, e in particolare durante i due periodi di campagna elettorale, anche la stampa (turca e internazionale) ha subito un violento attacco da parte del governo: giornali chiusi, redazioni intere tratte in arresto, giornalisti minacciati ed espulsi. E questo è soltanto l’apice di un attacco sistematico al mondo dell’informazione che Erdogan ha condotto dopo aver preso il potere, facendo crollare la Turchia in tutti gli indici mondiali che riguardano la libertà di stampa e contendendo all’Iran il record globale di giornalisti incarcerati.
In una situazione di questo tipo, la pretesa neutralità di Facebook lascia il tempo che trova. La presenza del PKK all’interno delle liste del terrorismo internazionale è soltanto la giustificazione che l’azienda americana utilizza per sostenere il piccolo Sultano nella sua offensiva contro il popolo e il movimento curdo. Tutta la sensibilità dimostrata nei confronti delle vittime di Parigi, con l’applicazione per segnalare lo scampato pericolo e quella per sovrapporre la bandiera francese alla propria immagine del profilo, è svanita in poche ore. Probabilmente si è trattato soltanto dell’ennesima trovata pubblicitaria, visto che la memoria di quei morti è già stata offesa dall’ennesima censura contro chi gli assassini di Daesh li combatte veramente, sul campo, rischiando ogni giorno la propria vita.