Le ultime clamorose notizie sulla vicenda di Stefano Cucchi cadono sul terreno di un’opinione pubblica distratta da altri problemi e pronta a voltare pagina. In fondo, si pensa, ora che la verità è venuta a galla, il compito di far luce piena e di punire i colpevoli tocca alle istituzioni.
Quello che ci spinge a pensare così è il bisogno di tranquillità, sempre più forte quanto più si cavalca il fantasma del Terrore per invitarci a chiudere bene la porta di casa e a delegare ad altri il compito di azioni decisive e risolutive (anche la bomba atomica, perché no?).
E invece questa storia di Stefano Cucchi non può chiudersi qui. Se ci sentiamo obbligati a fermarci su di essa non è solo per l’umana pietà dovuta a chi muore vittima della violenza e dell’omertà delle istituzioni, né per la solidarietà e l’ammirazione che merita la straordinaria sorella Ilaria, colei che ha incarnato per noi l’immortale figura di Antigone.
Oggi che la sua battaglia ha portato a scoprire la verità sull’assassinio del fratello e a rendere pubblici i nomi dei responsabili c’è qualcosa che l’opinione pubblica deve chiedere alle istituzioni colpevoli di aver coperto fino ad ora delinquenti e delitto. Ilaria è stata eroica. Il suo esempio ha dato coraggio a una piccola pattuglia di genitori, fratelli e amici di altre vittime che le si è stretta intorno ed è andata come lei e con lei sulle piazze e in televisione: esempi di quell’eroismo quotidiano che ci vuole per reagire, per impedire di lasciarsi andare.
Ma vale sempre il monito di Bertolt Brecht: “beato quel paese che non ha bisogno di eroi”. E invece troppo spesso in Italia se ne sente il bisogno. I singoli si sentono isolati e impotenti. È sintomatico il mito – anche la realtà – dei “poteri forti”. Il nome di Stefano ci accompagna da quando in quell’ottobre 2009, uscito vivo da casa vi ritornò cadavere dopo una settimana passata nelle mani di carabinieri, agenti carcerari, personale sanitario.
Caserma, carcere, ospedale: tutti luoghi deputati a garantire la sicurezza delle persone. Ma il corpo che i familiari si ritrovarono davanti era trasformato in uno scheletro, il volto che da allora tutti abbiamo potuto vedere era una maschera che non si poteva guardare senza orrore. Che cosa fosse successo, come quella metamorfosi fosse stata possibile è rimasto a lungo un mistero. Oggi sappiamo. Conosciamo le parole che furono dette dai suoi assassini: erano carabinieri, oggi lo sono ancora ma si dicono pronti a saltare il fosso e a “fare le rapine” se fossero puniti: lo ha detto Alessio Di Bernardo al collega e complice del delitto.
Ed è qui che ritroviamo l’altra faccia della sorda resistenza delle organizzazioni dei corpi di sicurezza al disegno di legge per l’introduzione del reato di tortura nelle leggi penali italiane. Si vuole l’impunità: non si capisce che solo l’esistenza della legge e la sua efficacia “erga omnes” possono offrire a tutti, incluse le varie e diverse polizie italiane, la vera garanzia dall’arbitrio e la tutela del buon nome di corpi sempre minacciati nel loro onore e nella loro credibilità dalle mele marce che della forza delegata loro dai cittadini vorrebbero fare strumento di privato potere, esercizio di un impunito sadismo.
Il silenzioso accantonamento di un disegno di legge sulla tortura, debole fin dall’inizio e svuotato di ogni residua efficacia nel suo itinerario parlamentare, è un caso preoccupante di cedimento della democrazia all’arbitrio di corporazioni potenti. E qui si situa un bivio, una delle tante occasioni in cui un governo nato non dall’esito di elezioni democratiche ma dal gioco di maggioranze mutevoli in corpi di nominati, deve decidere quale strada vuole battere per rafforzarsi: se quella di breve respiro del consenso del maggior numero possibile di corporazioni o quella, in prospettiva più lunga ma più solida, del “buon governo”.
Il celebre dipinto del Palazzo pubblico di Siena lo rappresentò con l’immagine delle persone che si muovono tranquillamente per le strade del paese. Oggi l’unico strumento per far stringere i cittadini intorno ai loro governi è anche quello che li spinge a chiudersi al mondo esterno: la paura del “Terrore”, il Lucifero pervasivo della nostra modernità. Ci si dimentica che tutte le più nefaste esperienze politiche dell’Europa sono nate da una radice identica.
Adriano Prosperi da La Repubblica