Dopo il Corriere della sera anche sulle pagine di Repubblica, il quotidiano di tutte le emergenze e fermezze nazionali, del più feroce rigor mortis, sostenitore imperterrito di polizia e magistratura, grazie ad Adriano Sofri si parla delle torture impiegate per contrastare la lotta armata degli anni 70 e inizio 80, ma non solo. Il muro del silenzio comincia lentamente a mostrare le sue crepe. (da insorgenze)
A prima vista, la notizia è che negli anni ’70 e ’80 ci fu un ricorso non episodico a torture di polizia nei confronti di militanti della “lotta armata” – e non solo. È quello che riemerge da libri (Nicola Rao, Colpo al cuore), programmi televisivi (“Chi l’ha visto“), articoli (come l’intervista del Corriere a Nicola Ciocia, già “professor De Tormentis”, questore in pensione). Non è una notizia se non per chi sia stato del tutto distratto da simili inquietanti argomenti. Nei primi anni ’80 le denunce per torture raccolte da avvocati, da Amnesty e riferite in Parlamento furono dozzine.
A volte la cosa “scappava di mano”, come nella questura di Palermo, 1985. Oscar Luigi Scalfaro, che era allora ministro dell’Interno, dichiarò: “Un cittadino è entrato vivo in una stanza di polizia e ne è uscito morto”. Era un giovane mafioso, fu picchiato e torturato col metodo della “cassetta”: un tubo spinto in gola e riempito di acqua salata. Gli sfondò la trachea, il cadavere fu portato su una spiaggia per simularne l’annegamento in mare. Alla notte di tortura parteciparono o assistettero decine di agenti e funzionari. Avevano molte attenuanti: era stato appena assassinato un valoroso funzionario di polizia, Beppe Montana, “Serpico”. All’indomani della denuncia di Scalfaro, e delle destituzioni da lui decise, la mafia assassinò il commissario Ninni Cassarà e l’agente Roberto Antiochia. Una sequenza terribile, ma le attenuanti si addicono poco al ricorso alla tortura, il cui ripudio è per definizione incondizionato. Repubblica sta ricostruendo la tremenda vicissitudine di Giuseppe Gulotta, “reo confesso” nel 1976 dell’assassinio ad Alcamo di due carabinieri, condannato all’ergastolo e detenuto per 22 anni: finché uno dei torturatori, un sottufficiale dei carabinieri, ha voluto raccontare la verità.
L’elenco di brigatisti e affiliati di altri gruppi armati sottoposti a torture è fitto: va dal nappista Alberto Buonoconto, Napoli 1975 (si sarebbe impiccato nel 1981) a Enrico Triaca, Roma 1978, a Petrella e Di Rocco (ucciso poi in carcere a Trani da brigatisti), Roma 1982, ai cinque autori del sequestro Dozier, Padova 1982… In tutte queste circostanze operavano (è il verbo giusto: noi siamo come i chirurghi, dirà Ciocia, “una volta cominciato dobbiamo andare fino in fondo”) due squadre chiamate grottescamente “I cinque dell´Ave Maria” e “I vendicatori della notte”. Ha riferito Salvatore Genova, già capo dei Nocs, inquisito coi suoi per le torture padovane al tempo di Dozier e stralciato grazie all’immunità parlamentare, infine pensionato: “Succedeva esattamente quello che i terroristi hanno raccontato: li legavano con gli occhi bendati, com’era scritto persino su un ordine di servizio, e poi erano costretti a bere abbondanti dosi di acqua e sale”. Quel modo di tortura – accompagnato da sevizie molteplici, aghi sotto le unghie, ustioni ai genitali, percosse metodiche, esecuzioni simulate; ed efferatezze sessuali nei confronti di militanti donne – non si chiamava ancora waterboarding, e non era un genere di importazione. Lo si usava già coi briganti ottocenteschi. Fu una specialità algerina negli anni ’50. Addirittura, quando Rao chiede a Ciocia se davvero gli ufficiali della Cia che assistettero agli interrogatori per Dozier fossero rimasti stupefatti per quello che vedevano, lui risponde: “Non sono stati gli americani a insegnarci certe cose. Siamo i migliori… Lì, nell’attività di polizia ci vuole stomaco. E gli altri Paesi lo stomaco non ce l’hanno come ce l’abbiamo noi italiani. Siamo i migliori. I migliori!”.
Costui accetta di parlare con Rao, che non ne rivela ancora il nome. Solo quel soprannome, “professor De Tormentis”. Il 23 marzo 1982 Leonardo Sciascia prese la parola nel dibattito alla Camera sulle torture ai brigatisti del sequestro Dozier, replicando all’allora ministro dell’Interno Virginio Rognoni. “Ieri sera ho ascoltato con molta attenzione il discorso del ministro e ne ho tratto il senso di una ammonizione, di una messa in guardia: badate che state convergendo oggettivamente sulle posizioni dei terroristi! Personalmente di questa accusa ne ho abbastanza! In Italia basta che si cerchi la verità perché si venga accusati di convergere col terrorismo nero, rosso, con la mafia, con la P2 o con qualsiasi altra cosa! Come cittadino e come scrittore posso anche subire una simile accusa, ma come deputato non l’accetto. Non si converge assolutamente con il terrorismo quando si agita il problema della tortura. Questo problema è stato rovesciato sulla carta stampata: noi doverosamente lo abbiamo recepito qui dentro, lo agitiamo e lo agiteremo ancora!”.
Successe allora che i giornalisti Vittorio Buffa e Luca Villoresi, che avevano riferito delle torture sull’Espresso e su Repubblica con ricchezza di dettagli, furono arrestati per essersi rifiutati di rivelare le loro fonti e liberati solo dopo che due coraggiosi funzionari di polizia dichiararono, a proprie spese, di aver passato loro le notizie. Certo Sciascia avrebbe meritato di conoscere la conclusione attuale della storia, che tocca quello che gli stava più a cuore, compreso il Manzoni della Colonna infame che citava il trattato duecentesco De tormentis. Da lì il prestigioso poliziotto Umberto Improta aveva ricavato il nomignolo per il suo subordinato. Il nome vero era da tempo noto agli esperti, a cominciare dalle vittime: appartiene a un poliziotto andato in pensione nel 2004 col grado di questore, dopo una carriera piena di successi contro malavita e terrorismo. Poi ha fatto l’avvocato, è stato commissario della Fiamma Nazionale a Napoli. Ora, alla vigilia degli ottant’anni e con la sua dose di malanni, dà interviste che un giorno rivendicano, un giorno smentiscono. Si definisce però “da sempre fascista mussoliniano”.
Ecco qual’è la notizia. Che quando lo Stato italiano e il suo Comitato interministeriale per la sicurezza decisero di sciogliere la lingua ai terroristi, ne incaricarono un signore che aveva già dato prova del proprio talento. Non è lui il problema: vive in pace la sua pensione, e promette di portarsi per quietanza nella tomba i suoi segreti di Pulcinella. Non importa che usassero il nome di tortura: non si fa così nelle ragioni di Stato, e del resto la Repubblica Italiana si guarda dal riconoscere l’esistenza di un reato di tortura. È superfluo, dicono. Bastava assicurare spalle coperte. La difesa della democrazia si affidò a un efficiente fascista mussoliniano. Siamo il paese di Cesare Beccaria e di Pietro Verri, i migliori.
Adriano Sofri da La Repubblica 16 Febbraio 2012
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