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Il delirio dell’Europa sui rifugiati

Gli indizi di una profonda impasse politica e morale. La corsa insensata a barricarsi dietro le frontiere nazional, l’accordo vergognoso con la Turchia, gli ultimi scritti di Zizek… Altro che crisi economica

Qualunque cosa si pensi di papa Bergoglio, è indubbio che la sua visita nella Guantanamo di Lesbo ha valore e impatto, politici e simbolici, assai rilevanti. Se non altro perché ancor più mette in luce, per contrasto, fino a qual punto quella che chiamano «crisi dei rifugiati» sia, in realtà, una grave crisi dell’Europa. Tale da far temere che le spinte centrifughe, i meschini egoismi nazionali, le pulsioni nazionaliste, la crescita progressiva delle formazioni di estrema destra, la tendenza delle élite politiche nazionali a compiacere gli umori più intolleranti del proprio elettorato non solo conducano alla scomposizione dell’unità europea, ma possano concorrere ad aprire scenari ancor più inquietanti.

Di fronte alla «crisi dei rifugiati», le misure adottate dall’Ue e da singoli Stati appaiono tanto ciniche, irrispettose dei diritti umani più basilari, guidate da «un’indifferenza di natura criminosa verso la sorte dei rifugiati», per citare Barbara Spinelli; quanto incoerenti, contraddittorie, spesso controproducenti. A tal punto da sembrare il frutto di una mente collettiva delirante, se è vero che il delirio è anzitutto un disturbo della percezione e dell’interpretazione della realtà. A sua volta, il delirio ha a che fare con la rimozione, troppo a lungo covata, del cattivo passato europeo nonché delle gravi responsabilità politiche odierne: è quasi banale ricordare che la fase attuale di esodi forzati (tali anche nel caso dei migranti detti economici) è effetto secondario del neocolonialismo occidentale e del suo interventismo armato, dell’opera di destabilizzazione di vaste aree, dall’Africa al Medio Oriente, nonché della predazione economica e della devastazione anche ambientale operate dal capitalismo globale.

Delirante, oltre che illegale e immorale, è l’accordo siglato, in forma di Statement, tra l’Ue e la Turchia il 18 marzo scorso, in violazione del diritto internazionale e perfino del Trattato sul funzionamento dell’Unione Europea, in particolare dell’art. 218 che regola gli accordi tra l’Unione e i paesi terzi. Deplorato dalla massima parte delle organizzazioni umanitarie e dallo stesso Unhcr, esso legittima e dà avvio alla deportazione di massa dei «migranti irregolari», bambini compresi, che dal 20 marzo sono approdati nelle isole greche partendo dalla Turchia. Paese terzo tutt’altro che sicuro, dominato da un regime a dir poco autoritario, la Turchia, che primeggia per violazioni del diritto internazionale e della stessa Convenzione europea dei diritti umani, non garantisce alcuna protezione ai richiedenti-asilo e ai rifugiati: basti dire che, secondo Amnesty International, da gennaio a oggi ha rimpatriato in Siria un migliaio di rifugiati. È dunque alto il rischio che i profughi barattati con Ankara – «per ogni siriano rimpatriato in Turchia dalle isole greche un altro siriano sarà reinsediato dalla Turchia», recita lo Statement – siano prima o poi ri-deportati nelle stesse zone di guerra da cui erano fuggiti.

L’insensatezza di questo accordo è del tutto palese: non servirà affatto, come si pretende, a scoraggiare gli esodi verso l’Europa e a smantellare «il business dei trafficanti», bensì a costringere le moltitudini in fuga a intraprendere rotte e viaggi sempre più rischiosi. Il suo coté paradossale è che la Grecia di Tsipras, da taluni eletta a nuovo faro del socialismo, sia costretta essa stessa a violare il diritto internazionale, con espulsioni collettive e altre gravi infrazioni, nonché riconoscendo la Turchia come paese terzo sicuro.

Altrettanto insensata è la corsa a barricarsi dietro le frontiere nazionali, erigende barriere di filo spinato e perfino schierando gli eserciti: lo scorso ottobre il parlamento sloveno ha approvato, quasi all’unanimità, una legge che conferisce all’esercito poteri straordinari, anzitutto quello di limitare la libertà di movimento delle persone; e in febbraio è stato quello bulgaro ad approvare una norma che autorizza l’esercito a schierarsi ai confini per contribuire ad arginare la moltitudine di profughi dalla rotta balcanica.

Ricordo che tra il 2015 e il 2016 a ripristinare i controlli alle frontiere sono stati, tra i paesi membri dell’Unione europea, l’Austria, la Danimarca, la Germania, la Svezia, l’Ungheria; tra i non membri, la Norvegia e la Macedonia, che pure è candidata all’ingresso nell’Ue. Dunque, per quanto scandalosa, perfino autolesionista – destinata com’è a provocare anche danni economici, non solo all’Italia -, la più recente trovata austriaca della barriera anti-profughi al Brennero non è che un’ulteriore tappa della dilagante pulsione sovranista, se non nazionalista nel senso peggiore, che attraversa l’Europa.
Che la crisi europea sia non solo economica, ma anche politica e morale, ce lo aveva ripetuto più volte Slavoj Zizek, dando prova di lungimiranza. Perciò è alquanto sorprendente che oggi egli si erga a strenuo difensore dello «stile di vita dell’Europa occidentale», ovvero, per i rifugiati, «il prezzo da pagare per l’ospitalità europea». Così scriveva in un articolo del 9 settembre scorso per la London Review of Books. E così ha ribadito in scritti successivi, tra cui quello comparso su In These Times il 16 novembre: «Nonostante la (parziale) responsabilità dell’Europa rispetto alla situazione dalla quale fuggono i rifugiati, è venuto il tempo di abbandonare i mantra sinistroidi che criticano l’eurocentrismo».

Questa digressione sul filosofo sloveno vale ad avanzare un interrogativo: il barricarsi dietro «i nostri valori» e «il nostro stile di vita», bacchettando «le anime belle» di sinistra che praticano tolleranza e solidarietà, che osano perfino rivendicare l’apertura delle frontiere, non è forse una tendenza simmetrica a quella che induce a rafforzare le frontiere esterne, chiudere quelle interne, erigere muri, reali e simbolici? Non è forse uno degli indizi della profonda crisi dell’Europa?

Annamaria Rivera da il manifesto