Contro il silenzio e l’impunità. L’inaccettabile arresto del presidente della Commissione egiziana per i diritti e le libertà, la stessa organizzazione non governativa il cui staff sta offrendo attività di consulenza ai legali della famiglia Regeni
Il 25 aprile, nel giorno in cui in Piazza della Scala a Milano i genitori di Giulio Regeni parlavano agli attivisti di Amnesty International, in Egitto erano in corso decine di arresti di manifestanti, attivisti e giornalisti, soprattutto egiziani ma anche stranieri.
Mentre Claudio e Paola Regeni riaffermavano la propria ferma volontà di andare avanti, «per Giulio e per tutti coloro che sono in difficoltà nei paesi del mondo dove i diritti umani non vengono rispettati e riconosciuti», le autorità egiziane stavano facendo arrestare Ahmed Abdallah, presidente della Commissione egiziana per i diritti e le libertà, la stessa organizzazione non governativa il cui staff sta offrendo attività di consulenza ai legali della famiglia Regeni.
Ahmed Abdallah è stato prelevato dalle forze speciali e accusato di istigazione alla violenza per rovesciare il governo, adesione a un gruppo terroristico e promozione del terrorismo. Rischia pene pesantissime, addirittura la pena di morte.
Oltre a lui, nello stesso giorno, sono state arrestate almeno 238 persone, in varie città dell’Egitto. E già nei giorni precedenti, tra il 21 e il 24 aprile, almeno altre 90 persone, secondo i dati di Amnesty International, erano state portate in carcere.
Questo è l’Egitto di oggi, teatro di violazioni diffuse e sistematiche dei diritti umani e questo è il contesto in cui si colloca il caso, sicuramente speciale, ma non isolato del nostro concittadino Giulio Regeni. Nei tre mesi che ci separano dalla sua morte, caratterizzati dal susseguirsi di resoconti ufficiali e semi-ufficiali poco credibili e talvolta grotteschi, e da una collaborazione con gli inquirenti italiani che si è rivelata presto essere solo di facciata, c’è chi ha avanzato delle ipotesi sul perché per lui sia potuta finire in questo modo tragico, prendendo le mosse dall’oggetto delle sue ricerche e dalle persone con cui era entrato in contatto.
Quel che ha colpito più di tutto, però, è che chi lo ha torturato a morte non si sia fermato di fronte a un cittadino straniero – per di più uno studioso, non certo una persona pericolosa. Perché non è stato semplicemente espulso? È possibile che non si aspettassero delle reazioni? La risposta è che forse no, non se le aspettavano – come non se le aspetta un potere che non è abituato a rendere conto delle proprie azioni. Un potere per il quale è del tutto normale commettere gravi abusi e non subirne le conseguenze. Un potere cresciuto nella cultura dell’impunità, per cui nessuno viene processato, tantomeno punito. Ed è proprio la cultura dell’impunità che deve essere sconfitta.
Ed è anche per questo, oltre che per il sacrosanto diritto dei suoi familiari ad avere quel po’ di giustizia che possono ancora avere, che è importante conoscere la verità su Giulio Regeni. Per conservare intatta la speranza di raggiungere questo obiettivo, ognuno deve fare la sua parte.
Noi faremo la nostra, lavorando affinché sulla vicenda non cali il silenzio, e chiedendo ai governi di fare la loro (non solo a quello italiano, a tutti i governi europei, perché solo un fronte europeo compatto può mettere in difficoltà le autorità egiziane e costringerle a collaborare).
Nella consapevolezza che la battaglia per la verità su Giulio Regeni non è solo la battaglia per un nostro concittadino che ha subito una sorte terribile all’estero. È prima di tutto e soprattutto la battaglia per una persona, che ha subito la più grave delle violazioni dei suoi diritti di persona, che sono diritti di tutti, senza distinzioni di nazionalità. Una battaglia per i diritti umani, come hanno giustamente detto in piazza della Scala i suoi genitori e come gli arresti di massa degli ultimi giorni purtroppo confermano.
da il manifesto