Sono passati un po’ di giorni dalla manifestazione romana del 15 ottobre, l’adrenalina ha cominciato a defluire, la rabbia sta lasciando posto alla riflessione, troppe parole dette frettolosamente stanno decantando. Caute diceva il filosofo, e l’insieme di dati che ormai abbiamo, spesso apparentemente contraddittori, ci invita alla cautela ma ci spingono ad una riflessione ordinata che è obbligo fare anche se non sappiamo bene in quali luoghi, e anche questa diventa una metafora interessante: senza i luoghi della “riflessione” politica rimane solo la piazza. Procediamo con ordine.
1 Quella che è andata in “scena” a Roma è la drammatica rappresentazione di un salto di fase. E’ andata in scena la crisi della politica e, a mio avviso, in particolare la crisi della politica della sinistra tutta, riformista e radicale (o supposta tale). Certo che c’erano gli infiltrati (polizia e fascisti), ne sono testimone diretto, certo che la gestione dell’ordine pubblico a piazza San Giovanni è stata volutamente scellerata, e l’uso degli idranti (abbastanza inconsueto in Italia) voluto per coinvolgere (senza cercare il morto) anche spezzoni incolpevoli del corteo negli scontri provocandone la reazione. Ma tutti questi sono dettagli che coprono una drammaticità e una crisi della politica “inedita”, soprattutto per la sinistra. Per la prima volta assistiamo ad una rottura all’interno degli stessi movimenti più radicali, che è anche una rottura generazionale, i “vecchi centri sociali” e i suoi leaders storici sono stati incapaci di costruire una mediazione che permettesse alla manifestazione di svolgersi e anche le tradizionali “ricomposizioni” (il corteo pacifico svolge il suo ruolo politico e le pratiche estreme si “rappresentano” ai margini dello stesso) sono state rifiutate. Si è capito subito guardando la testa del corteo, già all’inizio di via Cavour. E che alcuni abbiano accettato di esserci in coda, come corpo separato e auto garantito (penso alla Fiom ma anche ad altri), è un ulteriore elemento di questa frattura e manifestazione di impotenza politica. Quella che irrompe nel corteo di Roma è un nuovo soggettivismo di massa che si riconosce solo nella rappresentazione violenta del proprio disagio, in un contesto di violenza del potere mai così forte, imponendo la sua presenza e rischiando di “nullificare” il resto.
2 Questo movimento, gli indignati, la grande massa di gente che ha dato vita al più grande corteo mai visto a Roma senza supporto organizzativo di forze politiche tradizionalmente organizzate, che non credono a pratiche violente, se ne dissocia ma le problematizza senza moralismi perché le sente come una parte “legittimamente” non estranea e che va ricondotta alla “politica” ( anche se l’utilizzo della parola per la verità molto usurata appare dissonante, ma non trovo di meglio). Il collante di tutto ciò è costituito da un dato inedito: tutti si pongono come obiettivo minimo il superamento del capitalismo. E’ un radicalismo di fondo, nuovo, consapevole che neanche il popolo di Seattle aveva. Il soggettivismo del novecento che si esprimeva con l’autonomia del politico e si rappresentava nel “partito avanguardia” oggi è un soggettivismo che non trova altra realizzazione se non nella pratica della violenza. Ancora una volta irrompe sulla scena Carl Schmitt e “la moltitudine” rischia di trasformarsi in “folla”.
3 Dove e quando tutto questo è avvenuto? E noi dove eravamo? E’ avvenuto nella crisi dei partiti, nella rinuncia, dopo la vergogna di tangentopoli, ad avviare la propria autoriforma, all’aver assecondato il mainstream dell’antipolitica salvo poi salvarsi dando luogo a partiti meno democratici e più autoreferenziali di quelli della prima repubblica (Di Pietro docet), ad aver creduto che il “berlusconismo” della prima ora e il neoliberismo potessero essere “blanditi” (qualcuno ricorda la genialata della bicamerale?) o che addirittura contenessero degli elementi di ragionevolezza: siamo stati noi a cominciare, in nome delle compatibilità, lo smantellamento di quel miracolo istituzionale, supportato dalla costituzione, che era il modello, con tutte le sue immani contraddizioni, nato dalla resistenza e che era uscito tutto sommato bene dalla peste del “terrorismo”. Siamo noi che in tempi recenti abbiamo cominciato lo smantellamento dei luoghi in cui questo miracolo si componeva, presi dalle sbornie nuoviste. A partire dalla scuola, da un’autonomia scolastica che ha dato la “stura” al peggio in nome del meglio, da una riforma universitaria che ha svuotato le lauree di cultura e ha moltiplicato baronie e familismo amorale. Ridateci i nostri vecchi baroni universitari conservatori che almeno sapevano quel che dicevano e lo comunicavano in italiano e riprendetevi le fantasiose cattedre che avete “inventato” per i vostri parenti in nome dell’innovazione. La destra, quando è venuto il suo turno, ha solo completato l’opera, certo ci ha messo del proprio e sta perseguendo con costanza il raggiungimento dell’obiettivo finale: la perdita di valore legale del titolo di studio, ci siamo quasi.
4 I luoghi della formazione sono altri, lo sono da molto. La televisione, ma su questo si è detto tanto, troppo per ritornarci. La costruzione di un altro immaginario collettivo, la sostituzione di valori con disvalori e soprattutto lo “stadio”. A Roma è andata in scena, anche nella presenza di teppisti e fascisti, la formazione fatta negli stadi, luoghi dove si è svolta in questi anni una pratica radicale di lotta. Nel sessantotto i fascisti si infiltravano nei cortei per disperderli ed aggredire, oggi vi nuotano come pesci e si interfacciano in una logica di “tacita collaborazione” che ha come unico scopo la pratica di un nichilismo senza sbocco che incontra il nichilismo di altri giovani, che fascisti non sono, che la disperazione della perdita di un futuro spinge alla pratica violenta, non c’è bisogno che si parlino o concordino chissà quale strategia della tensione, siamo piuttosto in presenza di una eterogenesi dei fini. E si badi che questo è ciò che è avvenuto anche altrove, per esempio in Inghilterra dove per prima si sono viste le sigle di Acab, e la pratica della violenza negli stadi, le risse al coltello il sabato sera tra minorenni sono diventate una vera emergenza sociale. Bastava leggere Ballard insieme a Marx per capirlo.
5 Che fare? Sinceramente non lo so. Ma so bene ciò che non bisogna fare. Ricorrere a scorciatoie di altri tempi, spiegare tutto con la categoria del complotto, sbattere il “mostro in prima pagina”, interessante per esempio spiegare questa nuova funzione delatoria del popolo della rete, ma è troppo complicato e merita un discorso a parte che pure dobbiamo fare e dedicare agli orfani inconsolabili di Steve Jobs. Ma neanche girare la faccia dall’altra parte, prendiamoci la responsabilità di ricominciare a produrre politica, smettiamo di credere che l’ultima spiaggia siano sempre le prossime elezioni, che con le primarie si risolvono i problemi del mondo, che la politica è un problema di alleanze, di vecchie e nuove piante, che noi siamo meglio degli altri a prescindere. Riconquistiamoci “la politica”, partiamo dal fare, costruiamo consenso, promuoviamo “comunità” sapendo che anche così non sarà facile; riprendiamoci i quartieri, le piazze in nome della partecipazione, della difesa dei beni comuni e non dell’ordine pubblico e se è necessario poi difendiamole ma solo dopo aver assolto al nostro compito, dopo esserci fatto carico di chi oggi è poco più che adolescente, disperato, senza futuro (sensazione nuova per la mia generazione e quindi poco comprensibile), che vive male, come noi del resto, ma non ha mai vissuto bene.
Antonio Califano – Potenza
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