Essere condannati per la propria tesi di laurea è un fatto che negli ultimi decenni, in Italia, è accaduto solo a chi attingeva a piene mani dagli elaborati di qualcun altro. Copiare il lavoro conclusivo del proprio percorso di studi e spacciarlo come originale configura il reato di truffa, e così viene giudicato e punito, quando scoperto.
Non sono riuscita a trovare, invece, condanne che somigliassero a quella inflitta a Roberta Chiroli, ex studentessa di Antropologia laureatasi con 110 e lode all’Università Ca’ Foscari di Venezia, con una tesi dal titolo “Ora e sempre No Tav: identità e pratiche del movimento valsusino contro l’alta velocità”. L’Accademia l’ha premiata con il massimo dei voti, il Tribunale l’ha condannata per concorso morale alla pena di due mesi di carcere (riconosciute le attenuanti generiche, pena sospesa). La tesi di Chiroli, laureatasi nell’ottobre 2014, ha previsto una ricerca sul campo che, dato l’oggetto del lavoro, doveva necessariamente svolgersi in Val Susa.
L’allora laureanda, con il consenso del suo relatore, decide di recarsi per tre mesi durante il periodo estivo in Valle, seguire le manifestazioni, incontrare i valliggiani e intervistarli. La tecnica è quella dell’”osservazione partecipante”, teorizzata dall’antropologo Bronislaw Malinowski agli inizi del Novecento, e insieme a Chiroli si aggiunge Franca Maltese, dottoranda in Antropoligia all’Università della Calabria.
Le due donne seguono diversi incontri e manifestazioni degli attivisti No Tav, tra cui quella del 13 giugno 2013 organizzata da studenti liceali in campeggio a Venaus, consistita nel volantinare nei pressi della ditta Itinera di Salbertrand. Un gruppo di partecipanti ha bloccato una strada secondaria per qualche minuto, è entrato nella proprietà privata della ditta e ha, sempre per un periodo di tempo molto breve, bloccato l’accesso al cortile interno della Itinera. Uno dei lavoratori della ditta ha ripreso la scena con un telefonino, e in questi video si vedono anche Chiroli e Maltese, come sempre disposte ai margini del gruppo a svolgere il loro compito, appunto, di osservazione.
Di ritorno a Venaus i manifestanti e le due studentesse vengono fermati dalla polizia e identificati. Tutti rinviati a giudizio, quarantacinque persone tra cui quindici minorenni accusate di concorso morale nei reati di blocco stradale, imbrattamento, resistenza aggravata a pubblico ufficiale, violenza privata aggravata, invasione di terreni. Per le due studentesse, l’avvocato difensore Valentina Colletta decide di chiedere il rito abbreviato: fiduciosa nel buon senso della Corte e forte delle lettere delle due Università che sostenevano i progetti di ricerca, era sicura in un rapido proscioglimento per le sue assistite.
Non poteva che trattarsi di un grossolano equivoco, quel rinvio a giudizio. L’equivoco è stato invece supporre – sperare – che la Procura di Torino, distintasi negli ultimi anni per un atteggiamento a dir poco persecutorio nei confronti di chiunque manifestasse la propria vicinanza ai No Tav, sapesse distinguere tra partecipare a un’azione e osservarla per motivi di studio. E forse è anche peggio di così, se le motivazioni della sentenza confermeranno che la condanna di Chiroli sia dovuta all’argomentazione utilizzata dal pubblico ministero durante la requisitoria. E cioè che Chiroli è chiaramente colpevole per aver utilizzato, in alcuni passaggi della tesi, l’espediente narrativo del “noi partecipativo”.
Un pronome troppo empatico evidentemente, secondo il pm, troppo vicino a una realtà come quella dei No Tav che si può raccontare, forse, solo tenendosi a debita distanza. Due mesi di carcere per concorso morale in violenza privata e blocco stradale, solo per esser stata presente e averne scritto in prima persona plurale.
La chiara tendenza della Procura di Torino che in questi anni ha visto un pool dedicato occuparsi alacremente di reprimere attivisti del movimento No Tav con ogni mezzo a disposizione, è diventata ormai una deriva ben documentata, impossibile da smentire. Come ha scritto qualche giorno fa Livio Pepino sul “Manifesto”, non si può più credere ai magistrati che giustificano il gran numero di fascicoli aperti (quasi mille indagati in questo momento) come interventi repressivi disposti non nei confronti del movimento No Tav, ma unicamente come reati specifici commessi da frange estremiste e violente estranee alla Val Susa. La condanna delle due storiche e ultrasettantenni attiviste valligiane del 21 giugno scorso è solo l’ultimo e clamoroso esempio che in questi anni ha visto centinaia di persone condannate, uno scriteriato utilizzo della custodia cautelare in carcere, una pioggia di misure non detentive per reati di lieve entità, misure preventive in assenza di condanne e fogli di via.
Mesi fa abbiamo assistito al processo contro lo scrittore Erri De Luca accusato di istigazione a delinquere per aver detto che “la Tav va sabotata”, assolto perché, si spera, nel nostro Paese ha ancora un senso l’articolo 21 della Costituzione sulla libertà di espressione. O almeno, così lasciava credere quella sentenza di assoluzione. Ma la condanna di Roberta Chiroli dimostra che siamo stati troppo ottimisti, e in attesa che il ministro dell’Istruzione risponda a una delle domande poste da alcune interrogazioni parlamentari – come si può tutelare la piena libertà di ricerca nell’ambito dello studio e della formazione universitaria? – docenti e studiosi di tutt’Italia hanno pubblicato un appello “per la libertà di ricerca e di pensiero”. Valori sì questi da promuovere con cura e attenzione, a differenza della difesa a colpi di sentenze di cantieri che divorano cittadini e montagne.
Valentina Calderone da gli asini