Caso Lonzi: Mio figlio è stato ucciso a botte in carcere, ma lo Stato insabbia tutto da 10 anni
- agosto 30, 2013
- in carcere, malapolizia, violenze e soprusi
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Marcello Lonzi muore nel carcere di Livorno la sera dell’11 luglio 2003. Per la Procura si sarebbe trattato di “morte naturale”, ma la madre, Maria Ciuffi, da 10 anni chiede “la verità” e ora ha deciso di ricorrere alla Corte di Strasburgo per avere giustizia.
“Al cimitero ho visto dove era mio figlio, ho fatto uscire dalla stanza tutti quelli che c’erano. Ho abbracciato la bara e ho detto: “Marcellino te lo giuro, qualcuno pagherà per quello che ti hanno fatto”. E io quella promessa la rispetterò, costi quel che costi”. Così Maria Ciuffi racconta a TgCom la battaglia che combatte dal 2003 per far luce sulla morte del figlio Marcello Lonzi, 29 anni, deceduto mentre era detenuto nel carcere di Livorno.
Marcello Lonzi si trovava nel carcere “Le Sughere” di Livorno, per un una condanna per tentato furto. Muore l’11 luglio del 2003. Per la Procura si è trattata di un infarto, “cause naturali”, ma la madre non ci ha mai creduto e ora porta il caso di fronte alla Corte dei Diritti dell’uomo di Strasburgo e, per sostenere la sua azione, ha lanciato una petizione online che, in meno di quattro giorni, ha già superato le 10mila adesioni.
“Marcello stava bene, non ha mai sofferto di cuore. Questo sarebbe già bastato per insospettire chiunque. Poi ho visto il corpo di mio figlio, i lividi, i segni e ho capito: nessuna morte naturale, qualcuno quell’infarto glielo ha fatto venire a suon di calci e pugni”.
La Procura di Livorno ha però archiviato due volte le indagini sulla morte di suo figlio…
“Ho passato gli ultimi dieci anni a combattere, ho letto gli atti, ho parlato con chi era in carcere con mio figlio. Troppe lacune, troppe stranezze: sì il caso è stato archiviato due volte, ma sempre dallo stesso Gip. Per avere la riesumazione del corpo di Marcello e far eseguire un’autopsia da un medico di parte ho dovuto denunciare il pm di Livorno alla Procura di Genova, che ha disposto un supplemento di indagine. Ma più che un supplemento di indagine era un inizio: è venuto fuori che non era stato mai interrogato nessuno”.
Cosa ha scoperto con i nuovi esami che ha fatto eseguire?
“Mio figlio aveva le costole rotte e non quelle che si rompono quando si fa il massaggio cardiaco per la rianimazione. Altre. Aveva un’impronta di uno scarpone sulla trachea. Aveva il polso rotto. Le foto mostrano chiaramente i segni di un pestaggio”.
Perché pensa che le indagini siano state insabbiate?
“Ci sono troppe cose che non tornano e testimonianze contrastanti. Innanzitutto l’orario della morte. Stando agli atti, Marcello è morto alle 20.14. A parte che non torna con l’orario delle chiamate al 118, ho parlato con il ragazzo che era volontario sull’ambulanza. Ed è stato anche interrogato: lui è intervenuto di giorno non di sera. Lo dice e lo ripete. Ma i carabinieri, presenti durante la deposizione, volevano chiaramente che rispondesse altro. “Non è che era stanco per il lungo turno in ambulanza e non ricorda bene?” gli chiedevano”.
A che ora sarebbe morto suo figlio secondo lei? Non ci sono stati testimoni del malore?
“Mio figlio credo sia morto nel primo pomeriggio. Tornerebbe con quelli che sono i risultati dell’autopsia e torna con molte testimonianze che ho raccolto. Ma spesso queste dichiarazioni sono completamente cambiate di fronte ai pm. Come quella del suo compagno di cella…”
Cosa ha sostenuto il compagno di cella di Marcello?
“Agli atti c’è questa dichiarazione: “Ho sentito un colpo, mi sono svegliato e Marcello era morto”. Ma a me ha detto altro, ha raccontato che non era in cella, perché stava facendo la doccia, dopo aver lavorato tutto il giorno nella falegnameria del carcere. Però davanti ai pm ha cambiato versione perché aveva paura. Questo me lo ha ripetuto più volte: lui era dentro accusato di violenza sessuale, una di quelle accuse che in carcere gli altri detenuti ti fanno “pagare”. Non lo aveva detto a nessuno e raccontava di essere dentro per un furto. Per quello ha cambiato versione, perché aveva paura, o è stato minacciato, che fosse svelata la verità”.
E gli altri detenuti, non hanno visto o sentito niente?
“Mi è stato raccontato da un detenuto che il giorno in cui è morto, Marcello si era preso con un secondino la mattina, ma sembrava finita lì. Poi aveva mangiato. Subito dopo pranzo lo ha visto che lo portavano via. A volte capita che qualcuno sia chiamato in qualche sezione o reparto. Ma non è più tornato in cella. Alle 15.30, cosa molto insolita, hanno chiuso tutti i detenuti nelle celle e non le hanno più riaperte. Quando le celle erano chiuse, questa persona mi ha raccontato di aver sentito correre e urlare”.
Cosa sarebbe successo secondo lei?
“Mio figlio è stato portato in isolamento. E lì è stato barbaramente picchiato. Tanto da fargli venire un infarto. Poi quando si sono resi conto di aver esagerato, hanno cercato di coprire tutto. Per quello hanno chiuso tutti in cella, per poterlo riportare nella sua, probabilmente già morto, senza che gli altri lo vedessero”.
Ha avuto altre conferme in questo senso, altre testimonianze?
“Una donna, una ex detenuta in carcere a Livorno quando c’era anche Marcello, mi ha raccontato di essere stata avvertita nel pomeriggio, e non la sera, che era morto. Pensavano che fosse la sua compagna… E poi un altro fatto inquietante: una guardia sarebbe arrivato di corsa da un’infermiera che lavora a “Le sughere” e le avrebbe detto: “Corri corri mi è morto fra le mani”. Naturalmente di questa testimonianza non c’è traccia negli atti. L’infermiera ha deposto in Procura, poi il giorno dopo è tornata al carcere e ha tentato il suicidio. Successivamente ha cambiato la sua deposizione”.
E gli amici che Marcello aveva in carcere, si sono fatti un’idea di cosa sia successo?
“C’è poco da dire, mi hanno detto: “Maria è così, va così da sempre. A turno tocca a tutti, anch’io ho preso le botte. A me è andata bene. A lui no”. Non hanno dubbi insomma che sia stato picchiato a morte”.
Cosa farà adesso?
“Avevo fiducia nello Stato, credevo che ci proteggesse. Dopo tutto questo non crederò più nella giustizia. È troppo evidente che qualcuno ha voluto insabbiare tutto questo caso. Mi scrivono spesso tanti ragazzi che mi dicono che hanno paura. Paura della polizia, paura di poter entrare in un carcere e non uscirne più. Ma mi scrivono anche dei secondini e degli agenti per chiedermi scusa, perché non tutti sono come quelli che io e mio figlio abbiamo incontrato sulla nostra strada”.
“Adesso spero che l’appello alla Corte di Strasburgo porti a qualcosa. Io voglio solo giustizia, voglio andare a processo. La mia vita da dopo la morte di Marcello, non è stata più la stessa. Prima era la vita, dopo è stato solo il buio. L’ho promesso a mio figlio, chi gli ha fatto questo la pagherà. Costi quel che costi. Sono disposta anche ad andare in galera, ma qualcuno la pagherà”.
Intervista di Cecilia Pierami da www.tgcom.it, 29 agosto 2013
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