Reportage dai campi di transito
Si sale su per i sentieri di Ciaixe, fra gli ulivi della Val Nervia, sopra Ventimiglia. Colori abbaglianti. E all’orizzonte, il mare. Sulla collina, tra le tipiche fasce liguri, una trentina di tende da campeggio. Giovani e meno giovani si danno da fare con un forno improvvisato, un gruppo di migranti, in circolo, tiene un’assemblea. Sono gli ultimi due giorni di campeggio dei No Border. Si prepara una festa con vino, pizza fritta e balli, proiezione di film e dibattito. Si scherza sui 60 fogli di via, e sull’«avviso orale di pericolosità» arrivato a uno di loro. «L’unica frontiera è tra sfruttati e sfruttatori», recita uno striscione. Appeso ai tronchi, il disegno di una nave pirata, e drappi rosso-neri.
«Vedi quanto pericolo c’è qui? – dice una ragazza in canottiera e calzoncini. Ci addestriamo a fare le pizze, non la guerriglia come strillano i giornali». I jihadisti? Indica il bottiglione di vino e la tenuta non certo castigata delle donne: «Qui l’unica minaccia sono le deportazioni quotidiane, i fogli di via e la repressione». E racconta dei trenta kg di pesce offerti dai pescatori ai migranti che sono andati a incontrarli sulla spiaggia, durante i mesi di autogestione «fuori dai percorsi tracciati»: prima l’anno scorso ai Balzi Rossi, in seguito a Roverino, e poi lungo la ferrovia, poco distante dal campo di transito gestito dalla Croce Rossa. E infine per qualche settimana qui, sotto gli ulivi.
Legami forti e nazionalità diverse, dall’Europa e da fuori, «prefigurano un altro mondo in cammino» . I volti dei migranti cambiano, il loro obiettivo è provare a passare. C’è chi li accompagna, rischiando di persona. Già due persone, definite «passeur» e «no border» sono state arrestate in Francia per favoreggiamento dell’immigrazione clandestina, per aver portato due famiglie. Entrambi hanno rivendicato il gesto: «Dignità, libertà, hurriya, senza frontiere, né galere».
Si avvicina un ragazzo africano: «Questa è l’Europa che vogliamo», dice rivolto ai solidali. Un ventenne del Chad, invece, rifiuta di raccontare la sua storia, perché «sono confidenze riservate agli amici». Tra una crocchetta e un bicchiere di vino, parlano invece alcuni sudanesi. Il più anziano lo chiamano il Poeta, per il linguaggio figurato che usa e che la traduttrice dall’arabo cerca di rendere al meglio. Dice di ammirare Mandela e Lumumba. Racconta di aver lasciato il Sudan per motivi politici, perché fa parte del partito di opposizione Giustizia e condivisione, «che vuole più educazione e sicurezza, è contro il razzismo e gli stupri sulle donne e per una Primavera araba anche in Sudan». Per sfuggire «alla violenza dello stato», il Poeta avrebbe voluto andare in Israele, «ma il valico di Rafah era chiuso. Così – racconta – sono andato prima in Chad, poi a lavorare per un anno e mezzo in Libia, dove sono stato picchiato da gruppi armati. Mi hanno spezzato un dito e i colpi in testa mi hanno fatto venire un’infezione interna. Voglio andarmi a curare in Francia, lavorare e recuperare la mia famiglia, ma ogni volta mi riportano indietro».
Anche il più giovane è stato in Libia per tre anni, dov’è stato picchiato e rapinato della paga. Viene dal Kordofan, una ex provincia nel centro del Sudan: «un luogo di guerra, dove se esprimi un’opinione, ti creano problemi. Tuttavia – aggiunge – dopo quello che ho vissuto in Italia vorrei tornare in Libia, e più ancora in Sudan. Credevo di trovare la patria dei diritti umani, invece non ho trovato un cocomero. Sono stato portato avanti e indietro senza spiegazione». Mostra le cicatrici sulla schiena e racconta: «Da Imperia mi hanno deportato in Sicilia. Mi hanno preso le impronte e chiesto dove volevo andare. Ho risposto: in Francia o in Germania. Mi hanno detto: vai. Non avevo niente, sono arrivato a Genova, ho chiesto un’informazione e la polizia mi ha deportato a Taranto. Da lì sono andato di nuovo verso la frontiera. Mi hanno fermato a Ventimiglia e riportato a Taranto. Perché mi dicono “vai” se poi mi riprendono? Perché hanno chiuso la frontiera con la Francia? Con tutto il tempo che ho passato in pullman sarei potuto tornare in Sudan».
Adesso è notte, nello spiazzo ci si abbraccia e si balla, la luna accende gli sguardi, il vino le parole. Circola l’idea di un crowdfunding: per acquistare tutti insieme un terreno dove chi vuole può fermarsi, coltivare la terra e occuparsi degli ulivi all’abbandono: per «resistere e organizzarsi, senza aspettare a testa bassa di essere selezionati nell’esercito industriale di riserva di quest’Europa a filo spinato».
Per entrare al campo di accoglienza temporaneo Parco Roja ci vuole l’accredito della Prefettura. Fuori, staziona un furgone di polizia. Dentro, c’è una postazione fissa dei carabinieri. A chi vuole entrare, viene dato un tesserino con nome e foto, ma non si prendono impronte. Funziona dal 9 luglio su disposizione della Prefettura, è gestito dalla Croce Rossa con il supporto di Caritas e di Articolo 21, un arco di associazioni. «Una struttura concepita per accogliere 360 persone su 60 moduli abitativi ognuno con 6 posti – spiega Valter Muscatello, responsabile del campo – ma poi il numero è salito a 600 e stiamo provvedendo, anche se i flussi si stanno normalizzando». Nei container c’è aria condizionata, il campo è pulito, ci sono le docce, l’infermeria e uno spazio per la preghiera. Alcuni giovanissimi palleggiano, altri giocano a carte.
Problemi con il cibo e botte dai poliziotti? Muscatello nega. «Siamo professionisti dell’accoglienza. Per la gestione del campo ci avvaliamo di alcuni saggi, che ci spiegano le esigenze del gruppo». I Solidali? «A ognuno i suoi ideali. I giornali creano allarmi e speculazioni, come per la morte del poliziotto: è stato un infarto, lo abbiamo soccorso noi. Un incidente sul lavoro, purtroppo, nient’altro».
E ora la questura di Genova ha avviato un procedimento disciplinare nei confronti del sostituto commissario di polizia Franco Scibilia, che durante un servizio a Ventimiglia aveva urlato insulti ai migranti sulla scogliera dei Balzi Rossi ed era stato filmato da un giornalista.
«La gran parte degli ospiti non vuole rimanere, abbiamo poche richieste di asilo e 4 richieste di rimpatrio – dice Muscatello – per chi vuole ritrovare le famiglie il nostro personale dà l’accesso a un cellulare per 3 minuti». Dal 10 agosto, dopo il «piano di decompressione» del capo della polizia Franco Gabrielli, sono oltre 500 i migranti trasferiti negli hotspot e nei Cie del Sud. Vengono rastrellati per strada e fatti salire sui pullman per Genova.
Alla chiesa dei Gianchetti, dopo il cimitero, c’è odore di minestra. Anche qui si entra con il tesserino, ma senza polizia. Ci sono soprattutto donne e bambini. Ci accoglie Francesca, della Diaconia valdese, che fa parte di Articolo 21. Ha una formazione giuridica e fornisce consulenze legali. «Andiamo alla stazione – spiega – intercettiamo i migranti, forniamo informazioni prima che vengano presi dalla polizia, li accompagniamo in macchina. La cosiddetta decompressione è una vera e propria deportazione: anche dei migranti che hanno il tesserino e di quelli che hanno avviato la rilocation – eritrei, iracheni e siriani che possono essere accolti in altri paesi. Vanno alla stazione per il wifi e vengono presi. Con l’avvocata Ballerini abbiamo parlato con il commissariato, ma… Fra chiusure e lungaggini, anche programmi buoni sulla carta, sono un fallimento. La convenzione di Dublino è un fallimento».