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Cinque anni e quattro mesi per un pugno di Euro!?

Comunicato di C.S.O. Pedro e BiosLab a seguito della conclusione del processo per i fatti del 14 novembre 2014

Si è concluso il processo in primo grado scaturito dai tafferugli di piazza del 14 novembre 2014, il giorno dello “Sciopero Sociale” indetto contro lo scempio del Job’s Act che ha di fatto cancellato i diritti dei lavoratori e non ha assolutamente provveduto a risolvere il problema della disoccupazione.

A tempo di record, attivisti di C.S.O. Pedro e BiosLab subiscono quattro condanne a complessivi cinque anni e quattro mesi.Una sentenza inaccettabile, frettolosa, vessatoria e – come al solito- sproporzionata, che ha il sapore dell’intimidazione di inizio stagione politica. Ma ripercorriamo la vicenda dall’inizio.

14 novembre 2014, “Sciopero Sociale”. Precari e studenti in sciopero auto-organizzato attraversano la città reclamando welfare e reddito, ma soprattutto denunciando la presa in giro degli 80€ di Renzi, elargiti per ottenere consenso tra i dipendenti pubblici, quando un’intera generazione vive di lavoro autonomo, occasionale pagato coi voucher, contratti di stage, tirocini o assegni di ricerca che di certo non potevano godere della “magnanimità” del governo. Per rappresentare simbolicamente questa ennesima presa in giro e contraddizione, i manifestanti, armati di fac-simile di soldi di carta, volevano lasciarli sull’entrata della sede del Partito Democratico di via Beato Pellegrino. Ma il PD non si contesta, recapitare un volantino-banconota diventa un assalto alla sede, quando il corteo decide in autonomia di svoltare in via Beato Pellegrino la strada è sbarrata.Se era chiaro ciò che avrebbero voluto fare i precari, studenti e facchini, completamente confusa e disarticolata è stata la gestione della piazza da parte delle forze dell’ordine. Parte una carica esagerata, stile padovano vien da dire; il disordine che ne segue fa cascare a terra il funzionario capo del reparto mobile, chissà perché non ha più il casco, e ne consegue un labbro sanguinante. Due fotogrammi mostrano due “gambe per aria” nella prima fila del corteo, non indirizzate al volto del funzionario e fuori dalla sua traiettoria.

Apriti cielo: “Attentato!”.
Perquisizioni, arresti domiciliari, obblighi di firma per mesi. Il processo arriva a conclusione a tempo di record, dopo poco più di nove mesi ieri sera è giunta la sentenza. Cinque imputati, quattro condanne per cinque anni e quattro mesi. Uno senza ondizionale.

Ci sono tre dati inaccettabili in questa vicenda.

Primo: come ha fatto il Vice Commissario a cadere a terra non lo capiremo mai, ma soprattutto perché nell’ultimo fotogramma in piedi ha il casco, e in quello dopo è a terra, capo scoperto e labbro sanguinante? E chi ha assistito alla scena da dietro le linee della polizia non può scordare come in ultima fila anche altri due agenti siano caduti, travolti dalla loro stessa foga. Colpa dei manifestanti?

In secondo luogo, abbiamo già detto, l’inedita velocità con cui il dibattimento è giunto a termine. Efficienza e competitività, la Procura di Padova ha fatto proprio il mantra dell’era neo-liberista: bisogna arrivare a sentenza, non c’è tempo per ricostruire i fatti. Il punto non è ripercorrere gli eventi, ma chiudere un fascicolo il più in fretta possibile. Poi, se alla sbarra ci sono i protagonisti dell’auto-organizzazione sociale, il punto non è capire cosa è accaduto, se assolvere o condannare, ma come condannare: la sentenza è pre-determinata.

E qui sta il terzo elemento: al termine di un “dibattimento-sprint” attorno ai fatti dalla dinamica estremamente fumosa, la pubblica accusa chiede pene a partire dai tre anni e due mesi. La chiara volontà di affibbiare delle pene repressive per limitare con forza la libertà degli imputati.Insomma, mettendo insieme l’assoluta confusione attorno ai fatti e lo svolgimento sbrigativo del processo, ci mancano le parole per denunciare, ancora una volta, l’oggettiva sproporzione tra fatti, richieste dell’accusa e pena comminata.

Emerge chiaro un dato, l’irrefrenabile voglia di reprimere chi prende parola e si riprende lo spazio pubblico. In una parola: la democrazia, che deve necessariamente vivere nel conflitto e nelle lotte, altrimenti si dà appiattimento omogeneo su di un pensiero unico. Se la forza che si esprime è una sola, allora si chiama dittatura.

Vogliamo lasciare un messaggio forte e chiaro: le piazze e le strade sono casa nostra, di chi non teme di prendere voce e forza, di chi non sa cedere né a ricatti né si fa impaurire da celerini o pubblici ministeri.

Un nuovo autunno di lotte si avvicina: per i diritti sociali, per il reddito, per un welfare universale, per dire forte e chiaro il nostro NO a tutto l’apparato del Partito Democratico al governo, alla faccia di ogni repressione.

C.S.O. Pedro
BiosLab

da GlobalProject