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Caso Fiordiso, tutto da rifare. «Indagini lacunose»

Rigettata la richiesta di archiviazione per la morte in carcere del giovane salentino. Il pm «avrebbe dovuto disporre la riesumazione della salma e un esame autoptico»

Antonio Fiordiso è morto in carcere l’8 dicembre 2015 e ancora oggi dopo quasi un anno di indagini non si sa perché. L’indagine è stata lacunosa e inesistente. Tutto da rifare, perché si possa stabilire «la causa o le cause» che l’hanno ridotto al simulacro di un essere umano nel carcere di Taranto. Pompeo Carriere, giudice per le indagini preliminari della Procura del capoluogo ionico ha accolto la richiesta di Oriana Fiordiso, zia di Antonio, che si era opposta alla richiesta di archiviazione avanzata dal pm Lelio Festa, che aveva evidenziato una «insussistenza di profili di responsabilità penale» nella condotta del personale sanitario e della sorveglianza coinvolti.

Scrive il giudice Carriere che il pm «avrebbe dovuto disporre la riesumazione della salma e un esame autoptico urgente», come aveva chiesto, inascoltata, la zia nella sua denuncia all’indomani della morte del nipote. Il gip ha disposto dunque non solo l’esame autoptico da effettuarsi ma anche, nel caso l’autopsia sia ormai impraticabile, una perizia medico-legale «di scienza» che accerti le cause della morte; ha disposto che vengano sentiti i detenuti, il personale penitenziario e il personale dell’ospedale SS. Annunziata e Moscati di Taranto, dove fu ricoverato Antonio, ormai quasi incosciente, disidratato e denutrito.

«È uno di quei momenti in cui si è fieri di essere avvocato – dice Paolo Vinci, tra i massimi esperti in Italia di malasanità, che con Pantaleo Cannoletta difende Oriana Fiordiso. Il gip ha accolto ogni mia richiesta, azzerando quella del pm Festa e la sua indagine lacunosa e inesistente. Gli ha ordinato autopsia e perizia medico-legale, oltre a sentire testimonianze mai effettuate. Occorre chiarire le cause della morte di Antonio e capire chi, probabilmente col suo comportamento colposo, lo ha ucciso. Ora siamo sulla via maestra».

Che ci sia tanto di non scritto sulla morte di Antonio Fiordiso lo capiamo leggendo la cartella clinica e vedendo le foto e i video che Oriana ha avuto la prontezza di girare poco prima che Antonio spirasse: il corpo ridotto a uno scheletro, contratto, ematomi diffusi ed escoriazioni. Sulle costole e sui fianchi strisce di lividi lunghi e larghi circa tre centimetri. Le mani contratte, il corpo rigido e contorto.

Dopo la denuncia del manifesto, Elisa Mariano (Pd) e Salvatore Capone (Pd), deputati salentini, hanno presentato un’interrogazione a risposta scritta, in cui chiedono di sapere come sia stato possibile che un ragazzo che godeva di ottima salute sia potuto morire in tre mesi e ridursi a un fantasma tumefatto. La risposta del ministro della Giustizia ricostruisce cronologicamente i ricoveri e le dimissioni dai vari ospedali e i tanti spostamenti tra gli istituti penitenziari di Lecce, Taranto e Asti. Si apprende così che Antonio, poco prima del ricovero che lo farà precipitare nell’abisso, era stato picchiato in carcere da un gruppo di rumeni e ricoverato al pronto soccorso. Uscito dal pronto soccorso, inizia ad avere atteggiamenti aggressivi e autolesionistici, tanto da essere sottoposto al trattamento sanitario obbligatorio presso l’ospedale Vito Fazzi di Lecce. È l’inizio della fine: viene trasferito al carcere di Asti per oltre un mese e la zia Oriana perde le sue tracce: lo saprà solo dopo, nessuno le comunica il trasferimento. Poi di nuovo torna a Lecce, poi a Taranto, dove morirà.
Antonio aveva 32 anni ed era un povero ragazzo sfortunato. Buono e sfortunato. Abbandonato dalla madre, era vissuto con la nonna perché il padre entrava e usciva dalla galera e aveva problemi psichiatrici.

Anche Antonio, con quel fardello di vita sulle spalle, era sottoposto a cure psichiatriche e faceva piccoli furti. Non aveva mai assunto droghe pesante e c’è chi, nel suo paese d’origine, San Cesario, un bel centro barocco alle porte di Lecce, lo ricorda con simpatia, perché rubava dalle casse dei tabacchini e poi il giorno dopo restituiva il «di più», cioè quello che non gli serviva. Sfortunato e infelice, ma godeva di ottima salute.

Eppure in soli tre mesi le cartelle cliniche dicono che s’era ridotto così: «Stato settico in paziente con polmonite a focolai multipli bilaterali. Diabete tipo 2. Grave insufficienza renale. Tetraparesi spastica», e apprende che versava in uno stato di «progressiva astenia, con tremori, ipoalimentazione e progressiva chiusura relazionale». Le nuove indagini stabiliranno il perché?

Marilù Mastrogiovanni da il manifesto