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Egitto: Al-Sisi “legalizza” la repressione

Arrestata la nota attivista Azza Soliman. Per la Corte Suprema la legge anti-manifestazioni è costituzionale ma la base ribolle, strangolata dalla crisi. Il Cairo guarda a Gaza, mercato prigioniero da 3 miliardi di dollari l’anno

Mentre a Roma la procura generale egiziana consegnava i documenti chiesti ad aprile sul caso Regeni, al Cairo si registravano gli stessi abusi dei primi tre anni di governo golpista: la nota attivista per i diritti delle donne, Azza Soliman, fondatrice del Center for Egyptian Women’s Legal Assistance, è stata arrestata.

La detenzione è legata al caso del 2011 quando 43 dipendenti di ong furono accusati di aver ricevuto fondi esteri illegalmente. Già a novembre le era stato impedito di uscire dal paese e il suo conto bancario era stato congelato, procedura che colpisce da 5 anni ong e attivisti, giustificata dalla famigerata legge sulle organizzazioni non governative.

Dopo le proteste della società civile, il mese scorso il parlamento ha approvato una nuova legge. Ma invece che ampliare gli spazi di attività delle ong, li riduce ancora mettendole nelle mani di governo e servizi segreti.

Così il presidente al-Sisi “legalizza” il controllo capillare su movimenti politici e sociali. Pochi giorni dopo la legge sulle ong, è toccato a quella anti-proteste che dal 2013 ha permesso l’arresto di migliaia di attivisti e cittadini e il soffocamento manu militari di ogni protesta spontanea o organizzata.

Sabato la Corte Suprema ha dato la sua benedizione, definendo la legge costituzionale e limitandosi a chiedere la revisione dell’articolo 10, con cui il governo si arroga il diritto di impedire una manifestazione pre-autorizzata. Perché su questo si fonda la normativa: ogni protesta va notificata alla polizia che dà o meno il permesso a scendere in piazza.

Martedì il governo ha presentato un emendamento all’articolo 10: per bandire una manifestazione autorizzata, il Ministero degli Interni dovrà ottenere prima il permesso dal tribunale. Ma l’impianto della legge resta intatto, grazie agli articoli 7, 8 e 19 che individuano reati e rispettive pene (fino a 5 anni di prigione e multe da 2.600 a 5.200 euro).

E la modifica del solo articolo 10 non fornirà ai prigionieri gli strumenti per ricorrere in tribunale: praticamente tutti sono stati incarcerati con qualche reato a corredo, disturbo alla quiete pubblica o danneggiamento di proprietà pubbliche e private.

Il Cairo opera chirurgicamente, usando polizia, servizi e magistratura per creare un sistema inattaccabile, un’infrastruttura della repressione protetta da leggi regolarmente approvate dal parlamento e dunque teoricamente rispettose del processo democratico. Ma la base ribolle: alla repressione si affianca una crisi economica che sfianca le classi medio-basse. Con il 28% degli egiziani oggi sotto la soglia di povertà le proteste spontanee, seppur ancora limitate, spuntano in ogni angolo.

Il regime prova a correre ai ripari, ma finora i prestiti miliardari di Fmi e Banca Mondiale sono arrivati accompagnati da diktat che peggiorano le condizioni di vita. Ieri il ministro della Cooperazione Internazionale ha parlato di un piano triennale di riforme per attirare investimenti stranieri, rivitalizzare la produzione industriale e creare posti di lavoro. Ma tra le previsioni c’è un altro taglio ai sussidi, gli unici in grado di sostenere le famiglie più povere e già decurtati.

Per affrontare la crisi c’è anche chi pensa alla vicina Gaza: massacrata dalle politiche anti-Fratelli Musulmani di al-Sisi, alla Striscia gli uomini d’affari egiziani guardano come ad un mercato prigioniero e dunque sfruttabile. Più o meno la stessa visione israeliana. Così mentre l’esercito continua ad allagare i tunnel con cui i gazawi contrabbandano beni (dopo la distruzione di oltre mille tunnel, ci spiegano da Gaza, è ripresa la costruzione di gallerie più piccole e dotate di tubature per convogliare l’acqua usata per farli collassare), a novembre le autorità del Cairo hanno invitato economisti e imprenditori palestinesi per discutere una futura collaborazione commerciale.

Ciò permetterebbe di accedere ai 3 miliardi di dollari che Gaza spende ogni anno in importazioni da Israele, l’ingresso in un’enclave in cui mancano materiali da costruzione e beni di prima necessità, acqua e elettricità. Questa sarebbe una delle ragioni del negoziato segreto con la Fratellanza, di cui Hamas è parte. Il Cairo nega, ma le voci non si spengono.

Chiara Cruciati da il manifesto