Betlemme, territori occupati palestinesi
In contrapposizione ai cosiddetti luoghi antropologici, Marc Augé definisce i nonluoghi come tutti quegli spazi che hanno la prerogativa di non essere identitari, relazionali e storici. E’ questo sicuramente il caso dei campi profughi, contesti cui il conflitto arabo-israeliano ci ha da tempo abituati per via della sua durata, durezza e per le impari forze in gioco. Campi che, giunti al vertiginoso numero di 62 (UNRWA, 2015), mirano a dare alloggio ad una buona fetta di quella che risulta essere la più consistente popolazione rifugiata al mondo: secondo le stime ONU (2015) sono infatti più di 5 milioni i Palestinesi che dal 1948 vivono lontani dalla loro terra d’origine.vLuoghi dalla fisionomia multiforme e sfaccettata che, quando si trovano in Cisgiordania, vedono sovrapporsi alle problematiche economiche, sociali e sanitarie anche le asfissianti dinamiche dell’occupazione israeliana: Aida ne è un esempio emblematico, e l’appena trascorsa giornata mondiale dei rifugiati un buon pretesto per parlarne.
Situato su un lembo di terra ai margini settentrionali della città di Betlemme, occupa una superficie inferiore al chilometro quadrato in cui sono stipate più di 3000 persone: l’assenza di un ospedale interno del campo, le cattive condizioni delle infrastrutture e la vicinanza del muro di separazione israeliano causano non pochi disagi alla popolazione locale, facendo registrare livelli di disoccupazione che sfiorano il 50%.
Dopo gli Accordi di Oslo la maggior parte del campo è passata sotto giurisdizione palestinese ma la vicinanza al muro ne ha fatto una sorta di zona cuscinetto tra Area A e Area C, rendendolo un costante teatro di scontri e incursioni da parte dell’esercito israeliano che non perde occasione per ostentare la sua potenza militare a danno della popolazione civile, con una particolare predilezione per i giovani: le stime UNRWA parlano di 282 feriti nel 2014 (33 minori), contro i 215 (di cui 49 minori) dell’anno precedente.Secondo quanto riportatoci da un responsabile dello “Aida Youth Center” le operazioni militari israeliane hanno portato, nel solo 2016, all’arresto di circa 25 giovani fino ai 14 anni e di 35 ragazzi tra i 14 e i 18 anni: sono le cifre hanno spinto me e altri due volontari ISM a fare interviste sul campo ai genitori e ragazzi direttamente coinvolti.
Qui è possibile vedere il video dell’aggressione: https://www.facebook.com/aidacamp111/videos/629662347235721/
E’ quanto ci racconta il padre di Amir Mahmoud, 13 anni, uno dei ragazzi arrestati durante l’incursione attentamente orchestrata del 10 Ottobre scorso, accusato di “lancio di oggetti con l’intento di ferire” e di aver picchiato un soldato; utile precisare che le accuse mosse a danno dei ragazzi, oltre che di pura fantasia, si riferiscono alle contingenze stesse dell’arresto dato che nessuno dei ragazzi aveva precedenti: Adam Derwash, 16 anni, viene per esempio accusato di possedere delle biglie con “l’intento di lanciarle”.Pestare, arrestare e successivamente creare accuse ad hoc è usanza diffusa da queste parti.
“Durante l’arresto mi hanno scaraventato contro il muro rompendomi il naso e subito dopo ho ricevuto un pugno sul viso. Ci hanno bendati, ammanettati e portati alla base militare più vicina: alla mia richiesta di allentare un po’ le manette il soldato ha risposto stringendole ulteriormente. I miei amici erano sicuramente in altre stanze a poca distanza da me perché potevo sentirli piangere. Non ho mai avuto così tanta paura.”
Il suo interrogatorio, iniziato con una pistola sul tavolo, si svolge illegalmente senza la presenza di un avvocato o un genitore: Amir racconta di come l’atteggiamento del suo interlocutore, una volta resosi conto che il ragazzino non intendeva parlare, sia velocemente cambiato da un nervoso gesticolare ad uno sbraitare confuso in cui il soldato insultava lui e la sua famiglia, finendo poi col picchiarlo. La voce tremante di Amir rende l’idea di quanto questi eventi l’abbiano scosso nel profondo.La cauzione per il rilascio viene fissata a 6000 INS (circa 1500 Euro), cifra che per un’indigente famiglia del campo può corrispondere anche a quattro mesi di stipendio, con il chiaro e subdolo obiettivo di estorcere denaro e mettere un’altra famiglia sul lastrico.Una sorte molto simile è toccata al tredicenne Dawud Sharaa: il suo interrogatorio inizia alle 2 della notte immediatamente successiva all’arresto, dopo quattro ore trascorse al gelo bendato, ammanettato e con l’ordine di farsela addosso nel caso avesse avuto bisogno di andare al bagno.
“Mi hanno portato in uno stanzino dicendomi che non ne sarei uscito finché non mi avessero sentito confessare ciò di cui mi accusavano. Mi hanno deriso, sputato addosso e dal momento che non volevo parlare hanno iniziato a picchiarmi e insultarmi. Finito l’interrogatorio mi hanno messo in una cella temporanea su cui era stato installato un serbatoio d’acqua in modo tale che, a cadenza regolare, delle gocce di acqua gelida mi cadessero su corpo. Ricordo che ogni volta che mi addormentavo il soldato di guardia mi svegliava prontamente col calcio del suo M16, tremavo dal freddo e dalla paura.”
A questo punto una domanda sorge spontanea: a cosa è dovuto questo aumento nel prendere di mira i ragazzi del campo? Qual’è l’obiettivo della dirigenza israeliana? E’ ciò che ho chiesto al padre del quattordicenne Motaz Ibrahim Msalm, che in circostanze diverse la notte del 5 Ottobre ha visto la sua casa presa d’assalto dalle forze israeliane: strattonato a forza fuori dal letto è stato sbattuto contro il muro, ammanettato e tenuto in cella a scopo preventivo per cinque giorni. Come giustificazione per l’accaduto le forze occupanti si sono espresse con un “il ragazzo poneva seri problemi di sicurezza”. Anche lui come gli altri non aveva alcun precedente ed è stato sottoposto ad un interrogatorio simile a quelli sopra descritti.
“Per creare una generazione strangolata dal terrore”, ha risposto il padre, “Una generazione che abbia paura di lasciare la propria casa, di andare alla moschea, di giocare per strada. Ma soprattutto una generazione che abbia paura dell’esercito, paura di resistere. Vogliono stroncare l’ardore dei nostri ragazzi lasciando nei loro cuori un segno indelebile, in modo tale che se lo portino appresso per tutta la vita: uno shock che non consenta loro di alzare la testa di fronte alle ingiustizie che sono costretti a vivere ogni giorno”.
Uno dei padri ci racconta di come dopo i fatti narrati suo figlio abbia iniziato a svegliarsi la notte urlando, a bagnare il letto, a spaventarsi per minimi suoni notturni e a sviluppare un diffuso senso di paranoia nei confronti del mondo esterno. Di come sia più diffidente nei confronti degli sconosciuti e in generale più nervoso e violento nel rapportarsi con parenti ed amici.
Come se l’assistere alla quotidiana demolizione di case, alla costruzione di muri, all’umiliazione costante e all’espropriazione sconsiderata della terra dei loro avi non fosse abbastanza, da qualche anno a questa parte l’occupazione ha iniziato a prediligere declinazioni e sfumature più viscide, che mirino a sradicare dal cuore della società palestinese ogni desiderio di resistenza verso l’intransigente potenza occupante. Subdoli metodi coercitivi di violenza fisica e mentale che sarebbe un eufemismo non chiamare torture.
Che nel ventunesimo secolo un apparato statale, peraltro ipocritamente capace di dipingersi agli occhi del mondo come “l’unica democrazia mediorientale”, sia capace di mettere in atto simili metodi repressivi a danno di inermi ragazzini dovrebbe smuovere le coscienze di ciascuno di noi, e qualora non riesca spingerci all’azione almeno ci sproni a interrogarci sulla liceità di realtà istituzionali fintamente egualitarie e democratiche come lo Stato israeliano.
HURRA HURRA FILASTIN!
da InfoAut