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Da Washington a Bruxelles respingimenti in frontiera, discriminazione e assenza di regole

Democrazia e stato di diritto sotto attacco da parte di chi sfrutta l’immigrazione per conquistare consenso elettorale.

L’ordine esecutivo firmato dal nuovo presidente Usa Donald Trump il 27 gennaio scorso ha sospeso per tre mesi il diritto di ingresso negli Stati Uniti per i cittadini siriani, iraniani, iracheni, libici, somali, sudanesi e yemeniti, anche se in possesso di documenti di soggiorno o di un regolare visto di ingresso. Per effetto di questo ordine, che sovverte il sistema delle fonti del diritto negli Stati Uniti, violando il Quinto Emendamento della Costituzione degli Stati Uniti, tutte le Convenzioni internazionali contro la Tortura ed in favore dei rifugiati (Convenzione di Ginevra del 1951), le norme interne in materia di cittadinanza ed immigrazione ( Immigration and Nationality Act), centinaia di immigrati e rifugiati sono stati arrestati negli aeroporti di arrivo. Altri sono stati bloccati negli aeroporti di mezzo mondo senza potere ritornare nelle proprie case ed ai propri impegni lavorativi. L’amministrazione Trump sta mettendo in opera una politica che avrà effetti devastanti sui rapporti tra gli Stati Uniti ed i paesi di provenienza di migranti e rifugiati. Una politica di esclusione che dovrebbe garantire maggiore sicurezza interna, che passa anche attraverso il rilancio delle missioni militari all’estero, come è successo, con esisti già disastrosi nello Yemen. Si bloccano le persone in fuga quando arrivano in frontiera e si uccidono i civili nei paesi dai quali si è costretti a partire per i conflitti in corso.

Negli aeroporti americani Sono stati bloccati anche titolari di uno status di protezione, già riconosciuti dall’UNHCR e titolari di un visto di ingresso negli Stati Uniti. Solo grazie  alle proteste della società civile ed all’impegno di associazioni impegnate nella difesa dei diritti civili, come  l’Unione Americana per le libertà civili, è stato possibile raggiungere un Giudice federale che a New York ha sospeso parzialmente, fino ad una prossima udienza fissata a febbraio,  il respingimento di due cittadini iracheni già legalmente residenti negli Stati Uniti, uno dei quali addirittura aveva collaborato per anni come interprete con le forze armate americane nella guerra in Iraq.

Il provvedimento firmato dalla Giudice Federale Donnelly ricorda come i ricorrenti hanno una forte probabilità di vincere il ricorso nel merito. In quanto il bando di Donald Trump appare evidentemente lesivo del principio del giusto processo e della non discriminazione che caratterizzano la Costituzione degli Stati Uniti.

Appare importante rilevare come la polizia degli Stati Uniti abbia bloccato negli aeroporti di arrivo immigrati privati del diritto di fare valere i diritti di difesa, al punto che non hanno potuto neppure nominare i loro avvocati. I ricorsi davanti ai giudici federali sono infatti sottoscritti dai rappresentanti di associazioni umanitarie che in virtù della normativa statunitense possono ricorrere anche per conto e nell’interesse di soggetti privati dei diritti di difesa. Una possibilità che ancora non è riconosciute alle organizzazioni umanitarie attive in Italia.

Le associazioni americane non smetteranno certo domani di contrastare le folli politiche della Presidenza Trump, che vorrebbe addirittura espellere undici milioni di immigrati irregolari, gli stessi che per anni l’amministrazione Obama non è riuscita a regolarizzare per effetto dell’opposizione repubblicana. Una situazione che rischia di fare deflagrare adesso, dall’interno, l’intera società americana, soprattutto nelle grandi città dove la concentrazione degli immigrati in attesa di regolarizzazione è più alta.

Quanto sta avvenendo negli Stati Uniti, con la guerra dichiarata da Trump agli immigrati, con il blocco degli ingressi alle frontiere aeroportuali, e la minaccia di espulsioni di massa, sta determinando reazioni anche in Europa, dove però non si percepisce che, al di là delle critiche a Trump, effetto della preoccupazione di un nuovo orientamento degli ingressi nell’Unione Europea,  Bruxelles, ha intrapreso da tempo una politica dell’immigrazione e dell’asilo che, in modo più sottile, produce gli stessi effetti di abbattimento delle regole dello stato di diritto  effetto dei provvedimenti di Trump.

Il Processo di Khartoum e i Migration Compact sono già base per accordi con paesi che non rispettano i diritti umani e che producono un numero sempre maggiore di persone in fuga, che adesso, per effetto di questi accordi, rischiano di essere rigettati nelle galere dei paesi di origine. Anche i paesi europei stanno chiudendo la porta in faccia ai potenziali richiedenti asilo, e le nuove agenzie della sicurezza come la Guardia di Frontiera e Costiera Europea, già definite come FRONTEX PLUS,  stanno diventando lo strumento operativo per operazioni di allontanamento forzato e di detenzione ancora prive di basi legali. Come la detenzione negli Hotspot e i rimpatri in Nigeria e Sudan.

La Cancelliera Angela Merkel che ha promosso un accordo infame tra Unione Europea e Turchia, per bloccare la rotta balcanica  e respingere persino i cittadini siriani, la Merkel che ordina i rimpatri forzati in Afghanistan, non ha certo la legittimazione per guidare le proteste dei capi di governo europei contro la “svolta” americana. Anche le critiche di Teresa May  sono frutto di preoccupazioni interne e rimangono in una ottica “nazionalista”, ma non riescono ad imprimere all’Unione Europea la spinta per una svolta e, soprattutto, per una diversa politica comune. Il blocco dei paesi orientali dell’Unione, il cd. Gruppo di Visegrad, capeggiato dall’Ungheria di Orban, sta praticando un blocco alle frontiere anche nei confronti dei richiedenti asilo, che, nel gelo dei Balcani, sta seminando morte e disperazione. Non è un caso l’appoggio fornito da Orban a Trump, all’insegna delle politiche di chiusura delle frontiere e di tolleranza zero nei confronti dei migranti.

Anche paesi che hanno tradizioni più solide in materia di accoglienza, dopo l’apertura ordinata dalla Merkel nel 2014, stanno chiudendo drasticamente le proprie forntiere e cercano in tutti i modi di allontanare i richiedenti asilo denegati, mentre le Commissioni che decidono sulle istanze di protezione internazionale sono costrette ad adottare criteri sempre più restrittivi. Anche la Svezia progetta da tempo di espellere i richiedenti asilo denegati, un progetto politico e di polizia che appare ben lungi dal realizzarsi, ad un anno del suo primo annuncio. Sarebbe tempo di prendere atto che le espulsioni di massa non sono una risposta ai dinieghi inflitti ai richiedenti asilo. Forse sarebbe bene che anche il ministro dell’interno Minniti si accorga del fallimento dell’esperienza svedese (e tedesca). E magari sarebbe bene bloccare i trasferimenti Dublino da paesi che non garantiscono all’Italia la Relocation promessa, in cambio di un maggior rigore nelle identificazioni attraverso il prelievo delle impronte digitali,  con l’Agenda europea delle migrazioni nel 2015, una promessa tradita.

Malta, già sede nel 2015 di un Vertice internazionale con i principali paesi africani, ha inaugurato il semestre di presidenza dell’Unione Europea  con una serie di incontri finalizzati alla chiusura della Rotta del Mediterraneo centrale, con i rinnovati accordi con la Guardia Costiera libica, patrocinati dall’operazione europea  Eunavfor Med che cura periodicamente la formazione di agenti di collegamento, per incrementare la capacità di intervento delle motovedette libiche, nelle attività di blocco dei barconi carichi di migranti che partono dalle coste libiche. Il primo ministro dell’interno che ha visitato Malta all’inizio dell’anno è stato proprio il ministro Minniti, che ha discusso con il suo mologo maltese il dispiegamento delle forze navali al largo delle coste libiche e la futura apertura in Libia di un centro di raccolta e dis elezione dei migranti, dove dovrebbero essere chiamate ad operare anche agenzie umanitarie come UNHCR e OIM.

Nella successiva riunione dei ministri dell’interno a Malta il 27 gennaio scorso, lo stesso giorno dei bandi di Trump,  e giornata della memoria dell’olocausto nazista, anche a Malta si sono elaborati piani per bloccare i migranti prima ancora che potessero raggiungere le coste europee per presentare una richiesta di asilo. Tutte le vie legali di ingresso in Europa rimangono così sbarrate, si pensa a progettare campi di raccolta anche in Niger, tanto per i migranti forzati quanto per i cd. migranti economici, una categoria non prevista dalle nostre leggi, che serve soltanto per adottare provvedimenti di respingimento e di espulsione di massa.

Si prepara così il Vertice dei capi di stato dell’Unione a Malta il prossimo 3 febbraio, all’insegna delle politiche di blocco e di esclusione, di chiusura delle frontiere interne con la Sospensione del Regolamento Schengen, con il rinforzo di tutte le agenzie di sicurezza e di monitoraggio, ma senza una chiara base legale per la operazioni di arresto e deportazione.

I progetti di mozione finale per la prossima Conferenza di Malta sono tutti orientati alla riduzione del numero, al contenimento delle partenze, ai controlli della frontiera libica meridionale, alla promozione dei ritorni volontari nei paesi di origine, tutti ritengono la Libia come uno snodo centrale, come di fatto è per il numero dei migranti che vi transitano, ma non si percepisce che in Libia manca un’autorità centrale consolidata, manca una polizia che rispetti un barlume di stato di diritto ed una magistratura indipendente. Ora Angela Merkel  se ne è accorta ed ha rilasciato una dichiarazione  che segna già il fallimento della conferenza.

Con il finto intento umanitario volto al soccorso delle migliaia di migranti costretti ad attraversare il mare tra la Libia e l’Italia, si sta cercando soltanto di facilitare le operazioni di blocco in mare delegate alla Guardia costiera libica, operazioni che già in passato sono costate decine di vittime, ritrovate dopo giorni dai naufragi, arenate sulle spiagge libiche.

Si dimentica troppo facilmente quante volte i tentativi di esternalizzazione dei controlli di frontiera siano falliti tutte le volte che, piuttosto di fornire  occasioni legali di ingresso e aiuti alle popolazioni civili che rimangono nei campi profughi, si è privilegiata la politica degli accordi tra autorità di polizia per il rimpatrio o il respingimento dei cd. clandestini.

Si continuano a ricercare intese con autorità di polizia che poi, nei paesi di origine, sono ampiamente infiltrate dai trafficanti e generalmente colluse. Succede poi che dopo avere incassato i primi aiuti economici i paesi di origine ritornano a consentire le partenze, magari come pretesto per alzare ancora il prezzo della propria collaborazione con l’Unione Europea. Prima di esternalizzare i controlli di frontiera, delegandoli ai paesi di transito, si dovrebbero “esternalizzare” il rispetto dei diritti umani, le garanzie di non essere arrestati o torturati per il capriccio di un capo milizia, il diritto a praticare una religione o a non essere perseguitati per il sesso o per le opinioni politiche. Se non si aiuta l’Africa a vincere la battaglia contro la corruzione e per la democrazia, qualsiasi misura espulsiva o di “contenimento” finirà soltanto per arricchire quelle lobby politiche militari che sono all’origine delle partenze verso l’Europa. Il Mediterraneo deve ritornare un mare di scambio e di mobilità, non è neppure pensabile costruire frontiere sull’acqua, o blindare coste che comunque non sono controllabili neppure con radar e droni.

In questa direzione, e non certo verso un blocco navale, occorre andare per una pacificazione della Libia, verso una soluzione diplomatica del conflitto sempre più acceso tra il governo Serraj a Tripoli, sostenuto dalle Nazioni Unite, ed il generale Haftar, che gode dell’appoggio dell’Egitto e della Russia, che ha schierato già le sue navi davanti le coste della Cirenaica.  I progetti di blocco navale delle acque libiche elaborati dai vertici di Frontex e di Eunavfor med sono destinati a restare nei cassetti, fino a quando non si sarà raggiunta un intesa tra le diverse forze che si contendono la Libia. Prendere atto di questa situazione sarebbe già un progresso, ma è dubbio che dal prossimo Vertice di Malta del 3 febbraio venga fuori questa comune base di valutazione.

L’Unione Europea dovrebbe poi occuparsi della situazione dei richiedenti asilo nello spazio Schengen, e favorire di nuovo una mobilità controllata, evitando lo scandalo delle morti per assideramento di tanti migranti intrappolati nei paesi della rotta balcanica, paesi che da tempo hanno chiuso le frontiere, come adesso sta facendo l’America di Trump.

La Relocation è totalmente fallita, il reinsediamento di migranti da paesi terzi è ferma in tutta Europa a qualche decina di migliaia di persone, quando negli Stati Uniti sono stati molto più aperti, fino ad oggi, con l’amministrazione Obama, nell’accettare migranti in fuga da paesi in guerra o nei quali rischiavano di essere perseguitati. Le prospettive di riforma del Regolamento Dublino III sono assai restrittive, anche nei confronti dei minori non accompagnati e di quanto dovrebbero avvalersi del ricongiungimento familiare.

Per una seria politica europea in materia di immigrazione e asilo dovrebbe capovolgersi la prospettiva. Piuttosto che inseguire la  via degli accordi con paesi terzi per bloccare l’arrivo di migranti, che comunque arrivano, e arriveranno, in condizioni sempre peggiori, dopo mesi di abusi e torture in Libia, occorre garantire procedure eque e trasparenti per il riconoscimento dello status di protezione,  sistemi efficaci di accoglienza che non alimentino contrapposizioni con le popolazioni residenti. Occorre garantire una distribuzione equa dei richiedenti asilo e dei rifugiati in tutti i paesi dell’Unione Europea, rispettando però le esigenze individuali e delle famiglie, e soprattutto garantendo procedure e qualifiche uniformi, in modo anche da favorire la mobilità secondaria. Questo dovrà essere il nuovo Regolamento Dublino IV.

Mentre a Malta si discuterà dell’ennesimo giro di vite contro l’immigrazione irregolare e di pattugliamenti nelle acque libiche per bloccare le partenze, occorre che l’Unione Europea, se ancora vuole definirsi tale, riesca a introdurre regole certe ed uniformi per l’esame delle domande di asilo, senza sotterfugi procedurali, come le procedure accelerate che vorrebbe introdurre il ministro dell’interno Minniti, per arrivare più rapidamente a provvedimenti di diniego, e quindi di espulsione, o come le minacciate riforme processuali del ministro Orlando, che vorrebbero annullare il grado di appello e privare i ricorrenti asilo denegati del diritto al contraddittorio, limitandone sostanzialmente i diritti di difesa, in violazione dell’art. 24 della Costituzione italiana. Se a livello europeo non si riuscirà a fare un passo avanti nella direzione di una più equa formulazione del Regolamento Dublino, dovrà essere l’Italia ad adottare una normativa interna che consenta una magguore mobilità ai migranti che vengono sbarcati dopo essere stati soccorsi nelle acque tra la Libia e la Sicilia. Un compito immane, che ricade prevalentemente sulla Marina e  sulla Guardia Costiera italiana, dopo che i bandi di Frontex e della Commissione Europea, con le minacce rivolte agli operatori umanitari, hanno fatto sospendere la maggior parte delle missioni civili di soccorso.

In una ottica di riforma delle procedure amministrative tuttora attuate senza una effettiva base legale, con specifico riferimento all’ Approccio Hotspot, l’Italia, come del resto la Grecia non possono di essere destinate a primo recinto di protezione delle frontiere interne dello spazio Schengen, con una esternalizzazione dei controlli fino alla Libia, al Niger ed al Sudan, lo stesso Sudan che per Trump non è “ paese terzo sicuro”, e con un blocco poi alle frontiere di Ventimiglia, di Chiasso, del Brennero, di Gorizia. Se si accetta questa logica, se non ci si ribella ai diktat europei, l’Italia, come già la Grecia, diventerà un immenso campo di detenzione a cielo aperto, con effetti devastanti sia sui migranti che sui rapporti tra questi e la popolazione residente. Occorre guardare alla protezione delle persone, dei soggetti più vulnerabili,  dei minori, delle vittime di tratta, non soltanto alla difesa dei confini. Su questo terreno vanno praticate politiche nazionali che non potranno attendere l’autorizzazione della Commissione o del Consiglio. Ma su questi temi si dovrà dare battaglia a Bruxelles, non soltanto come questione economica, ma come questione morale che tocca il fondamento stesso dell’Unione Europea.

Il fallimento acclarato della Relocation in favore di Italia e Grecia (non oltre il 7-10 per cento delle persone che avevano ricevuto la promessa di ritrasferimento hanno potuto raggiungere altri paesi europei) impone adesso misure legislative e regolamentari tali da riconoscere nei tempi più brevi documenti di soggiorno e di viaggio validi. Permessi di soggiorno temporanei e visti di transito costituiscono l’unica soluzione possibile per decongestionare il sistema di accoglienza italiano e favorire la mobilità secondaria verso altri paesi in condizioni di legalità.

Occorre garantire sicurezza ed accoglienza ai minori non accompagnati che devono essere ospitati solo in strutture accreditate di grandezza medio-piccola, non oltre 25 persone. La nomina dei tutori deve avvenire senza indugio e vanno creati albi di tutori volontari. Vanno sanzionati tutti i gestori di centri ed i pubblici ufficiali che non rispettano l’obbligo di una nomina tempestiva dei tutori. Da parte degli uffici immigrazione delle questure non va ostacolato il rilascio immediato del permesso di soggiorno per minore età, in conformità alla legislazione vigente.

Le potenziali vittime di tratta vanno identificate e monitorate, già allo sbarco e quindi negli Hotspot, quando questi si trasformano in centri di prima accoglienza, che non devono diventare luoghi di detenzione amministrativa. La prosecuzione del trattenimento di potenziali vittime di tratta aumenta le possibilità di ricatto e di ripresa da parte delle organizzazioni criminali che riescono a controllarle anche all’interno delle strutture, soprattutto nei casi di maggiore affollamento e promiscuità, come appunto si verifica all’interno degli Hotspot siciliani. Problema che va affrontato con particolare attenzione nei centri di accoglienza “satelliti” del sistema Hotspot, il CARA di Mineo e l’HUB di Siculiana ( Agrigento).

Non si dovranno aprire nuovi CIE sfruttando la larga discrezionalità amministrativa  concessa al ministero dell’interno ed alle questure dalle procedure operative che dettano le regole ( ancora prive di basi legali) dell’approccio Hotspot.

Gli accordi di riammissione e in genere gli accordi bilaterali che avranno ad oggetto la mobilità dei migranti dovranno essere conclusi soltanto con paesi che rispettano i diritti fondamentali della perona umana. Non si può essere ancora complici di paesi che completano le procedure di identificazione, dopo i rimpatri eseguiti dall’Italia o da Frontex, ricorrendo alla tortura. Che poi sono gli stessi paesi , come il Sudan, nei quali proliferano le mafie che garantiscono la fuga dai centri di detenzione a tutti coloro che possono pagare il prezzo sempre più altro per il loro riscatto.

Occorre in definitiva garantire, sia alle frontiere che all’interno di tutti gli spazi chiusi destinati all’Approccio Hotspot, il pieno rispetto del principio di legalità e della riserva di giurisdizione affermati dagli articoli 10 e 13 della Costituzione italiana, per rispettare un patto di reciproco riconoscimento con i migranti che provengono nella maggior parte dei casi da esperienze assai traumatiche e che non hanno una buona considerazione delle istituzioni statali e di chi le rappresenta. Un percorso per la ricostruzione di una rete di relazioni per rompere complicità e collusioni con le reti di trafficanti ma anche per contrastare il rischio di radicalizzazione che può concretizzarsi quando le persone si sentono isolate e conculcate nei loro diritti e nelle loro libertà fondamentali, per un tempo indeterminato, in luoghi privi di un riconoscimento legale certo e senza potere accedere a enti non governativi di tutela ed a organi di garanzia indipendenti.

Fulvio Vassallo Paleologo

daAssociazione Diritti e Frontiere – ADIF