L’Arma dei carabinieri ha sospeso dal servizio tre carabinieri sotto accusa per l’uccisione di Stefano Cucchi. E’ un fatto inedito e importante, perché in altri casi altrettanto gravi e delicati, i vertici degli apparati di sicurezza avevano compiuto scelte opposte, di protezione pregiudiziale dei propri uomini, se non di ostacolo all’azione della magistratura, e sempre rifiutando di prendere provvedimenti disciplinari verso agenti e funzionari finiti sotto inchiesta.
La sospensione dei carabinieri arriva nella fase iniziale del procedimento penale che li riguarda: la procura di Roma ha chiesto il loro rinvio a giudizio per omicidio preterintenzionale e quindi non è nemmeno certo che vi sarà un processo; toccherà al gip decidere se accettare o respingere la richiesta dei pm. D’altronde la sospensione dal servizio non è una condanna anticipata bensì una misura di civiltà e di rispetto a fronte di un fatto storico innegabile: un cittadino, Stefano Cucchi, è stato preso in custodia dai carabinieri ed è uscito cadavere pochi giorni dopo da una sezione carceraria di un ospedale.
Lo stato, in un caso del genere, non può limitarsi ad affidare alla magistratura il compito di individuare le persone penalmente responsabili; deve anche dare una risposta d’ordine civile e morale, che prescinda dagli accertamenti giudiziari (che possono anche concludersi con un nulla di fatto).
La sospensione serve quindi a tutelare la credibilità dell’Arma e dello stato, a mostrare rispetto verso la vittima e i familiari, a segnalare ai cittadini che l’Arma è decisa ad assumersi tutte le responsabilità del caso. La giustizia farà il suo corso e i tre agenti potranno difendersi liberamente (intanto l’Arma farebbe anche bene a indagare a fondo e con rigore al proprio interno per capire com’è stato possibile che per tanti anni omertà e false piste abbiano caratterizzato il caso Cucchi).
La sospensione dei tre carabinieri è in fondo un atto dovuto, vista l’enormità del caso Cucchi, e tuttavia colpisce perché siamo abituati a ben altre condotte. La mente corre al G8 di Genova e alle scelte compiute rispetto all’uccisione di Carlo Giuliani, ai clamorosi abusi compiuti per strada, alla scuola Diaz, nella caserma di Bolzaneto.
Se la polizia di stato avesse agito come oggi stanno facendo i carabinieri, avremmo ad esempio avuto la sospensione dal servizio di importanti dirigenti – basta pensare al rango degli implicati nei falsi e negli abusi alla scuola Diaz – fin dal settembre 2004, quando Enrico Zucca e Francesco Cardona Albini chiesero 28 rinvii a giudizio.
In quel caso la polizia di stato nemmeno prese in considerazione l’ipotesi della sospensione, scartata anche in tutte le fasi successive del percorso: rinvio a giudizio, condanne di primo grado, d’appello e conferme in Cassazione. Un muro eretto contro ciò che consiglierebbero l’etica istituzionale, alcune regole di buona condotta e anche il buon senso.
Un muro d’arroganza e autoreferenzialità che ha retto anche l’urto dell’umiliante sentenza subita dall’Italia davanti alla Corte europea per i diritti umani nel caso Diaz: i giudici europei hanno indicato la necessità (era il 2015) di sospendere i funzionari condannati e di avviare procedimenti disciplinari nei loro confronti, ma niente del genere è avvenuto. La distanza fra gli standard etici e normativi internazionali e la prassi italiana è ancora enorme.
La scelta compiuta dall’Arma dei carabinieri nel caso Cucchi è un fatto isolato dovuto all’enormità dei silenzi e dei depistaggi che hanno caratterizzato il caso Cucchi o l’avvio di un nuovo e più civile modo di concepire il ruolo degli apparati sicurezza?
Una risposta dovrebbe darla chi ha il potere (e il dovere) di intervenire nei casi tuttora aperti, a cominciare proprio da Genova G8, una vicenda solo in apparenza chiusa, visto che l’Italia è tuttora sub judice alla Corte di Strasburgo per decine di ricorsi presentati da cittadini sottoposti alle torture di stato alla scuola Diaz e nella caserma di Bolzaneto.
Lorenzo Guadagnucci
da noidellaDiaz