«Botte e carcere, così reprimono il conflitto sociale»
- marzo 20, 2011
- in G8 Genova, lotte sociali, rassegna stampa, violenze e soprusi
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La notizia che i caccia francesi siano già sui cieli della Libia piomba – e ne accresce l’attualità – sul convegno del Legal team Italia (gli avvocati riconoscibili dalla pettorina giallo-nera durante le manifestazioni) incentrato sulla relazione tra repressione nelle piazze e riscrittura dei rapporti di forza nei luoghi di lavoro. Le prove generali del salto di qualità nella gestione dell’ordine pubblico avvennero a pochi minuti da Castel dell’Ovo, location del convegno, giusto dieci anni fa. Il 17 marzo del 2001, per la prima volta, una manifestazione di massa venne caricata ferocemente dopo essere stata privata di una via di fuga. New entry, sulla scena del crimine, le fiamme oro accanto alle divise di polizia e carabinieri. Altra terrificante novità fu la caccia all’uomo negli ospedali e il rapimento (così stabilirà un tribunale nove anni dopo) di decine di feriti. Un’«attrezzeria» dispiegata a Genova qualche mese dopo e che da allora è stata perfezionata – lo ha delineato nella relazione introduttiva l’avvocato Ezio Menzione – nella dilatazione delle zone rosse intorno alle discariche, alle scuole, alle tendopoli dei terremotati aquilani. Una compressione dei diritti che trovò nuova linfa dopo l’11 settembre ma che è legata alla gigantesca riscrittura dei rapporti sociali che va sotto il nome di globalizzazione liberista.
Sul piano strettamente giuridico, la tendenza denunciata dal Legal team è quella per cui la «legge è sempre meno uguale per tutti». Le nuove aggravanti di clandestinità e di recidiva reiterata, infatti, segnano come il rischio di privazione della libertà sia incredibilmente più concreto per chi si trovi in posizioni marginali rispetto alla cittadinanza – gli stranieri – o alla collocazione sociale: i tossici, gli ultras, gli antagonisti. «La piazza è un luogo complicato – ha avvertito Livio Pepino, ex segretario di Magistratura democratica – ma negli ultimi anni è sfumato il confine tra le tipologie delle manifestazioni, dei moti di piazza, del riot». La mutazione nella gestione dell’ordine pubblico ha preso le mosse nella stagione della “tolleranza zero”, che ha avuto ricadute nell’abbassamento del livello delle violazioni tollerate e ha fatto saltare la consuetudine della gestione concordata della piazza. Frutto avvelenato di quella stagione, ha segnalato Liana Nesta, avvocato di parte civile per la mattanza di Piazza Municipio, è anche l’«immunità funzionale», l’impunità, pretesa dagli operatori di polizia.
Nei dieci anni presi in esame, le novità giuridiche, come la propensione crescente dei pm a farsi strumento delle polizie, hanno preso le mosse comunque da vecchi arnesi come il Codice Rocco di epoca fascista, cuciti su misura per perseguitare gli attori del conflitto sociale. Un esempio per tutti, quel reato di cospirazione appiccicato agli imputati del Sud Ribelle, fa presente la loro legale Simonetta Crisci. Quegli arnesi, spesso, sono così obsoleti da non condurre in galera, perché «i cattivi pensieri non si possono punire», ha detto Sergio Moccia, professore alla Federico II, ma «la vera pena – ha aggiunto – è il lunghissimo processo che attende gli inquisiti». «Dai processi di Genova «è emerso anche che, per le forze dell’ordine, guerra e ordine pubblico sono la stessa cosa», ha spiegato Haidi Giuliani, la mamma di Carlo, ucciso a Genova da uno dei carabinieri che avevano aggredito un corteo regolarmente autorizzato. Da allora Haidi non smette di reclamare un processo, di mettere in collegamento le vittime dell’ordine pubblico e di denunciare come la repressione sia indice della debolezza della democrazia.
Le cifre – sedicimila denunciati e seimila rinviati a giudizio per reati legati al conflitto – rivelano la dimensione della repressione sperimentata in primo luogo sugli ultras del calcio. La composizione della popolazione carceraria e la mole dei morti dietro le sbarre, i ripetuti casi di malapolizia (Cucchi, Aldrovandi, Uva ecc…) pongono l’urgenza di «una nuova stagione di garantismo», ha suggerito Italo Di Sabato che cura l’Osservatorio repressione.
«Ma perché, è legale il ricatto di Pomigliano?», si domanda Antonio Di Luca della Fiom, testimoniando la solitudine dei lavoratori nel deserto politico della post-democrazia. E’ il lavoro ai tempi dello «stato terminale del diritto del lavoro». La storia degli ultimi dieci anni – descritta da un’avvocata del lavoro, Marina Paparo, e da una docente precaria dell’Unical, Antonella Durante – è anche la storia di come, dal pacchetto Treu al Libro bianco di Maroni fino al collegato lavoro e all’attacco frontale al contratto collettivo nazionale si sia prodotta una mutazione genetica del giuslavorismo, con il medesimo autoritarismo esibito in ordine pubblico.
Le radici dell’attacco risalgono sia alla sconfitta dell’80 alla Fiat sia alla concertazione del ’93, che introdusse le prime deroghe al ccnl su cui Marchionne ha potuto scardinare Pomigliano e Mirafiori. Nel mirino c’è sempre il conflitto sociale, che poi è lo stesso obiettivo del sistema elettorale bipolare. Anche la choc-economy, testata a L’Aquila e nell’emergenza rifiuti napoletana, tende a sperimentare il governo autoritario del territorio per imporre interessi forti e la privatizzazione dei beni comuni. «E’ ora di uscire dall’emergenza visto che non serve a risolvere le emergenze», ha spiegato, concludendo, Gilberto Pagani, presidente del Legal team (che pubblicherà i materiali sul suo sito), rimandando al prossimo appuntamento genovese per una riflessione internazionale da cui, finalmente, escano appunti per una piattaforma.
Checchino Antonini da Liberazione
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