Con il capo del Pentagono Mattis al Cairo che promette altro sostegno, un video mostra soldati egiziani giustiziare tre persone disarmate. Il regime non controlla la Penisola ma usa l’Isis per avere sostegno esterno. Tra stato di emergenza e assenza dei media, lo Stato è presente soltanto con le truppe
Sono disarmati e bendati. Vengono condotti in una piccola radura e giustiziati. All’ultimo vengono poste domande da un soldato che lo tira per la maglia: «Sei della famiglia Abu Sanana?». Il prigioniero risponde: «No, lo giuro su Dio, sono di al-Awabadah».
Viene spinto a terra, la benda gli viene tolta e parte il fuoco. Due soldati lo uccidono, un terzo grida di colpirlo «non solo alla testa».
IL VIDEO DELL’ESECUZIONE di tre persone sarebbe stato girato il 6 dicembre nella Penisola del Sinai. La conferma la danno indirettamente le forze armate che, quello stesso giorno, pubblicarono sui social le foto delle tre vittime con fucili ben in vista accanto ai corpi senza vita. Per l’esercito egiziano, terroristi morti in uno scontro a fuoco.
La realtà è un’altra: chiunque fossero quei prigionieri (come mostra il video reso pubblico da Mekameleen tv, emittente vicina ai Fratelli Musulmani e basata in Turchia) sono stati giustiziati a sangue freddo senza che rappresentassero alcuna minaccia. Senza processo né accuse. E con le armi messe in bella vista accanto ai cadaveri (una scena che ricorda i cinque egiziani massacrati nel marzo 2016 e poi incolpati, senza successo, della morte di Giulio Regeni).
Al video, che racconta un crimine di guerra, risponde il sito pro-governativo Youm7: è una fabbricazione della Fratellanza, i soldati non hanno l’accento egiziano.
Di certo apre un piccolo squarcio sul buco nero che è la Penisola del Sinai. Un luogo dove i giornalisti non possono entrare, dove è in corso una campagna militare contro gruppi islamisti radicali, legati in alcuni casi all’Isis.
UN LUOGO DOVE LO STATO è presente con le truppe, ma non con investimenti economici e servizi e dove le tribù più potenti gestiscono traffici di esseri umani, armi, rapimenti. Il luogo in cui, con un monitoraggio reso difficoltoso dalle scarse informazioni, le associazioni per i diritti umani calcolano decine di quei quasi 3mila omicidi extragiudiziali compiuti dal 2013 a metà 2016.
Ma Il Cairo non ha il controllo del territorio, sebbene ci costruisca la falsa narrativa del governo che garantisce la sicurezza. La guerra al terrorismo islamista procede a stento, nonostante al-Sisi ne faccia bandiera per ottenere sostegno dall’Occidente e coprire la repressione, quella vera e radicata contro la società civile.
MENTRE IL VIDEO GIRAVA su agenzie e social, al Cairo il generale golpista incontrava il segretario alla Difesa Usa Mattis. La discussione si è incentrata sulla guerra all’Isis, punto comune ribadito due settimane fa alla Casa bianca nell’incontro tra al-Sisi e Trump.
MATTIS AVEVA IL COMPITO di proseguire nel rafforzamento dell’alleanza con l’Egitto, lievemente raffreddatasi sotto Obama ma non così tanto da interrompere davvero gli aiuti militari. Al-Sisi ha suggellato l’amicizia con Trump con un regalo: la liberazione, dopo 33 mesi di carcere in Egitto, dell’americana Aya Hijazi, rilascio che ad Obama era stato negato.
Il capo del Pentagono ha promesso supporto materiale. Soprattutto in Sinai, che vive in stato di emergenza dall’ottobre 2014, costantemente rinnovato ogni tre mesi: l’ultima richiesta di rinnovo è stata inviata al parlamento dal primo ministro Ismail mercoledì.
UN LUOGO CHE È UN BUCO NERO, lontano dalle cronache se non quando vengono forniti asettici dati su arresti o uccisioni di islamisti (l’ultima giovedì, un leader di Ansar Beit el-Maqdis) o sugli attacchi jihadisti. C’è chi ci prova: piccole agenzie locali come Newsinai24 pubblicano i nomi dei morti nella guerra senza quartiere all’Isis che troppo spesso colpisce i civili.
Eppure è qui che le forze armate godono di un’impunità ancora maggiore di quella che li tutela nelle grandi città:morti innocenti e sfollamenti, confische e abusi che non fanno altro che ampliare il divario tra la popolazione e il governo.
QUELL’IMPUNITÀ si allarga ai civili che collaborano e che sono diventati, sotto al-Sisi, delle squadre paramilitari a fianco delle truppe. Come raccontava lo scorso anno l’agenzia indipendente Mada Masr, all’esercito servono collaboratori sul posto, persone che conoscano luoghi e famiglie, individui e tribù. Sono apparsi a Sheikh Zuwayed e Rafah nel 2016, 4-5 individui armati per gruppo e in contatto con l’esercito, che fornisce loro munizioni, carte d’identità e protezione.
In cambio chiede informazioni, sorveglianza e partecipazione a operazioni di basso profilo. La loro presenza è ulteriore elemento di tensione: se alcuni residenti si sentono più sicuri, altri denunciano abusi dei collaboratori che approfittano dell’impunità per far soldi: mazzette dalle famiglie per liberare detenuti e dai contrabbandieri per non vedere.
da il manifesto