Omicidio Cucchi: rinvio a giudizio per 12 persone e una condanna a 2 anni
- gennaio 25, 2011
- in carcere, violenze e soprusi, vittime della fini-giovanardi
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Stefano Cucchi sarebbe stato picchiato dalla polizia penitenzaria poco prima dell’udienza di convalida nei sotterranei della Cittadella giudiziaria di Roma. Morì sei giorni dopo perché lasciato senza cure nel padiglione carcerario dell’ospedale Pertini. Dodici rinvii a giudizio per la morte del trentunenne romano sono stati disposti ieri dal Gup sulla base di questa ricostruzione. Nel corso dell’udienza è stato condannato a due anni un funzionario dell’amministrazione penitenziaria regionale, Claudio Marchiandi. Si tratta del direttore dell’ufficio detenuti e del trattamento. Aveva chiesto di essere giudicato con il rito abbreviato. I dodici rinviati a giudizio sono sei medici, tre infermieri del Pertini e tre guardie carcerarie, accusati a vario titolo di lesioni e abuso di autorità, favoreggiamento, abbandono di incapace, abuso d’ufficio e falsità ideologica. Il processo inizierà il 24 marzo prossimo di fronte alla terza Corte d’Assise.
Accolte, dunque, le richieste dei pm Barba e Loy. Gli agenti che lo pestarono – procurandogli ferite alle mani, alle gambe e alla colonna vertebrale – avrebbero anche sottoposto il ragazzo a misure di rigore non consentite dalla legge. Cucchi li irritava perché chiedeva farmaci e si lamentava troppo. Una dottoressa e il direttore dell’ufficio detenuti scrissero che stava in buone condizioni generali di salute (“con stato di nutrizione discreto, decubito indifferente, apparato muscolare tonico trofico”) nella cartella clinica. E lo seppellirono in una struttura per pazienti non acuti e non con la schiena spezzata come la sua. Tutto ciò per coprire gli agenti penitenziari. Gli altri medici e i tre infermieri «dal 18 al 22 ottobre abbandonarono Cucchi incapace di provvedere a se stesso», omettendo anche «di adottare i più elementari presidi terapeutici e di assistenza (…)doverosi e tecnicamente di semplice esecuzione ed adottabilità (…) certamente idonei ad evitare il decesso di paziente». Secondo l’accusa, questi, tra l’altro, omettevano «volontariamente di adottare qualunque presidio terapeutico al riscontro di valori di glicemia ematica, rilevato il 19 ottobre, pur essendo tale valore al di sotto della soglia ritenuta dalla letteratura scientifica pericolosa per la vita, neppure intervenendo con una semplice misura quale la somministrazione di un minimo quantitativo di zucchero sciolto in un bicchiere d’acqua che il paziente assumeva regolarmente, misura questa idonea ad evitare il decesso». Sempre «volontariamente», non avrebbero né svolto un «necessario» elettrocardiogramma né una «semplice palpazione del polso» per tenere sotto controllo la brachicardia; non avrebbero comunicato a Cucchi «l’assoluta necessità di effettuare esami diagnostici essenziali alla tutela della sua vita, limitandosi ad annotare gli asseriti rifiuti nella cartella clinica, motivati dalla volontà di effettuare colloqui con un avvocato, circostanza che omettevano di comunicare alla polizia penitenziaria»; non avrebbero trasferito Cucchi in un reparto più idoneo a curarlo; non avrebbero controllato il «corretto posizionamento o occlusione del catetere». E quando Stefano morì, all’alba del 22 ottobre 2009, un’altra dottoressa scrisse che si trattava di morte naturale. Invece erano sei giorni, da quando era stato arrestato per pochi grammi di hashish, che non si reggeva in piedi, paralizzato, cateterizzato, e perdeva peso a vista d’occhio.
Ma non è un po’ sproporzionata questa copertura per delle semplici lesioni? Il tarlo rode la mente di Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, e dei suoi genitori. L’attesa del dispositivo della sentenza è stata contrassegnata da una tensione emotiva quasi insopportabile. La Gup ha spiegato di non essere competente a disporre una superperizia ma che la perizia di parte evidenzi «problemi e spunti degni di considerazione, che necessitano di essere approfonditi». Perché, questo sostiene Ilaria, la condanna del funzionario rivela l’esistenza di un apparato di depistaggio e contraddice l’ipotesi delle lesioni lievi. I periti di parte civile, infatti, sostengono che furono le conseguenze delle botte ad ammazzare il ragazzo, che non fu solo malasanità, ipotesi su cui i pm (uno dei quali è legato al clamoroso errore giudiziario del delitto della Caffarella) sembrano inchiodati.
L’amarezza di Ilaria è «incredibile» e confida a Liberazione, il primo giornale a occuparsi di questa storia, che se fosse un imputato «chiederei di cambiare i pm». «Andremo al processo con questa falsa ricostruzione che si basa su una consulanza medico-legale insufficiente», commenta Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi e prima ancora della famiglia Aldrovandi. Di fronte ai rinvii a giudizio e alla lista di morti strane dietro le sbarre, uno dei sindacati del comparto ripete la propria indisponibilità a «accettare una certa (tendenziosa e falsa) rappresentazione del carcere come luogo in cui quotidianamente e sistematicamente avvengono violenze in danno dei detenuti». Ma così è in una miriade di occasioni.
Restano inesplorate dai pm le ore che precedettero l’arrivo in tribunale del ragazzo. La notte in cui fu arrestato dormì in una camera di sicurezza dell’Arma. Da lì fu chiamata un’ambulanza che tornò vuota alla base. Qui i carabinieri si contraddicono: uno prima dice che l’ha chiamata lui poi a un collega confida che Stefano aveva dato testate al muro tutta la notte; un altro carabiniere riferisce al comandante che Cucchi camminava a fatica e che aveva dovuto aiutarlo a fare le scale e poi al pm smentisce tutto; due albanesi che viaggiarono con lui verso il tribunale, invano, hanno dichiarato che era sceso malconcio; un altro carabiniere infine parla col pm di un ragazzo che non si reggeva in piedi.
Il sottosegretario Giovanardi, che dichiarò che Cucchi era morto di Aids, ora vuole costituirsi parte civile. Resta ancora da chiarire come sia stato possibile che, in udienza di convalida, il giudice non si sia reso conto dello stato di salute del detenuto e della falsità delle carte dei carabinieri in cui Cucchi era albanese, più vecchio di sei anni e senza fissa dimora.
Accolte, dunque, le richieste dei pm Barba e Loy. Gli agenti che lo pestarono – procurandogli ferite alle mani, alle gambe e alla colonna vertebrale – avrebbero anche sottoposto il ragazzo a misure di rigore non consentite dalla legge. Cucchi li irritava perché chiedeva farmaci e si lamentava troppo. Una dottoressa e il direttore dell’ufficio detenuti scrissero che stava in buone condizioni generali di salute (“con stato di nutrizione discreto, decubito indifferente, apparato muscolare tonico trofico”) nella cartella clinica. E lo seppellirono in una struttura per pazienti non acuti e non con la schiena spezzata come la sua. Tutto ciò per coprire gli agenti penitenziari. Gli altri medici e i tre infermieri «dal 18 al 22 ottobre abbandonarono Cucchi incapace di provvedere a se stesso», omettendo anche «di adottare i più elementari presidi terapeutici e di assistenza (…)doverosi e tecnicamente di semplice esecuzione ed adottabilità (…) certamente idonei ad evitare il decesso di paziente». Secondo l’accusa, questi, tra l’altro, omettevano «volontariamente di adottare qualunque presidio terapeutico al riscontro di valori di glicemia ematica, rilevato il 19 ottobre, pur essendo tale valore al di sotto della soglia ritenuta dalla letteratura scientifica pericolosa per la vita, neppure intervenendo con una semplice misura quale la somministrazione di un minimo quantitativo di zucchero sciolto in un bicchiere d’acqua che il paziente assumeva regolarmente, misura questa idonea ad evitare il decesso». Sempre «volontariamente», non avrebbero né svolto un «necessario» elettrocardiogramma né una «semplice palpazione del polso» per tenere sotto controllo la brachicardia; non avrebbero comunicato a Cucchi «l’assoluta necessità di effettuare esami diagnostici essenziali alla tutela della sua vita, limitandosi ad annotare gli asseriti rifiuti nella cartella clinica, motivati dalla volontà di effettuare colloqui con un avvocato, circostanza che omettevano di comunicare alla polizia penitenziaria»; non avrebbero trasferito Cucchi in un reparto più idoneo a curarlo; non avrebbero controllato il «corretto posizionamento o occlusione del catetere». E quando Stefano morì, all’alba del 22 ottobre 2009, un’altra dottoressa scrisse che si trattava di morte naturale. Invece erano sei giorni, da quando era stato arrestato per pochi grammi di hashish, che non si reggeva in piedi, paralizzato, cateterizzato, e perdeva peso a vista d’occhio.
Ma non è un po’ sproporzionata questa copertura per delle semplici lesioni? Il tarlo rode la mente di Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano, e dei suoi genitori. L’attesa del dispositivo della sentenza è stata contrassegnata da una tensione emotiva quasi insopportabile. La Gup ha spiegato di non essere competente a disporre una superperizia ma che la perizia di parte evidenzi «problemi e spunti degni di considerazione, che necessitano di essere approfonditi». Perché, questo sostiene Ilaria, la condanna del funzionario rivela l’esistenza di un apparato di depistaggio e contraddice l’ipotesi delle lesioni lievi. I periti di parte civile, infatti, sostengono che furono le conseguenze delle botte ad ammazzare il ragazzo, che non fu solo malasanità, ipotesi su cui i pm (uno dei quali è legato al clamoroso errore giudiziario del delitto della Caffarella) sembrano inchiodati.
L’amarezza di Ilaria è «incredibile» e confida a Liberazione, il primo giornale a occuparsi di questa storia, che se fosse un imputato «chiederei di cambiare i pm». «Andremo al processo con questa falsa ricostruzione che si basa su una consulanza medico-legale insufficiente», commenta Fabio Anselmo, legale della famiglia Cucchi e prima ancora della famiglia Aldrovandi. Di fronte ai rinvii a giudizio e alla lista di morti strane dietro le sbarre, uno dei sindacati del comparto ripete la propria indisponibilità a «accettare una certa (tendenziosa e falsa) rappresentazione del carcere come luogo in cui quotidianamente e sistematicamente avvengono violenze in danno dei detenuti». Ma così è in una miriade di occasioni.
Restano inesplorate dai pm le ore che precedettero l’arrivo in tribunale del ragazzo. La notte in cui fu arrestato dormì in una camera di sicurezza dell’Arma. Da lì fu chiamata un’ambulanza che tornò vuota alla base. Qui i carabinieri si contraddicono: uno prima dice che l’ha chiamata lui poi a un collega confida che Stefano aveva dato testate al muro tutta la notte; un altro carabiniere riferisce al comandante che Cucchi camminava a fatica e che aveva dovuto aiutarlo a fare le scale e poi al pm smentisce tutto; due albanesi che viaggiarono con lui verso il tribunale, invano, hanno dichiarato che era sceso malconcio; un altro carabiniere infine parla col pm di un ragazzo che non si reggeva in piedi.
Il sottosegretario Giovanardi, che dichiarò che Cucchi era morto di Aids, ora vuole costituirsi parte civile. Resta ancora da chiarire come sia stato possibile che, in udienza di convalida, il giudice non si sia reso conto dello stato di salute del detenuto e della falsità delle carte dei carabinieri in cui Cucchi era albanese, più vecchio di sei anni e senza fissa dimora.
Checchino Antonini da Liberazione
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