Menu

Carcere: mio figlio non si è tolto la vita, lo hanno lasciato morire in cella

Michele sorride con gli occhi. Sensibile e dal carattere arrendevole, questo ragazzone di Fragagnano è morto il 12 gennaio in solitudine nella cella del carcere di Perugia che da quattro mesi era diventata la sua casa. Aveva 23 anni e gli alveoli dei polmoni saturi di gas. Lo inalava abitualmente, quel gas. Per lui era come una spugna.
Serviva a cancellare in un solo colpo le mura, le sbarre, tutti quei chilometri che lo separavano dalla famiglia. Poco più che adolescente, Michele era stato travolto dallo tsunami delle cattive amicizie e il suo carattere debole non gli aveva permesso di salvarsi. Così era diventato tossicodipendente.
“Michele non si è tolto la vita. La sua morte non è stato un suicidio come all’inizio volevano farci credere. Il gas lo ha ucciso lentamente e nessuno lo ha salvato. Nessuno si è accorto di quello che stava passando, nonostante tutte le nostre denunce”. Mamma Michela, che per quel figlio sfortunato avrebbe dato la vita, mostra la foto di Michele che sorride con l’orgoglio di chi, fino alla fine, ha combattuto per strappare da un destino doloroso la carne della sua carne. Ora che ha seppellito suo figlio non si dà pace. Insieme con il marito Mimmo, Michela oggi ha intrapreso un altro sentiero irto. Vuole capire perché un ragazzo di soli 23 anni, curato in carcere con gli antidepressivi, sia stato lasciato da solo in cella e con la disponibilità di una bomboletta del gas necessaria, ufficialmente, per preparare i pasti. Mamma Michela e papà Mimmo non chiedono giustizia, ma solo una risposta a tutti i loro perché.
“Quando ti muore un figlio in quella maniera, non puoi rassegnarti”. La famiglia Massaro non lo aveva mai fatto con Michele. Aveva lottato per cambiare il futuro del figlio. Non si era chiusa nel dolore di chi vive la tossicodipendenza come una lettera scarlatta marchiata a fuoco sulla pelle. Aveva chiesto aiuto urlando a squarciagola tutta l’impotenza di chi si trova all’improvviso di fronte ad un mondo sconosciuto, ad un mostro dalle mille facce. Si era rivolta ad un’associazione, il Cast (Centro assistenza sulla tossicodipendenza) e, insieme con il figlio, aveva cominciato il faticoso percorso nelle comunità di recupero dei tossicodipendenti.
Ma la strada che porta alla disintossicazione dall’eroina è lunga e costellata di ostacoli. Michele era stato ad Oria, poi ad Assisi. Lungo il suo cammino aveva incontrato più volte il polso fermo della legge. Per procurarsi la dose aveva compiuto furti, un paio di tentativi di rapina. Ma il crimine non era certo il suo mestiere. Era sempre stato “pizzicato” dalle forze dell’ordine ed era finito alla sbarra. L’ultima volta il tribunale lo aveva condannato ad un cumulo di pena di otto anni e sei mesi. Doveva restare in cella fino al 2018.
“Era disperato il mio Michele – dice papa Mimmo – , perché voleva tornare in comunità dove era seguito e dove aveva iniziato il percorso di disintossicazione. Ma il giudice è stato inflessibile. Non si è reso conto di avere di fronte un ragazzo debole e spaventato. Per lui mio figlio era solo un numero su una pratica da evadere in fretta”.
Due giorni prima di Capodanno Michela e Mimmo vanno a trovare il figlio. Michele è pallido come un cencio, respira a fatica, sembra asmatico. Chiedono di essere ricevuti dal direttore del carcere di Perugia. Nessuno risponde. Chiedono che il figlio sia visitato. Il medico vede Michele qualche giorno dopo. “Il dottore ci ha detto: ha il cuore forte come un toro. Ma a mio figlio non è stata fatta né una spirometria, né un’analisi del sangue”. Michele una settimana dopo è morto due volte: stroncato da un infarto e soffocato dall’indifferenza delle istituzioni.

Maristella Massari da Gazzetta del Mezzogiorno