Torture, stupri, pestaggi ed elettroshock: la vita di inferno dentro i “mezra”, lager per i migranti
La parola in arabo vuol dire magazzini: sono i luoghi in Libia cui i trafficanti ammassano le persone che cercano di arrivare in Europa. Ecco cosa racconta chi è sopravvissuto all’orrore
I trafficanti li chiamano “mezra”. Magazzini, in arabo. Spesso sono vere e proprie prigioni fuori da ogni regola, carceri private, gestite dai boss del traffico di esseri umani. Che in queste strutture sparse per la Libia non custodiscono merce qualunque, ma donne, bambini, uomini.
Seviziati con la corrente elettrica, picchiati con tubi di gomma, senza cibo per giorni, le ragazze stuprate. Tra questi c’è anche chi è stato caricato di forza su gommoni e barche. Persino minorenni, che non avevano alcuna intenzione di lasciare l’Africa. Sono loro stessi a raccontarlo, una volta arrivati in Italia, alle commissioni territoriali incaricate di valutare le richieste di asilo.
La realtà, violenta. Nel frattempo la politica si avvita in sterili discussioni sull’indagine della procura di Catania e sul presunto rapporto tra Ong e trafficanti. Parole al vento che non offrono soluzioni per fermare l’orrore libico. Eppure i nodi da sciogliere sono molti. Per esempio, diversi mesi fa i pm di Catania hanno inviato in Egitto una richiesta per catturare due trafficanti di primissimo piano, ma Il Cairo tace. E mentre dalla sponda europea del Mediterraneo gli xenofobi d’Europa ingaggiano ingegneri per progettare muri, l’agenzia Frontex getta un’ombra sul lavoro delle Ong e i partiti agitano lo spauracchio dell’invasione, dalla sponda sud del canale di Sicilia le persone che scappano da guerre, dittature, povertà e miseria – chi ha diritto all’asilo e chi no – continuano a subire qualunque tipo di sevizia. Soprusi inumani compiuti quotidianamente dai boss e dai loro sgherri che gestiscono un business miliardario, stimato dall’Europol in 4-6 miliardi di euro.
I magazzini del pentito
La procura di Palermo da diversi anni sta svolgendo un lavoro meticoloso sugli interessi economici e finanziari legati al traffico dei migranti. L’ufficio inquirente guidato da Francesco Lo Voi ha in mano una mappa precisa delle bande di trafficanti libici. Purtroppo però la collaborazione con una Libia spaccata da conflitti permanenti non è affatto semplice
Per ora le informazioni più preziose vengono da una gola profonda, la prima del milieu dei trafficanti. Si chiama Nuredin Atta Wehabrebi. Eritreo di origine, per oltre un decennio ha fatto il lavoro sporco in Libia. La dedizione criminale gli è valsa a soli 32 anni una carriera brillante nel clan dei trafficanti, diventando pedina di rilievo dell’organizzazione. Arrestato dai pm di Palermo, ha deciso di vuotare il sacco. Ora è un pentito convinto, tanto da finire nel sistema di protezione come fosse uno dei tanti padrini nostrani.
Con le sue dichiarazioni ha permesso al pm palermitano Geri Ferrara, coordinato dall’aggiunto Maurizio Scalia, di portare a termine ben due indagini con oltre 50 persone arrestate. «Arrivati in Libia i trafficanti fanno stazionare le persone in delle case di campagna che spesso i proprietari affittano ai trafficanti». I dettagli forniti da Atta il pentito saranno molto utili agli inquirenti, anche perché il collaboratore fa i nomi dei capi dell’organizzazione di cui faceva parte.
«I migranti vengono raccolti in magazzini per il futuro viaggio in mare», spiega. Grazie alle informazioni fornite, i magistrati hanno mappato le aree di raccolta: «Sono a conoscenza che i migranti che giungono in Libia per partire verso l’Europa vengono concentrati in quattro magazzini, chiamati in arabo “mezra”, due si trovano nella località di Zuwara e li gestisce un certo Muktar, mentre tre si trovano in località Tajura e li gestisce un certo Hagi Naser Moham». Zuwara è la nota località di imbarco utilizzata dalle bande di trafficanti, si trova a ovest di Tripoli. Tajura è 30 chilometri a est della capitale libica.
Atta sa dove si trovano, li ha visti con i propri occhi, li ha attraversati con le proprie gambe. Ha sentito le urla disperate dei reclusi. Per questo ai pm ha indicato sulle mappe i luoghi dove le persone sono condannate a subire una punizione umiliante, tenuti chiusi in gabbie di cemento e ferro, con temperature che in estate superano i 40 gradi. Li chiamano mezra ma altro non sono che gironi infernali, lager del terzo millennio. Ingranaggi fondamentali nella filiera del business.
Sangue e quattrini
Atta non è mai stato un semplice scafista. Ma sa come funziona il sistema in ogni passaggio della filiera. «Uno scafista marocchino, tunisino o egiziano riceve tra i 20 ed i 30 mila euro per un viaggio e se riesce a riportare indietro la barca viene pagato il doppio. Se lo scafista è qualcuno dei paesi sub sahariani non riceve alcun pagamento ma può viaggiare gratis».
Ultimamente i clan preferiscono proprio quest’ultima soluzione. Obbligano, cioè, ragazzini gambiani, nigeriani, maliani, a guidare il natante fatiscente. Per chi rifiuta c’è il bastone o il calcio del fucile. Una pena che non si esaurisce una volta raggiunta l’Italia. Dopo lo sbarco, infatti, vengono arrestati con l’accusa di essere scafisti di professione. E invece sono solo adolescenti vittime di un sistema senza scrupoli.
Atta elenca i padrini che tengono in mano le redini del traffico. «Sono i quattro trafficanti che gestiscono la maggior parte dei flussi. Ci sono anche gruppi minori che operano dall’Egitto e dalla Tunisia ma non sono comparabili con gli altri per numeri di viaggi e guadagni. Ognuno di questi quattro ha un gruppo fidato di uomini che opera per conto loro, tra i sei e i dieci. Si avvalgono, inoltre, di numerosi collaboratori, pagati molto meno. I gruppi non sono in conflitto tra loro, anzi collaborano».
Le quattro bande, dice il pentito, sono tutte operative a Tripoli e dintorni. Tranne una che copre una zona in più, Bengasi. Il suo capo si chiama Abdurazak. «Il trafficante più importante», lo definisce Atta. Poi c’è Ermias, un nome che ci conduce nel cuore dell’Europa democratica. In Germania, dove vive «la moglie, nella zona di Francoforte». Qui è probabile, sostiene il pentito, che si trovino «tutti i soldi che guadagna Ermias, ma non so dove li tiene la moglie». La donna, tra le altre cose, ha prima provato, senza riuscirci, a chiedere asilo politico in Svezia. I quattrini del traffico, ipotizzano gli investigatori, potrebbero essere finiti anche a Dubai. Tra grattacieli futuristici e banche affidabili, le bande libiche hanno propri emissari.
Il racconto di Atta apre uno squarcio profondo nel muro di omertà che protegge i confini del malaffare. «Conosco Salha Maskout, di cui qualche giorno fa la stampa ha dato notizia della uccisione in Libia. Al tempo di Gheddafi faceva parte della polizia militare. Maskout trasportava i migranti da Koufra per portarli a Tripoli, li consegnava a me e agli altri trafficanti. Non aveva barconi di proprietà, ma soltanto dei furgoni minivan che utilizzava per i trasferimenti dalla frontiera libica. Ogni migrante gli pagava circa 600 dollari». Tra i fidati collaboratori del poliziotto anche un dipendente dell’ufficio immigrazione, «che contattavamo per il rilascio dei migranti che venivano arrestati dalla polizia libica in modo che, in seguito, potevamo organizzarne il loro viaggio per l’Italia».
Atta ha fatto e visto cose terribili. C’è un passaggio raccapricciante nel resoconto che consegna agli inquirenti. «Talvolta i migranti che non possono pagare vengono consegnati a degli egiziani che li uccidono per prelevarne gli organi e rivenderli in Egitto per una somma di circa 15 mila dollari. In particolare, questi egiziani vengono attrezzati per espiantare l’organo e trasportarlo in borse termiche. Nel 2013, nella strada Sahara-Sinai che porta verso Tel Aviv, furono rinvenuti oltre 400 cadaveri di persone a cui furono espiantati gli organi e c’è anche un video su Youtube». Il pentito custodisce molti segreti. Dice di sapere persino il nome di chi forniva fino al 2007 i gommoni Zodiac, utilizzati per i trasferimenti sulle barche più grandi. «Venivano venduti ai trafficanti dal console francese a Susa, in Tunisia».
Il Ghetto di Alì
I migranti sbarcati a Lampedusa lo ricordano come il Ghetto di Alì il torturatore. È un “mezra” perso nel deserto attorno a Sabah, importante città centro-meridionale della Libia. Questa volte, però, il pentito Atta non c’entra.
Questa è un’altra storia, parallela. Tutto ha inizio quando all’interno del centro di accoglienza di Lampedusa un gruppo di migranti riconosce tale Fanti, un ganese sbarcato insieme a loro in Sicilia il 5 marzo scorso. Fanti è, sostengono i migranti, uno dei torturatori del ghetto di Alì, dove hanno trascorso un incubo durato mesi. Così lo accerchiano, tentano di aggredirlo. La vendetta non si realizzerà solo per l’intervento delle forze dell’ordine. Gli aggressori, però, verranno interrogati dalla polizia, che vuole capire il motivo del livore. A quel punto decidono di dire tutta la verità.
I loro verbali assomigliano alla trama di un film horror ambientato all’interno di un campo di concentramento. La prigione-magazzino «era recintata con dei muri alti in pietra, si accedeva attraverso una grande porta. Eravamo vigilati a vista da guardie, in abiti civili e armati di fucili e pistole. Rimasi detenuto circa otto mesi, fui sottoposto numerosissime volte a torture e sevizie da parte del gruppo che fa capo ad Alì il Libico. Fanti era membro di questa organizzazione di trafficanti».
Che tipo di sevizie?, chiedono i poliziotti della squadra Mobile di Agrigento. Uno dei testimoni risponde, alzandosi la maglietta: «Porto ancora addosso le cicatrici delle ustioni inflitte». Poi conduce chi lo ascolta in un tunnel macabro e criminale: «Fanti per due mesi mi ha continuamente frustato con un cavo elettrico, procurandomi delle profonde lacerazioni. Fu invece un altro a buttarmi su una gamba la pentola contenente acqua bollente. Ho, inoltre, visto Fanti picchiare violentemente con dei bastoni altri migranti reclusi in quel lager».
Un secondo testimone aggiunge: «Spesso collegava degli elettrodi alla mia lingua per farmi scaricarmi addosso la corrente elettrica. Mi faceva stare anche 5 giorni senza mangiare e bere. E ho visto violentare delle donne». Gli è rimasto impresso nella memoria un aguzzino, che quelli della banda di Alì chiamavano Rambo: «Ha ucciso 2 migranti, a bastonate». Infine, riaffiora un altro ricordo di quei mesi, «altri cinque migranti sono morti di stenti, privazioni e violenze».
Il viaggio obbligato
K. si è ritrovato su un barcone senza volerlo. Costretto ad attraversare di notte il Mediterraneo, rivela ai funzionari della commissione che esamina le richieste di asilo politico. Arrivato in Libia, dopo essere scappato dal Mali (qui l’avevano accusato di essere un sovversivo, catturato e abbandonato nel deserto a morire), viene incarcerato in una delle tante prigioni “private”. Da lì è riuscito a scappare, «siamo andati a Tripoli, ma abbiamo capito subito che, come in Algeria, i neri non li vogliono, abbiamo lavorato come schiavi, senza essere pagati».
Poi, una sera, qualcuno li preleva, li carica su un mini van e li porta su una spiaggia dove verranno imbarcati contro la loro volontà. Direzione Europa, Italia. K. Non è l’unico. L’Espresso ha letto numerosi verbali in cui ragazzi giovanissimi ammettono di essere partiti contro la loro volontà. Come questo dell’8 aprile scorso: «Quanto ha pagato il viaggio per l’Italia?», chiede uno dei componenti della commissione. «Non ho pagato, mi hanno fatto imbarcare per forza», è la risposta di D. Anche Oy è stato obbligato a salire su una «grande nave».
Lui è fuggito da un villaggio della Nigeria perché omosessuale. «Ci hanno scoperti e rischiavo di diventare carne per un sacrificio umano». Una punizione esemplare. Giunto in Libia, rinchiuso in una “mezra”, piangeva perché non sapeva come soddisfare le richieste di denaro dei libici come contropartita per la libertà. «Un giorno un arabo mi prese, mi portò in spiaggia e mi indicò una barca. Così sono arrivato in Italia». E come tanti ha fatto domanda di asilo.
La maggior parte delle domande, però, vengono respinte. Così è necessario fare ricorso. I tempi sono biblici. Un esempio: il 20 marzo scorso un giudice di Catania – distretto giudiziario dove ricade il centro di accoglienza di Mineo – ha rinviato al giugno 2018 l’udienza di un ricorso presentato nel 2015. In media passano oltre 600 giorni per la decisione della commissione territoriale, a cui si aggiungono i mille giorni per la definizione del ricorso. Dopo l’inferno libico, in fondo, che sarà mai il purgatorio della burocrazia italiana.
Giovanni Tizian
da L’Espresso