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Violenze in caserma, il caso Aulla e i limiti della legge sulla tortura

I presunti pestaggi nella Lunigiana evocano un reato ancora non punibile in Italia. La norma in arrivo? Rischia di essere sterile. L’ex pm del processo Diaz: «Consente le violenze, non le reprime».

Chiama in causa il dibattito sulla tortura l’inchiesta sui presunti pestaggi in due caserme di carabinieri in Lunigiana che ha portato all’emissione di otto misure cautelari. Uno dei militari è in carcere, tre sono agli arresti domiciliari e quattro hanno il divieto di dimora nella provincia di Massa Carrara. Tra questi un maresciallo, sospeso dal servizio perchè aveva anche funzioni di comando. Sei carabinieri erano in servizio alla stazione di Aulla, due ad Albiano Magra, tutti in provincia di Massa Carrara. I loro legali stanno valutando un ricorso al tribunale di Genova per «far revocare misure, che riteniamo eccessive, fuori luogo, fuori contesto, immotivate».

BEN 104 CAPI DI IMPUTAZIONE. Ma la lista di reati ipotizzati sembra interminabile e, tra gli episodi che affiorano dagli atti, vi sono la vicenda di un uomo di origini marocchine costretto a spogliarsi e «a subire atti sessuali» durante una perquisizione antidroga; quella di un clochard caricato a forza sull’auto di servizio e colpito con un manganello e il caso di violenza sessuale ai danni di una giovane prostituta. Poi altri pestaggi in caserma dove, sempre secondo le accuse, venivano falsificati i verbali. Indagini condotte anche adoperando microspie installate sulle gazzelle, dettaglio confermato dal procuratore Aldo Giubilaro titolare dell’inchiesta con la sostituta Alessia Iacopini. I reati contestati a vario titolo sono lesioni, falso in atto pubblico, sequestro di persona, violenza sessuale. Il gip De Mattia che ha firmato l’ordinanza di misure cautelari ha accolto le richieste della procura contestando ben 104 capi di imputazioni.

«VIOLENZE SISTEMATICHE». «Violenze sistematiche che evocano la parola tortura. Parola impronunciabile nelle aule di giustizia italiane perché la tortura non è reato nel nostro Paese nonostante obblighi internazionali vecchi di 30 anni», spiega Patrizio Gonnella, presidente dell’Associazione Antigone. Il 26 giugno, giornata mondiale contro la tortura, dovrebbe aver luogo alla Camera l’ultima votazione su un testo di legge al centro della contestazione di tutte le associazioni per i diritti umani, da Antigone ad Amnesty International, da Cittadinanzattiva ad A buon diritto. Due emendamenti approvati a maggio dal Senato (il primo che prevede che il reato di tortura sia attuato con una pluralità di condotte, il secondo che esclude la configurabilità del reato in caso di uso legittimo della forza) hanno spinto Luigi Manconi, senatore Pd, a ritirare la firma dal testo in votazione.

I fatti della Lunigiana sembrano un manuale per la puntuale lettura e la più attendibile interpretazione della legge sulla tortura di prossima approvazione

Luigi Manconi, senatore Pd

«I fatti della Lunigiana parlano chiaro e sembrano un manuale per la puntuale lettura e la più attendibile interpretazione della legge sulla tortura di prossima approvazione», dice oggi Manconi, «agli appartenenti all’Arma vengono imputate violenze che l’attuale codice penale consente di qualificare solo come “lesioni”, la cui origine risiede proprio nell’esercizio illegale di un potere legale».

«Salta agli occhi che, anziché configurare il reato come specifico del pubblico ufficiale, anche a fini di prevenzione, si sia voluto formulare il delitto di tortura solo come reato comune. Per non dire come sia impossibile, con le nuove norme, poter ottenere giustizia per i casi di tortura psichica», dice Lorenzo Guadagnucci, una delle vittime della scuola Diaz nel luglio del 2001, esponente del Comitato Verità e Giustizia per Genova.

«UNA NORMA PER CONSENTIRE LA TORTURA». Ancora più duro Enrico Zucca, sostituto procuratore generale a Genova e, a suo tempo, pm proprio per il processo Diaz. Interpellato da Lettera43.it ha spiegato: «È una norma “per consentire” e non “per reprimere” la tortura. Caparbiamente s’è voluto configurare un reato comune che non si attaglia alla definizione contenuta nella “Convenzione europea per la prevenzione della tortura e delle pene o trattamenti crudeli, inumani o degradanti“. Per farlo sono state usate argomentazioni maliziose e sottili per rendere quasi impossibile l’incriminazione e l’accertamento di casi di tortura. Il legislatore, forse, avrebbe dovuto leggere la storia recente e vedere quei casi in cui è già stata riconosciuta la tortura».

VITTIME GUARDATE CON SOSPETTO. L’ex pm della Diaz si riferisce alle sentenze di Cassazione che hanno denunciato la mancanza di una voce specifica nel codice penale proprio sulla base di quella Convenzione europea che, a sua volta, è una fonte normativa. Citando il senatore repubblicano statunitense John McCain, in passato prigioniero di guerra dei Vietcong, anche Zucca avverte che «quando si parla di tortura si parla di chi siamo noi, smettiamola di fare giochetti con le parole. Perché introdurre il reato di tortura? Chi dobbiamo proteggere? Ancora una volta, la legge guarda con sospetto le vittime».

Ad Aulla, intanto, si registra un clima di apparente incredulità dopo il clamore degli arresti. Racconta a Lettera43.it Cristina S., operatrice sociale: «L’imbarazzo che puoi toccare con mano è dovuto probabilmente al fatto che il nuovo sindaco, Roberto Valettini, appena eletto con il Pd, è anche il difensore di molti dei carabinieri coinvolti. Nessuno aveva sentore di quanto stesse accadendo. È probabile che le violenze si siano svolte contro persone molto ai margini delle comunità oppure che, per qualche motivo, hanno voluto rimanere in silenzio». E ancora: «Ci siamo chiesti anche perché non avessimo avuto le antenne necessarie. A marzo, quando ci sono state le prime notizie dell’inchiesta, ci siamo interessati perché quella persona originaria del Marocco fosse messa in contatto con Acad, l’associazione contro gli abusi in divisa. All’epoca, Valettini prese la difesa dei carabinieri coinvolti e il Pd convocò una manifestazione a sostegno dell’Arma l’11 marzo, seguita dal Security day di Forza Italia».

IL DEGRADO DI AULLA. Durante la manifestazione era stata fatta suonare una sirena simile a quella delle gazzelle, seguita da un lungo applauso e dal grido «Viva i nostri carabinieri». Su un volantino si leggeva: «La procura sta mal interpretando la realtà della strada penalizzando l’esecuzione della nostra sicurezza». Ma, riprende Cristina, «ad Aulla non esiste alcuna emergenza sicurezza, nella maniera più assoluta. Ultimamente sono stati registrati segnali di bullismo, vandalismo contro case e cantieri ma ad opera di ragazzini figli di buona famiglia. Piuttosto c’è degrado figlio di cattive scelte urbanistiche: i piani regolatori sono stati stravolti per consentire di costruire anche dove non si sarebbe dovuto. Così, nel 2011, l’alluvione del fiume Magra ha spazzato via mezza città, uccidendo due persone e rendendo inagibili alcuni quartieri di case popolari. Le scuole sono da allora nei container e questo provoca il viavai degli inviati di Striscia in città».

QUELLA PIAZZA DIVISA IN DUE. Dodicimila abitanti tra La Spezia e Carrara, Aulla finora era balzata nelle cronache nazionali per la piazza spaccata in due: metà piazza Gramsci, metà piazza Craxi, secondo il volere dell’allora sindaco Lucio Barani, ora senatore di Ala eletto nel Popolo delle libertà. Allora aveva anche dichiarato Aulla «comune dedipietrizzato» vietando l’ingresso a qualsiasi figura legata all’inchiesta Mani pulite.

Checchino Antonini

da Lettera43