Proibizionismo e carcere, il mix che ha ammazzato Stefano Cucchi
- ottobre 17, 2010
- in carcere, vittime della fini-giovanardi
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Parco degli acquedotti. Periferia sud di Roma. Dopo il tramonto alcune decine di persone partecipano a un’assemblea all’aperto proprio nel luogo in cui, un anno fa, un manipolo di carabinieri arrestava Stefano Cucchi per il possesso di qualche grammo di fumo. Cominciava per lui un calvario di sei giorni. Morirà semiparalizzato e sfigurato nel repartino penitenziario di un ospedale. Un anno dopo, al tribunale di Roma, è in corso l’udienza preliminare a carico di 13 indagati, tra agenti penitenziari e personale medico sanitario, accusati a vario titolo delle condotte che hanno causato la morte del trentunenne geometra romano, restato per sei giorni isolato dal resto del mondo. Martedì prossimo il gup deciderà sulla richiesta di una nuova perizia da parte della famiglia che non crede all’ipotesi di lesioni dolose lievi avanzata dai periti del pm. Perché quella di Cucchi non può essere considerata una morte naturale o dovuta a qualche errore dei medici. E un processo che parte «su una base sbagliata, su una grande ipocrisia, francamente non mi interessa», commenta un anno dopo Ilaria Cucchi, la sorella di Stefano.
Dopo una drammatica notte a Regina Coeli, i compagni di cella raccontarono di un ragazzo che non riusciva a stare in piedi. Ma al Fatebenefratelli, l’ospedale di fronte al carcere giudiziario, Cucchi passa due volte e per due volte viene restituito alla galera. La prima volta viene mandato lì da un medico che lo vede al suo arrivo dal tribunale (e che sarà licenziato poco dopo) e sarebbe andato via di sua volontà firmando a mezzanotte per il rientro. La seconda per essere destinato al repartino penitenziario del Pertini. Ma al Pertini Stefano sarà ancora più solo, con la schiena spezzata e senza sapere che i genitori ogni giorno sbattevano al muro di gomma della burocrazia. Impossibile visitarlo, si capisce è un carcere, impossibile sapere come sta. Privacy. E nella privacy grottesca di una cella ospedaliera Stefano prova a comunicare con l’esterno. Chiede a una volontaria della parrocchia di avvertire il cognato. Scrive agli operatori della comunità che aveva frequentato qualche anno prima. Ma la lettera sarà spedita da una mano misteriosa solo dopo la sua morte e resa pubblica dalla comunità quattro mesi dopo con altrettanto mistero.
Stefano muore senza che nessuno si sia degnato di consegnargli i panni puliti che sua madre aveva lasciato alla portineria del repartino. Sua sorella Ilaria, all’obitorio, inorridisce davanti a un corpo sfigurato e dimagrito all’inverosimile. Il tribunale non consente alla famiglia di fare foto durante l’autopsia ma ci riescono le pompe funebri e il caso Cucchi esplode sulla stampa “normale” grazie al coraggio di far pubblicare quelle foto.
Cucchi, però, arrivò già malconcio all’udienza preliminare dopo una notte passata nelle mani dei carabinieri che lo consegneranno agli agenti di custodia della cittadella giudiziaria poco prima di una paradossale udienza in cui né la giudice, né il difensore d’ufficio, si resero conto delle sue condizioni, né delle carte farlocche che lo presentavano come cittadino albanese senza fissa dimora di sei anni più anziano di quello che era. Di tutto ciò nessuno ha mai dato conto e nemmeno del fatto che in quelle carte risulta la nomina di un legale di fiducia che i carabinieri non hanno mai avvertito. Il ministro La Russa ha subito assolto a mezzo stampa la Benemerita, mai sfiorata, pare, dalle indagini sebbene più di una testimonianza faccia capire che c’è un cono d’ombra che si dovrebbe provare a illuminare. Intanto le morti “naturali” continuano a moltiplicarsi nelle sovraffollate prigioni italiane.
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