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Un’estate infame e l’antifascismo vivo

Sta per finire un’estate infame, che ricorderemo a lungo.
L’estate in cui la guerra alle navi delle Ong impegnate nel Mediterraneo, avviata qualche mese fa nella sorpresa generale, è arrivata a compimento con una violenta campagna denigratoria (complici come al solito i media mainstream), l’imposizione di un codice volto a limitarne e condizionarne il campo d’azione e infine affidando al governo fantoccio libico del signor Al Serraj il compito di pattugliare le coste e di riportare i migranti intercettati nei campi di detenzione libici, noti a tutti come regno della violenza, dello stupro, della violazione sistematica dei diritti fondamentali della persona.
15-0-286836171-kifh-u433506276835620dc-1224x916corriere-web-sezioni-593x443Secondo il ministro Minniti, il premier Gentiloni e l’intera (o quasi) classe politica italiana, si tratta di una brillante operazione di “controllo dei flussi”, in realtà è una militarizzazione delle frontiere che implica almeno due enormi prezzi da pagare: il sacrificio di un numero imprecisabile di vite umane; la violazione di molti princìpi sanciti nella Carta dei diritti dell’uomo firmata all’indomani dell’ecatombe chiamata Seconda guerra mondiale.
Si è arrivati a questo risultato al culmine di almeno un ventennio di campagne di avversione – a volte di odio – contro gli stranieri, all’inizio sostenute da sparuti gruppi della destra leghista e dintorni, oggi patrimonio condiviso dell’intero arco politico (e mediatico), con poche eccezioni. Queste campagne hanno reso senso comune il sospetto e l’ostilità per chi viene da fuori e anche per certe categorie di persone che vivono da lungo tempo nel nostro paese, come i figli di immigrati (tuttora privati di diritti civili fondamentali) e le comunità rom.

Stiamo vivendo, in virtù di queste scellerate campagne, un’ossessione collettiva: probabilmente milioni di italiani credono davvero che il nostro paese sia oggetto di “un’invasione” e che di fronte a un’emergenza simile qualsiasi strumento d’intervento sia da considerare accettabile. Infatti, l’attacco alle Ong – accusate sostanzialmente di salvare in mare troppe persone e d’essere quindi un motivo di attrazione verso l’Italia di aspiranti all’emigrazione dall’Africa – è stato condotto si può dire a furor di popolo e solo pochissime voci sono riuscite a segnalare la semplice verità e cioè che si stava mettendo a punto – a forza di esposti, denunce e decreti – un incredibile reato di solidarietà.
E’ stata l’estate dei sindaci che non vogliono gli stranieri nel proprio territorio e delle cariche di polizia – è successo nella capitale davanti a innumerevoli telecamere – contro intere famiglie di rifugiati, colpevoli di avere occupato uno stabile abbandonato per avere un tetto sotto il quale cercare di campare. Violenti getti d’acqua, manganellate, un uso assurdo e sproporzionato della violenza mentre la prefetta della città giustificava e spiegava l’operazione usando un termine inglese – “cleaning” – per l’imbarazzo che procura parlare di “pulizia” visto che l’aggettivo sottinteso è “etnica”.
lapr0130_mgthumb-internaE’ stata l’estate che ha scolpito, attraverso i fatti e le parole, una concezione astratta e deterministica di legalità, disgiunta da qualsiasi aspirazione alla giustizia sociale, e quindi impugnata come una clava contro i poveri, i diversi e gli esclusi, i diversi da “noi”, un “noi” che sembra non avere bisogno di qualificazioni e che pretenderebbe di includere italiani di pelle bianca residenti nel paese da generazioni, in una visione paranoica e irrealistica della popolazione residente e anche del principio normativo di cittadinanza, che da fondamento della convivenza e base costituzionale dei diritti fondamentali, sta diventando uno strumento di esclusione e divisione.
Sul tappeto restano macerie. Si stanno sgretolando, pezzo per pezzo, lo stato di diritto, le convenzioni internazionali sulla tutela dei diritti umani, l’idea di Europa intesa come superamento dei nazionalismi, causa primaria di infiniti disastri nel corso del ‘900 (e anche prima). Sta scomparendo dall’orizzonte il maggiore contributo portato dallo spirito costituente che guidò la compilazione della nostra carta costituzionale, ossia la preminenza della persona sulla ragion di stato.
Per tutte queste ragioni, danno molto da pensare i discorsi ascoltati il 12 agosto scorso a Sant’Anna di Stazzema, uno dei luoghi simbolo degli orrori della Seconda guerra mondiale e quindi anche della rinascita dopo la Liberazione: si è parlato molto di antifascismo, ma in un’accezione formalistica e legalistica, tutta concentrata su simboli e gadget del regime (e della legge che vuole metterli al bando) e sulla crescente visibilità dei gruppi neofascisti, i quali – in questa retorica – sembrano dei funghi del male spuntati da un misterioso sottobosco, mentre sono – più semplicemente – gruppi entrati in sintonia con il mutato discorso corrente: quante parole d’ordine della destra anche estrema, un tempo respinte, sono oggi pratica amministrativa e politica corrente… In sostanza, prima si opera sul terreno d’elezione della destra, poi si propone una visione dell’antifascismo del tutto disanimata, senza più linfa vitale, mero feticcio da esibire come richiamo, per quelli della propria parte, a ciò in cui credevamo (o in cui credevamo di credere).
La cruciale fase storica ’43-’45 è tuttora fonte di ispirazione per molte persone, che trovano nella rivoluzione morale che animò molti italiani (non solo i partigiani combattenti) l’esempio e la guida da seguire. A qualcuno può sembrare poca e consunta cosa, e invece rivolgere il pensiero a quel periodo storico può essere motivo di orientamento e di guida personale e politica, in un periodo di così diffuse, volgari e violente manipolazioni della realtà.

A quell’epoca chi aiutava ebrei, ex prigionieri o renitenti e disertori a nascondersi, rischiava moltissimo, anche la vita, perché infrangeva leggi dello stato che punivano in modo draconiano il reato di solidarietà, un crimine tornato all’improvviso d’attualità, con i codici imposti alle navi delle Ong o le ordinanze e le inchieste per il sostegno fornito ai profughi di Ventimiglia. Ecco l’antifascismo vivo del quale sarebbe bene parlare.
Bisognerebbe pensare al periodo della resistenza (e della resilienza) volgendo lo sguardo ai nostri giorni con onestà e senza autocensure: potremmo scoprire nei volti di chi tenta di arrivare a Lampedusa o dei rifiugiati riparati alla meglio in una palazzina abbandonata, le nuove vittime di un’oppressione ingiusta, della quale chi si dichiara antifascista non dovrebbe in alcun modo farsi complice.

Lorenzo Guadagnucci