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Giuseppe Gulotta, 22 anni in prigione «In galera da innocente. Perché?»

Di sicuro c’è solo che è innocente. Innocente ma con 22 anni di galera alle spalle. Innocente ma accusato di strage. È la storia di Giuseppe Gulotta e di un eccidio senza colpevoli, quello di Alcamo Marina, provincia di Trapani, avvenuto il 27 gennaio 1976 e che costò la vita ai carabinieri Carmine Apuzzo e Salvatore Falcetta (nella foto è l’uomo a sinistra accompagnato all’uscita dal carcere dal legale).

Giuseppe Gulotta nel 1976 aveva 18 anni. «Fu una cosa terribile, in paese ne parlavamo tutti. Due giovani carabinieri, quasi miei coetanei, trovati uccisi in una piccola caserma di fronte al mare». Delitto inspiegabile, misterioso. Uccisi nel sonno, la serratura fusa dalla fiamma ossidrica, pistole e divise che spariscono. Una vita serena, di provincia, quella di Giuseppe. Non poteva immaginare che di lì a poco sarebbe finito nel tritacarne di un mistero di Stato. Lui che di politica nulla sapeva. Anni 70, roba per stomaci forti, quando i sogni di un mondo migliore stavano svanendo in un delirio di piombo. «La mia era una vita di lavoro. Prima dal barbiere, poi muratore. Ero un ragazzino riservato, timido con le ragazze». L’unico lusso una vespa arancione, qualche sera in pizzeria e in discoteca, «ma io facevo tappezzeria» ricorda Giuseppe. Sempre in compagnia di Gaetano e Vincenzo, gli amici con cui era cresciuto.
Quando i due carabinieri vengono uccisi, Giuseppe sta aspettando una chiamata dalla Guardia di Finanza dopo aver sostenuto tutti gli esami. Ad Alcamo arrivano due squadre di investigatori, quella del colonnello Giuseppe Russo, un mastino dell’antimafia, e quella dell’antiterrorismo di Napoli. Scatta la caccia all’uomo. Il movente è politico, è terrorismo. Due carabinieri morti esigono un colpevole, a ogni costo. E a pagare il prezzo sono quei tre amici inseparabili: Giuseppe Gulotta, Gaetano Santangelo e Vincenzo Ferrantelli. A chiamarli in causa è un altro ragazzo di Alcamo, con il quale a volte uscivano: Peppe Vesco. È un tipo particolare Vesco, un po’ naif: un chiacchierone che al bar parla di rivoluzione, di anarchia e che ha perso una mano in un incidente. In paese lo chiamano “Peppe ’u pazzo”. È il 12 febbraio 1976. Il tritacarne è in azione. Lo mettono in moto una decina di carabinieri agli ordini del colonnello Russo. Vesco viene arrestato per un’infrazione. Nella sua macchina i carabinieri trovano una pistola. In caserma Vesco viene sottoposto a torture indicibili: botte, scosse elettriche, costretto a bere acqua e sale. Prima nega qualsiasi coinvolgimento nella strage poi dice che la refurtiva sottratta sul luogo del delitto si trova in casa di un bottaio, Giovanni Mandalà, dove viene recuperata. Poi altre torture. Alla fine ammette: ho fatto la strage con i miei amici Gulotta, Ferrantelli e Santangelo. È la svolta: i tre ragazzi vengono arrestati e dopo una notte da film horror confessano tutto. Tutto ciò che non avevano mai fatto.
«La mia innocenza è nelle carte» dice Gulotta che oggi, dopo 22 anni di carcere da innocente, con il processo di revisione in corso, racconta a l’Unità la sua storia. Ci sono carte che grondano sangue e lacrime. Le lacrime e il sangue di Gaetano Santangelo, Giuseppe Gulotta e Vincenzo Ferrantelli. Le carte, quelle in cui si autoaccusano, sotto tortura, della strage. Sono le 10 di sera del 12 febbraio 1976. I tre ragazzi, dopo la denuncia di Vesco, sono in stato di fermo. «Stavo riparando il bagno di casa. Fui portato in caserma». Siamo ad Alcamo, provincia di Trapani, Italia. Ma potrebbe essere l’Argentina dei generali, il Cile di Pinochet, un gulag sovietico o una prigione talebana. Da mezzanotte all’alba Giuseppe Gulotta viene torturato come un desaparecido. Perché per tutti, lui, quel 18enne timido che voleva indossare la divisa della Finanza, ufficialmente non è lì. Il verbale di arresto segnala che Gulotta arriva in caserma alle 5 del mattino e non alle dieci di sera. Ecco il racconto dell’orrore: «Verso mezzanotte mi legano mani e piedi a una sedia. Provo a divincolarmi e spezzo il bracciolo della sedia. Iniziano a urlare che li avevo uccisi io i due carabinieri. Ovviamente nego. Mi circondano, sono una decina, tutti carabinieri in divisa. Mi picchiano in faccia, mi sputano addosso. Calci e pugni. Urlano: sei stato tu, dillo. I tuoi amici hanno ammesso tutto». Non era vero. In quei momenti uguale trattamento subivano Gaetano e Vincenzo. Spunta anche una pistola che scortica la faccia di Gulotta. «Se non confessi ti ammazziamo», minacciano.
«Uno da dietro mi teneva la testa, mentre un altro carabiniere mi schiaffeggiava». Era il colonnello Russo che Gulotta riconoscerà molti anni dopo. «Quando smise, un altro prese a strizzarmi i genitali. Non finivano più». Russo finirà ucciso l’anno dopo e per uno strano caso anche lì ai sospettati verrà estorta una confessione sotto tortura. In realtà il colonnello venne ucciso da Leoluca Bagarella, allora giovane boss emergente.
Carte che grondano sangue. È il verbale della confessione di Giuseppe. «Era l’alba quando mi arresi alle botte». «Ditemi quello che devo confessare, basta che non mi picchiate più» dice agli aguzzini in divisa. «Si fermarono. Mi portarono in un’altra stanza e mi ammanettarono a un termosifone. Ero una maschera di sangue. Accanto a me c’era un avvocato, una donna giovane che fumava, non mi degnò di uno sguardo. Firmai il verbale di confessione, avevo solo diciotto anni». La dignità non abitava in quella caserma, quella notte. C’è solo un carabiniere che non viene contagiato da quell’isteria collettiva. «Gulotta mi sembrò un pulcino impaurito e bagnato» ricorda oggi.
Dopo la confessione estorta Gulotta viene portato a Trapani in carcere e poi nel pomeriggio si trova di fronte ai vertici della procura, Genco e Lumia. «Ero in uno stato pietoso. Stavo per dirlo anche a una guardia carceraria cosa avevo subito ma il carabiniere che era con me mi strinse forte il braccio. Mi ricordo bene cosa disse: “Scrivete che è scivolato in caserma su una buccia di banana”». Ancora carte che sanguinano. «La frase finì nel verbale – dice Gulotta – I miei abiti pieni di sangue sparirono». Raccontò tutto anche ai magistrati. «Dissi che ero innocente, dissi delle torture. Non potevo immaginare che l’avrei ripetuto a decine di altri pm per altri 30 anni. Non successe nulla». A parte quella confessione a suon di botte, non c’è nulla che somigli a un’indagine sulla strage di Alcamo Marina. Non viene appurato con un esame, lo stub, se i quattro sospettati hanno usato armi, non si accerta il loro alibi, non si cercano altri testimoni. Vesco esce di scena nell’ottobre del 1976 dopo aver ritrattato le accuse: privo di una mano si impicca in carcere. Una versione inverosimile ma ufficiale: altre carte insanguinate. Muore con lui una delle possibilità per capire.
Tra assoluzioni e condanne. Intanto Gulotta sconta 2 anni e 3 mesi di carcere. Nel 1988 ha un figlio da Michela la sua attuale compagna. Nel ’90 la sentenza definitiva: ergastolo. Inizia a scontarlo, da innocente. Con una forza sovraumana. «Avevo degli obiettivi: la revisione del processo e aspettare i primi permessi per ritornare in famiglia. Ho sempre sperato nella giustizia». Un detenuto modello, mai una protesta, mai pensato a fuggire, a sottrarsi a quella condanna ingiusta. Gli altri due, Ferrantelli e Santangelo, invece scappano in Sudamerica. Lui no: rimane in carcere, chiede la revisione, trova nella sua compagna e nei figli un baluardo contro l’assurdo dolore. «Ho accettato il corso della giustizia. Non volevo fuggire, volevo giustizia». E la giustizia – o quel che ne rimane – arriva nel 2008, trentadue anni dopo l’infamia. Riappare quel carabiniere che vide Gulotta, «il pulcino bagnato e impaurito», subire le torture. È Renato Olino e decide di parlare. Si innesca così il meccanismo che porta al processo di revisione. Il 24 giugno scorso Olino racconta tutto davanti alla Corte di Reggio Calabria. Ha riavvolto il film di quella notte, di quel branco di lupi in divisa che non la smetteva di picchiare, che non voleva la verità ma solo un colpevole, uno qualsiasi. Il 22 luglio 2010, dopo 22 anni di detenzione, Gulotta esce dal carcere in libertà vigilata.
«Vorrei sapere chi e perché mi ha fatto questo. Ho iniziato a documentarmi. Siamo finiti in una vicenda enorme, legata ai misteri di questo paese. Io voglio capire cosa è successo ad Alcamo, in Sicilia, in Italia in quegli anni. Ci sarà qualcuno che mi dirà in che razza di storia sono finito, da che parte stavano i carabinieri, da che parte stavano i giudici. Siamo stati i capri espiatori di una cosa molto più grande di noi che non si doveva conoscere. Questo è stato il modo in cui alcuni carabinieri hanno creduto di fare giustizia dei loro colleghi uccisi?». Come tutti i misteri italiani dietro la strage si intravedono 007 e traffici di armi, trame e segreti: il tritacarne di Stato in cui è caduto Gulotta. Recentemente la procura di Trapani ha aperto due inchieste. Una sulla morte dei due militari, l’altra su 4 carabinieri accusati di sequestro di persona e lesioni gravissime: sono Giuseppe Scibilia, Elio Di Bona, Giovanni Provenzano e Fiorino Pignatella. Due indagini che potrebbero rispondere alla domanda di Gulotta: perché?
Gli indagati si sono avvalsi della facoltà di non rispondere anche se per quei reati, per quelle torture è già scattata la prescrizione. «Questo mi fa rabbia – dice Gulotta – perché ancora una volta negare la verità? Che Stato è quello che condanna un innocente e permette a un colpevole, che è anche un carabiniere, di tacere la verità?». Coltiva anche un sospetto terribile. «In tanti conoscevano la verità. Credo che Olino l’avrebbe potuta dire prima ma i tempi non erano maturi, qualcuno gli ha consigliato di tacere, per trent’anni». Nessuno ha chiesto scusa a Gulotta. «Solo Olino. Dopo la sua testimonianza si è venuto a sedere vicino a me. Per un attimo ho provato quasi timore. Mi ha guardato e mi ha detto, “Alzati Giuseppe”. Mi ha abbracciato forte: “Scusami, anche a nome dei miei colleghi”. Nessun altro si è fatto sentire».


di Nicola Biondo da unita.it