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41 bis, il Gom e le nostalgie di un passato di violenze

Il corpo operativo della polizia penitenziaria che passerà da 597 a 620 unità, provvede al servizio di custodia dei detenuti sottoposti al carcere duro

Da pochi anni, soprattutto dopo il cambio di guardia della direzione del Dap, c’è il tentativo di umanizzare, rendere costituzionalmente accettabile il ruolo dei Gom, il corpo d’élite della polizia penitenziaria, che ad agosto ha avuto un ampliamento ulteriore delle sue funzioni come la sorveglianza dei detenuti accusati di terrorismo islamico, oltre alla promessa – fatta dal capo del Dap Santi Consolo durante l’audizione alla commissione antimafia – di passare da 597 a 620 unità come prevede la nuova pianta organica.

Se da una parte c’è un tentativo riformatore, dall’altra – all’interno del Gom – ci sono rigurgiti conservatori che, nascondendosi dietro l’anonimato tramite un articolo del Fatto Quotidiano, sollevano critiche mettendo perfino in discussione la nuova circolare del Dap sul 41 bis perché, a detta loro, avrebbe reso il carcere duro un grand hotel.

Eppure la circolare non ha fatto modifica alcuna, ma ha solo uniformato per tutte le carceri le regole già preesistenti, compreso il divieto del vetro divisorio per i bambini minori di 12 anni. Regola, appunto, già esistente, con l’aggiunta che i bambini possono stare più tempo con il genitore. Critiche, lamenti di persone con alle spalle – secondo quanto ha scritto il Fatto – vent’anni di esperienza, che evocano un passato che non c’è più e si spera che non ritorni.

Infatti il Gom, nel passato, si è trovato al centro di pesanti polemiche e denunce per la scia di pestaggi lasciati all’interno delle carceri dopo il suo passaggio, come quello nella struttura di San Sebastiano di Sassari dell’aprile 2000, e per le brutali perquisizioni nel carcere milanese di Opera ( da presidente della commis- sione Giustizia della Camera, Giuliano Pisapia aveva denunciato senza mezzi termini gli «episodi di brutalità» avvenuti, parlando del passaggio di «un vero e proprio uragano che ha distrutto ogni cosa» ), fino alla gestione della caserma Bolzaneto, con relative torture, durante il G8 di Genova 2001 che, tre giorni fa, è costata una condanna dalla Corte europea. Non sono mancate nemmeno le denunce da parte dei penalisti per aver messo in passato sotto controllo, illegal- mente, i colloqui con i detenuti al 41 bis.

Il Gom è il gruppo operativo mobile attualmente gestito dal generale Mauro D’Amico. Fu istituito nel 1997 con un provvedimento firmato dall’allora capo del Dap, Michele Coiro, ma soltanto due anni dopo con il Decreto Ministeriale del 19 febbraio 1999, firmato dall’allora ministro della Giustizia Oliviero Diliberto -, ebbe il suo definitivo riconoscimento. Il Gom nasce per provvedere al servizio di custodia dei detenuti sottoposti al regime previsto dall’articolo 41 bis, il carcere duro. Tale norma legislativa venne introdotta nel 1992, nel ‘ super decreto antimafia’. Ufficialmente lo scopo del 41 bis sarebbe quello di recidere ogni possibile contatto del detenuto con l’esterno, e quindi, con l’organizzazione criminale di riferimento. Proprio per far sì che ciò avvenisse, ven- ne creato il Gruppo operativo mobile.

Il Gom raccolse l’eredità di un altro reparto, lo ‘ Scopp’ ( Coordinamento delle attività operative di Polizia penitenziaria), istituito nei primi anni ‘ 90 soprattutto per consentire la sicura esecuzione dei processi, e del ‘ Battaglione Mobile’ dell’allora corpo degli Agenti di custodia, che operò a cavallo fra gli anni 70 e 80. Anche lo Scopp” fu al centro delle polemiche.

A testimoniare le violenze è stato Piero Ioia, un ex detenuto al carcere di Poggioreale e ora presidente dell’associazione “ex detenuti organizzati napoletani”. Fu lui che assistette alla nascita della famigerata cella zero del carcere di Poggioreale. Ioia ha raccontato che una mattina, mentre tra detenuti si commentava il trasferimento notturno e coatto di alcuni boss mafiosi avvenuto nei giorni precedenti, all’ improvviso ci fu l’irruzione armata dello Scopp che sparò all’impazzata verso il soffitto del padiglione. Ioia così ha narrato il seguito: «A quel punto tutti noi ci rifugiammo all’interno delle nostre celle. Io mi infilai sotto al mio letto dove sentivo fischiare le pallottole fin dentro la mia cella. Il tutto durò per pochi e interminabili minuti e restammo chiusi per tutta la giornata nelle celle». La pace però finì presto. «Verso le 19 e 45 della stessa giornata – continua Piero Ioia – sentimmo delle urla strazianti in lontananza. Piano piano si fecero sempre più forti finché fu la volta della nostra cella: entrarono due uomini alti, robusti e incappucciati dove con fucili alla mano ci intimarono di spogliarci nudi. Una volta spogliati ci pestarono con il calcio del fucile e ci obbligarono ad uscire di corsa fuori dalla cella. Ad aspettarci c’erano altri uomini che ci accompagnarono con calci, pugni e manganellate giù al piano terra. A quel punto, sotto il tiro delle armi, faccia al muro fummo pestati con manganelli dietro la schiena e sui glutei. Poi ci fecero correre tra le due fila composte da giovanissime guardie che arrivarono dalla scuola della polizia penitenziaria di Portici. Continuarono a pestarci con manganelli, pugni e, come se non bastasse, venimmo azzannati da cani di razza, i pastori tedeschi». Le torture però non finirono lì: «Ad alcuni detenuti, i cani gli morsero i genitali e rischiarono di farseli strappare. Poi di corsa, tutti tumefatti, pieni di sangue e senza alcuna assistenza medica, fummo portati giù alle compresse dove all’epoca cerano celle segrete molto ampie. Dopo due giorni, legato mani alla schiena e incappucciato, venni prelevato e portato in un ufficio. A quel punto mi fu tolto il cappuccio e vidi davanti a me molti uomini con il viso coperto. Alla domanda dove avevo nascosto la pistola, io risposi di non saperlo. Quindi mi fu rimesso il cappuccio e portato di peso al piano terra di un padiglione, mi fu tolto di nuovo il cappuccio e vidi una cella vuota con una luce rossa opaca, uno sgabello e una corda a cappio. Al tal punto io subito dissi dove nascosi l’arma e mi fu risparmiata l’ennesima tortura».

Damiano Aliprandi da il dubbio