Di quale verità parla il nostro massimo responsabile della diplomazia? Fino a ieri erano due le verità certe: la tortura in Egitto come pratica sistematica e il corpo torturato a morte di Giulio Regeni. Ora ne abbiamo un’altra: l’Italia con le parole di Alfano ha scelto la via dell’ingiustizia. Il presidente egiziano ringrazia Renzi per il sostegno al regime. La Farnesina: «È interlocutore appassionato». Intanto, confermati i 5 anni di condanna per il leader di Tahrir Alaa Abdel Fattah Nubiani arrestati «per proteste»
Siamo sufficientemente esperti da sapere che la verità storica non è sovrapponibile alla verità processuale. Ogni investigazione su fatti criminali – di minore o maggiore rilevanza pubblica – è un procedimento più o meno faticoso, lungo, inquieto, stentato di approssimazione alla verità.
La parola ‘verità’ va usata con grande cautela, con assoluto rispetto. Ieri invece è stata maltrattata, abusata a proposito di Giulio Regeni. «Siamo convinti che il presidente egiziano Abdel Fatah al Sisi sia un interlocutore appassionato nella ricerca della verità»: queste le parole del ministro degli esteri Angelino Alfano.
Di quale verità parla il nostro massimo responsabile della diplomazia? Non di certo dell’unica verità di cui noi disponiamo, ossia che in Egitto la tortura è una pratica sistematica.
Poco prima dell’estate il Comitato delle Nazioni unite contro la tortura aveva testualmente scritto nel proprio rapporto sull’Egitto: «La tortura segue spesso gli arresti arbitrari ed è usata per ottenere confessioni o per punire e minacciare i dissenzienti politici. La tortura avviene nelle stazioni di polizia, nelle prigioni, nei luoghi di Stato, nelle caserme delle forze di sicurezza. La tortura è perpetrata da poliziotti, militari, guardie penitenziarie. I torturatori quasi sempre godono di piena impunità, sebbene la legge vieti la tortura, evidenziando una grave distonia tra la legge e la pratica.
Alla luce di tutto ciò, si giunge alla conclusione che la tortura è una pratica sistematica in Egitto».
Le parole di Alfano vanno oltre la classica e amara real-politik. Esse costituiscono un omaggio personale a chi, secondo le Nazioni Unite, è a capo di uno Stato dove vengono commessi sistematicamente crimini contro l’umanità. Alfano scomoda la parola ‘verità’ pur di tenere in piedi relazioni politiche ed economiche.
Sarebbe stato ben più apprezzabile essere franchi e affermare con cinismo che di fronte a ragioni geo-politiche e commerciali i diritti umani e la giustizia debbano essere sacrificati. Invece viene scomodata addirittura la parola ‘verità’ per giustificare quella montagna di ‘non verità’ che finora sono giunte dalle parti del Cairo.
Perché a Sharm El Sheikh, a margine del Forum mondiale della gioventù, Al Sisi avrebbe affermato che le autorità egiziane si starebbero impegnando a trovare i colpevoli e che Giulio Regeni sarebbe stato torturato e ammazzato per far del male alle ottime relazioni (vale a dire investimenti) italo-egiziane.
Ma allora come si spiegano i numerosi intollerabili tentativi di depistaggio e la riottosità delle autorità egiziane a collaborare fattivamente e seriamente con quelle italiane? Secondo il nostro ministro degli esteri Angelino Alfano, Al Sisi sarebbe un appassionato uomo alla ricerca della verità, uno statista dunque. La verità fa parte dello stesso campo semantico della tortura e delle sparizioni forzate.
Se è la verità a stare a cuore ad Alfano ed Al Sisi allora leggano quelle verità scritte a chiare lettere da Amnesty International ed Human Rights Watch o presenti nell’ultimo Rapporto del Dipartimento di Stato degli Stati uniti secondo cui le autorità egiziane fanno sempre più uso di sparizioni forzate, utilizzate per scoraggiare l’insorgere di eventuali critiche d’opposizione.
Secondo la diplomazia americana non c’è proprio da fidarsi della giustizia egiziana: «I pubblici ministeri si sono regolarmente rifiutati d’indagare sulle denunce di tortura e altri maltrattamenti avanzate dai detenuti e sulle prove che mostravano che le forze di sicurezza avevano falsificato le date dei verbali d’arresto, nei casi di sparizione forzata».
Prima di ieri l’unica verità certa di cui disponevamo era il corpo torturato a morte di Giulio Regeni. Ora ne abbiamo un’altra: l’Italia con le parole di Alfano ha scelto la via dell’ingiustizia e della non verità.
Patrizio Gonnella Presidente dell’associazione Antigone
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Sono più gravi le dichiarazioni del presidente al Sisi dal palco del World Youth Forum di Sharm el Sheikh o le reazioni del ministro degli esteri Alfano? Scelta difficile, ma viene da dire le seconde.
Mercoledì il generale golpista è tornato a parlare di Giulio Regeni di fronte a giovani da tutto il mondo, ospiti della piattaforma sponsorizzata dal Cairo (nell’idea, come raccontavamo su queste pagine il 2 novembre, di «dare voce ai giovani», purché non contestino).
Lo ha fatto tirando fuori la stessa narrativa di un anno e mezzo fa: la barbara uccisione di Giulio serviva a non meglio precisati nemici del regime per vanificare gli investimenti italiani in Egitto.
«Desideriamo scoprire i colpevoli e stiamo agendo in maniera molto trasparente con le autorità italiane – ha detto – (…) Pensiamo ci sia stato un tentativo, durante la visita di uomini d’affari e imprenditori italiani (la missione guidata dall’ex ministra allo sviluppo economica Guidi, proprio il giorno del ritrovamento del corpo martoriato di Regeni, ndr) pronti a compiere investimenti, di distruggere quell’iniziativa».
E, aggiunge, i «complottisti» ci sarebbero riusciti. Sbagliato: gli investimenti italiani in Egitto non si sono mai fermati, a partire dai mega progetti di Eni nel giacimento off shore di Zohr, quelli di Edison nei bacini di Abu Qir, West Waidi El Rayan e Rosetta, la vendita di armi (2.450 chili ad aprile 2016, un milione di euro), 2,5 miliardi in appalti ad aziende italiane e un interscambio totale aumentato del 30% nel primo semestre di quest’anno.
Il business continua ancora oggi, con buona pace dei «complottisti» di cui sopra: il nuovo ambasciatore al Cairo, Giampaolo Cantini, fa la spola da settimane da un ministero egiziano all’altro per portare a casa nuovi accordi commerciali. Ieri era in visita al ministero dell’agricoltura per esaminare nuove potenziali collaborazioni in campo agricolo.
È in tale contesto che vanno lette le dichiarazioni che ieri il ministro degli Esteri Alfano ha rilasciato in reazione a quelle di al Sisi: «Siamo convinti che il presidente al Sisi sia un interlocutore appassionato alla ricerca di questa verità. Abbiamo scelto di riprendere un certo livello di rapporti perché crediamo che la cooperazione con l’Egitto sia indispensabile perché la morte di Regeni non potrà restare impunita».
Il trionfo di una real politik molto dolorosa. Perché va di pari passo con i tentativi di sviare le attenzioni su Cambridge, mentre Roma non ha mai rotto i rapporti con un regime liberticida e repressivo. E perché nega, a monte, la responsabilità politica della morte di Giulio. Al netto dei carnefici materiali, è in alto che si deve salire, ai vertici di una macchina repressiva tentacolare e paranoica che continua a operare indisturbata.
Gli ultimi esempi sono di questi giorni, storie simili a quelle di altre migliaia di cittadini egiziani. Mercoledì la Corte di Cassazione ha confermato la condanna a cinque anni per uno dei leader di piazza Tahrir, il blogger e attivista politico Alaa Abdel Fattah, colpevole di aver protestato.
L’unica concessione è che gli anni che restano – la prima sentenza è stata comminata nel febbraio 2015 – li trascorrerà in un carcere comune e non di massima sicurezza. Quindi, spiega il suo avvocato, Mokhtar Mounir, non andrà ai lavori forzati.
Poche ore prima manifestanti nubiani venivano arrestati per aver protestato per la morte in custodia di Gamal Sorour, prigioniero in coma diabetico dopo aver iniziato con altre centinaia di detenuti uno sciopero della fame dietro le sbarre. «I manifestanti hanno bloccato la superstrada e la ferrovia tra Il Cairo e Aswan – racconta l’attivista nubiano Abdel Dayem Ezz Eddin all’agenzia indipendente Mada Masr – Sono scoppiati scontri con la polizia. Alcuni di loro, tra i 7 e i 13, sono stati arrestati».
Sono ora nel centro di detenzione di Shallal, con i 24 nubiani detenuti a settembre per aver partecipato alla tradizionale marcia che ricorda l’espulsione del loro popolo dalle terre di Aswan, negli anni ’60
Chiara Cruciati da il manifesto